Filosofia

 

L’Io di Rita Melillo

 

 

Una rigorosa indagine attraverso la via della fenomenologia radicale

 

 

 

 

L’ultimo lavoro di Rita Melillo, studiosa di filosofia teoretica ed antropologa, è un’interessante indagine sul tema dell’io (L’io che non c’è, presentazione di Mariano Bianca, FrancoAngeli, 2008, pp. 116), con l’intento, afferma Mariano Bianca nella Presentazione, di “evidenziare” l’ampia problematica che “la tematizzazione dell’io” solleva e con l’esito di “cogliere pienamente lo stato patologico in cui giace la questione della soggettività”.

L’interesse dell’antropologa verso questa tematica nasce da una lunga indagine sulla Weltanschauung degli Aborigeni canadesi (Ka-Kanata. Pluralismo filosofico, Avellino, Pro-Press, voll. I e II, 1990 e 1993 e Tutuch (uccello tuono). A colloquio con gli Aborigeni del Canada, o Mephite, Atripalda, 2005) che abbiamo avuto modo di analizzare su questa rivista. Qui è raccontato l’incontro, avvenuto concretamente e da vicino, con un mondo altro, dotato di categorie che non sono quelle della nostra cultura.

Da noi abbiamo il mondo della bipolarità  - soggetto ed oggetto -  una coscienza incentrata in un io frutto del logos greco, nelle culture altre, a base mitico-rituale, domina, invece, la coscienza impersonale, non egocentrata, che riceve il suo senso da “intelligenze e volontà estranee”. Qui l’uomo non è autonomo come quello occidentale con la sua razionalità, non riesce a dare “esistenza e senso al mondo”, ma ha “canoni interpretativi della realtà”, che gli consentono una visione del mondo “altra” rispetto a quella occidentale.

Questo mondo, che affascina la studiosa, diventa oggetto della sua indagine, per svolgere la quale non usa i parametri della nostra logica, ma quelli della fenomenologia radicale o del profondo, un metodo messo a punto dal suo maestro Domenico Antonino Conci. Esso ha come perno una epochè radicale, che mette tra parentesi tutta la “sfera dell’oggettivazione” e l’atteggiamento egologico, propri del pensiero occidentale, e mette sotto la sua attenzione il dato fenomenologico, inteso come “un groviglio di fili intenzionali”, come “vissuti saturi ed esaustivi”, unione inscindibile di noesi (attività intenzionale) e di hyle (attività non intenzionale). Tale metodo consente la “ricostruzione genetica” del vissuto, quindi permette di raggiungere il senso originario di una data cultura, ma anche consente, con l’analisi “contrastiva”, cioè con la possibilità di mettere a confronto le varie culture, “di passare da una cultura ad un’altra attuando una sorta di salutare nomadismo culturale”.

Una strada dunque ricca di esiti nuovi. Tra questi c’è un radicale cambiamento nella considerazione dell’altro, che non è più visto “diverso”, “stravagante”, “lontano”, ma “prodotto di una cultura paritetica”, e che porta ad una visione della realtà più ampia, poiché ciascuna realtà, anche la nostra, quella dell’orgoglioso Occidente, diventa “una tra le altre e non più l’unica”. Siamo di fronte, come chiaramente si intuisce, ad un tipo di analisi sicuramente valido e anche più adatto alle condizioni in cui ci troviamo, con il collasso della cultura dell’Occidentale e con la deriva dell’Io che dal secolo scorso si protrae al nostro tempo.

Per questo motivo la studiosa affronta il tema dell’identità personale, che pone sotto la lente di una serrata ed appassionata indagine. Comincia, attraverso uno sguardo sulla lunga tradizione delle indagini filosofiche, con una “ricostruzione storica della nascita dell’io e della sua evoluzione”, che la conduce alle lontane radici della nostra cultura obiettivante, al “processo di astrazione e formalizzazione che portò alla nascita delle scienze, comprese la filosofia e la logica occidentale” e che produsse la concezione dell’io “che pone di fronte a sé un qualcosa da scoprire o da interpretare, un oggetto inerte a cui egli impone le sue leggi” (23).

Il nucleo della teoresi filosofica  - la problematicità del tema dell’Io -  è supportato da un’originale scelta espressiva  - il modello del  Tractatus di Wittgenstein -  in cui le tesi principali, che scandiscono il ritmo dell’argomentazione, sono indicate da una sequenza di numeri decimali accompagnati da un punto e i temi sussidiari e di accompagnamento, che servono a chiarire ed arricchire l’argomentazione, da altri numeri che seguono il punto.

Qui si sviluppa il “tentativo di dare all’Io il suo senso originario”, di essere cioè una costruzione artificiale della cultura occidentale che ha bisogno “dei due poli invarianti dell’ego e della cosa”, (l’uno come “unità invariante di vissuti intesi come atti individuali di un io-polo”, l’altra “come unità invariante di tutte le qualità o le determinazioni individuali di un ente qualsivoglia”), costruzioni vuote e separate, “inventate dalla cultura filosofica e scientifica dell’Occidente sulla base di un logos che fonda, ordina e struttura ogni cosa”. Per fare ciò la studiosa analizza, con sue riflessioni e attingendo al pensiero di autori che hanno affrontato tale problematica soprattutto ad Husserl, il lento processo di de-iletizzazione (la hyle non considerata più viva e animata dall’intenzionalità di una coscienza impersonale) che porta al distacco dal Sacro, e alla de-realizzazione e frantumazione dell’Io, quindi alla sua scomparsa (questo è l’Io che non c’è). 

Di contro si staglia la visione del mondo, che noi non possediamo più, quella della “postura rivelativa” (“un tipo molto particolare, impersonale e irriflesso di avere coscienza radicato nella credenza che ogni pensiero, sentimento o azione non scaturiscano da una intelligenza o volontà interiori e relativamente autonome, ma siano elargite all’uomo esternamente ed eteronomamente”, 28), basata sulla hyle animata, sul realismo segnico, sul tempo del mito e del rito, sullo spazio dell’ubiquità, e che fu il prodotto di un momento evolutivo.

All’inizio della sua esistenza l’ominide viveva in piena solidarietà con l’ambiente  - indistinta immanenza propria dell’animale - e, quando, in seguito agli stravolgimenti tettonici dell’Africa orientale, perdette questo intimo e vitale legame, scoprì l’esistenza di forze che sovrastavano di gran lunga la sua (un qualcosa “che andava ben al di là”, “una trascendenza che poteva uccidere”), il misterium tremendum, potenza originaria del Sacro.

Emerse in questa temperie la coscienza della propria impotenza, primitivo segno di coscienza di sé, legata all’idea di una potenza intimamente unita con la realtà (“Essa è il fondamento reale non in senso metafisico, bensì fenomenologico, che è alla base dei nostri vissuti e che elargisce esistenza e senso all’uomo e al mondo”, 97).

Con un sintagma molto pregnante questa situazione radicale dell’ominide viene definita “disperazione fossile” (“il vissuto identitario di un essere disperato in sé e per sé, disperato per il suo semplice sentirsi di esistere, perchè in quel primate coscienza di esistere e coscienza di impotenza radicale fanno tutt’uno”, 29-30), condizione fondamentale, matrice della nostra umanità, che determina una sorta di salto filogenetico dalla situazione di immanenza propria dell’animale.

In un preciso momento della storia evolutiva dell’umanità, nasce dunque una indistinta coscienza, di perdita e nel contempo di estraneità, come una cacciata da, che provoca la ricerca di nuovi legami, uno svegliarsi. Tale consapevolezza, sia se spontanea o se riflessa, è “l’emergenza più straordinaria della mente umana”, “riflessività attiva”, “capacità di considerarsi come oggetto senza cessare di rimanere soggetto”, qualità squisitamente umana che si sviluppa su un piano diverso (41).

Qui l’uomo ha bisogno dell’altro, che è la molla che fa scattare il divenire (“come uno specchio in cui possiamo vedere riflessa la nostra immagine”), e qui egli può dotarsi di strumenti artificiali  - le protesi culturali -  per difendersi dalle insidie del mondo esterno.

Da questo momento, dopo il salto, l’uomo si qualifica come essere con, unità che non è che “l’un con l’altro”. Siamo sulla strada non agevole che dall’individuo conduce alla “persona” (“Individui sono, ad esempio coloro che cominciano a battere i loro piedi sul terreno e si incuriosiscono al ritmo che ne deriva, ma persona è colui che, ponendosi a capo i quel gruppo, fa sì che da movenze senza senso e casuali ne venga fuori una danza con ritmi precisi e movimenti calcolati, al fine di ottenere determinati scopi”, 43), che è il singolo che non può fare a meno degli altri, che ha bisogno della loro approvazione perchè la sua azione agisce su di essi.

Questo tipo di individuo-persona agisce secondo le leggi della comunità, ha una coscienza tipica delle culture a fondamento mitico rituale, la coscienza impersonale, dei vissuti originari, la sola capace di aprirsi al Sacro e di accogliere i racconti mitici su cui poggiare l’interpretazione della realtà.

Il rapporto col Sacro è l’altro elemento che permette la costituzione dell’io della “postura rivelativa”, propria delle società mitico-sacrali e di quelle agro-pastorali. Il Sacro permea di sé tutto - l’io e il mondo - è presente in ogni azione, in ogni sentimento, in ogni percezione, è nella natura (la hyle, “la realtà animata e dotata di volontà propria”, è noetizzata, cioè “intenzionata sempre da intelligenze e volontà estranee, e viceversa la noesi, l’attività intenzionale, è sempre iletizzata, cioè “non è mai immateriale, ma va sempre ad intenzionare una hyle”), dà “esistenza e senso” a tutto, sia all’uomo che al mondo.

Se all’inizio esso era avvertito come tremendum poi pian piano diventa benefico (fascinans), si avvicina all’uomo, che può addomesticarlo e riprodurlo nel rito e nel mito. Questi diventano doni ancestrali della divinità consegnati alla tradizione perchè potessero essere tramandati attraverso gli antenati, ma devono essere riprodotti nello stesso modo  - doni fermi nel loro mistero, cristallizzati in una forma -  per far svegliare la presenza della divinità e permettere un’attualizzazione delle origini. Le figure potenti devono intervenire “in carne ed ossa” accanto all’uomo, la loro presenza deve essere “efficace e reale”.

In tal modo, con la vicinanza al Sacro, che va incontro a, con la possibilità di far rivivere il sacro, l’io diventa una manifestazione della potenza del Sacro, “riceve senso” dalla figura potente, è “come uno specchio su cui essa si riflette”, è agito da, coinvolto ed immerso nel mondo incantato di questo tipo di cultura. Non è questo io a dare senso alla realtà, perchè non è una datità originaria, può solo “raccogliere le nostre percezioni in una unità” (98).

Parimenti la realtà è unione di essere ed essenza secondo un “realismo segnico” per il quale ogni segno (“il precipitato oggettivo di qualsiasi cultura”) è manifestazione della “potenza che salva”, non un rimando a, ma identità di apparire ed essere (“l’immagine sacra, il santino per intenderci, è potente, poiché in essa è effettivamente presente ed operativa la potenza di Dio, della Madonna o dei Santi: il devoto crede che quell’immagine abbia la possibilità di salvarlo al pari della potenza originaria”). L’immagine sacra è “il precipitato diretto della ierofania o della teofania”, una modalità della sua stessa rivelazione visiva, non un segno di qualcosa che sta altrove, una copia, ma implica la presenza reale della sacralità nella figura. Infatti la realtà è “il vissuto di una coscienza, che pur non avendo un io è non di meno coscienza, ma di tipo speciale, che riflette come lo specchio” (“Questa singolare modalità coscienziale si presenta ed agisce come uno specchio meramente riflettente, gremito di contenuti non propri”) in cui non è possibile distinguere lo specchio da ciò che rispecchia (l’immagine dello specchio, che qui si ripete, rende bene una caratteristica saliente di questo tipo di coscienza) (100-101).

Queste argomentazioni fanno comprendere quanto diverso sia l’io della cultura obiettivante dell’Occidente, che ha bisogno di due “costruzioni essenziali” - i poli soggetto-oggetto -  per cui si ha come conseguenza che, “se viene a mancare uno dei due termini, anche l’altro non ha più bisogno di esistere”. L’Io occidentale, “identico pur nel mutare degli Erlebnisse” (“con la sua attività noetica l’io tende verso la hyle animandola e così succede per tutti gli atti di coglimento di senso”, 98), autonomo, indipendente, autodeterminantesi, bloccato, considera assoluti i propri canoni interpretativi della realtà quindi si ritiene detentrice della Verità. Di qui l’arbitrio di “proiettare sugli altri le proprie coordinate culturali”, l’orgoglio di giudicare “tutto come inferiore, come selvaggio”, la superficialità di considerare gli altri “sempre dei diversi e dei sottosviluppati” .

Questo io, come si è detto, è in crisi insieme alla sua cultura, sta scomparendo (“e l’io come centro narrativo, o l’io delle personalità multiple, o l’io dei quadri di Escher sono delle esemplificazioni che ho voluto usare per sottolineare che la perdita del soggetto si avverte in tutte le discipline”), mentre nuove strade si aprono alla ricerca.

La nuova strada, quella della fenomenologia radicale, è capace di giungere a qualcosa di diverso e più profondo, mostra noi uomini “altri tra gli altri”, “ci mette nelle condizione di interpretare i segni lasciati dalle altre culture”, anche quelli della nostra cultura, ci pone dinanzi non “oggetti pietrificati”, ma “vissuti” che possano svelarci i “fili intenzionali” che ci conducono “all’apprensione del loro senso originario” (102). Si scopre, attraverso questa strada, che alla base della “relazione intenzionale” di ogni vivente c’è il bisogno del “suo altro”, l’unico in grado di “portare a compimento il processo di costituzione del significato” (102).

Ma c’è di più poiché si scopre anche la ricchezza dell’uomo considerato come “sistema aperto”  - il sistema autoreferenziale è un vicolo cieco -  nel senso che l’uomo non è un “eidos umano predefinito”, ma capace di processi di acquisizione e mutazione resi possibili dalla contaminazione culturale (“processo di meticciamento col mondo”), o meglio è capace di un lento e continuo “processo di ibridazione” con l’ambiente circostante, con gli altri esseri viventi, ma anche con esperienze e mondi lontani dalla nostra realtà, tra cui non ultimi gli animali, generatori di conoscenza (“Insomma quando l’uomo non ancora possedeva il suo equipaggiamento tecnologico, gli animali erano gli unici suoi promotori di conoscenza, poiché osservare il comportamento delle altre specie significava avere a disposizione un vero e proprio sillabario per comprendere il mondo e aumentare conseguentemente le probabilità di sopravvivenza”, 105. Significava anche “prendere coscienza delle sue capacità mettendole a confronto con quelle degli animali, di fronte ai quali esse sembrano essere inadeguate”, 103).  Estrema opportunità di apertura all’altro.

La peculiarità dell’uomo, evidenziata lungo il processo evolutivo, sta proprio nella capacità di rapportarsi, in modo attivo e creativo, con realtà altre, sta nel saper “perdere” la solidarietà col proprio ambiente o contesto di riferimento (“sindrome del ragno”), sta nel saper attingere alla presenza accanto a sé dell’altro, in quanto “proprio l’alterità consente la costruzione dell’identità”.

All’inizio della sua evoluzione l’uomo è stato vicinissimo alla natura, da cui era uscito, e proprio questo fatto l’ha posto “nelle migliori condizioni di vivere la propria identità personale”. Di questo primitivo rapporto dell’uomo con gli animali fa parte anche la “sacralizzazione” degli animali e degli elementi naturali o la “fusione” con essi, che ha prodotto creature come il Minotauro o la Sfinge. Il processo di ibridazione sembra una modalità feconda, se, oltre che con gli animali e la natura, è avvenuto ed ancora avviene, con le macchine, che in vario modo “hanno invaso il corpo umano” e lo aiutano fornendogli un vero “equipaggiamento tecnologico” (103-104).

La Melillo con queste indicazioni attinge a Roberto Marchesini, studioso di scienze biologiche e di epistemologia, di cui sottolinea un’interpretazione della cultura “veramente interessante” e l’attenzione al “problema dell’ibridazione dell’uomo con l’alterità”, intuendo una strada ricca di prospettive future.

In conclusione possiamo dire che con questa indagine la Melillo ancora una volta richiama alla mente l’immagine che mettemmo in evidenza nell’analisi dello studio Tutuch (uccello uomo) citato all’inizio di questa nostra riflessione, cioè del lembo di tenda alzato sul mondo aborigeno, perchè leggendo queste sue pagine l’abbiamo vista attenta ed aperta, disposta e dialogante col mondo che quel gesto le apriva. Il suo non è uno sbirciare per curiosità, ma è il bisogno dell’uomo di chiedere collaborazione all’altro, una richiesta di alleanza ed interscambio, sicuramente è un chiedere  ospitalità.

Ci auguriamo che la studiosa continui sulla strada della fenomenologia radicale per giungere a conquiste filosofiche che questo metodo così fecondo promette.

 

 

In “Riscontri”, 2009

 

 

 

 

 

 

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