Il
fondamento della vita
Che so io di Dio e
del fine della vita?
Io so che questo
mondo è.
Che io sto in
esso, come il mio occhio nel suo campo visivo.
Che in esso è
problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso.
Che questo senso
non risiede in esso ma fuori di esso.
Che la vita è il
mondo.
Che la mia volontà
compenetra il mondo.
Che la mia volontà
è buona o è cattiva.
Che, dunque, bene
e male ineriscono in qualche modo al senso del mondo.
Il senso della
vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio.
(Ludwing Wittgenstein, Diario, 11 giugno 1916).
Con fiducia e gioia lungo un
cammino di vita che abbia un senso: ma qual è il fondamento della vita?
Accadde un paio di mesi prima
del cinquecentesimo anniversario della fondazione dell’università di Tubinga,
che risale al 1477: il presidente dell’università, Adolf Theis,
mi espresse da parte del comitato per le celebrazioni il desiderio che fossi io
a tenere il discorso ufficiale. Per me fu una triplice sorpresa: non lo si
chiedeva a uno storico, a un docente di retorica o a un filosofo, bensì a un
teologo. La scelta di pronunciare il discorso, nella chiesa collegiata luterana
dove era stata fondata l’università, non era caduta su un teologo luterano
bensì su uno cattolico. Il tema da trattare non doveva
essere legato alla storia dell’università ma riguardare una questione centrale
dell’esistenza umana. Accettai questo glorioso ma difficile incarico, nella
consapevolezza che avrei dovuto tenere il discorso in una situazione sociale e
politica esplosiva: era il 1977, il culmine dell’ondata di terrorismo politico ad opera della Rote Armee Fraktion. La mia domanda
già allora era:
La fede in Dio ha
un futuro?
Nella nostra passeggiata in montagna
arriviamo ora a una parete ripida, che è necessario superare, «trascendere».
Alcuni si tireranno indietro, altri sanno invece che non si può giungere in
altro modo alla vetta. Perciò cercherò almeno di fissare qualche chiodo nella
roccia.
POSSONO MORIRE LE RELIGIONI, MA
NO
Se diamo uno
sguardo a ritroso alla storia dell’umanità, è indubbio che la religione ha un grande passato. Le ricerche in ambito
storico-culturale mostrano che non sono mai stati trovati un popolo o una
stirpe privi di elementi religiosi, anche se spesso tali elementi non sono
distinguibili dalla magia. La religione è onnipresente, in ogni tempo e luogo.
Ma guardando in avanti, è possibile dedurre dal passato che la religione
esisterà anche in futuro? Non è assolutamente detto. Le religioni possono
morire: è successo a quella egizia, babilonese, romana, germanica... Ma può
morire anche la religione in quanto fenomeno dell’umanità? Credo sia
altrettanto poco probabile quanto la morte di altri fenomeni che riguardano
l’umanità, per esempio l’arte e la musica.
Nell’epoca moderna
l’Europa occidentale e quella settentrionale hanno avuto in realtà uno sviluppo
particolare con conseguenze a livello mondiale. Dell’Illuminismo abbiamo già parlato.
Nel XVII e XVIII secolo, attraverso un processo di «laicizzazione» o
«secolarizzazione», alcuni ambiti fondamentali nella vita della società furono
svincolati dal contesto religioso: la filosofia, le scienze naturali, la
medicina, il diritto, lo Stato, l’arte e la cultura. Diventarono laici, «secolari»,
dunque indipendenti, autonomi, obbedienti a leggi proprie. In principio, sul
piano di fatto, la secolarizzazione mirava solo alla «secolarità», alla
laicità, l’autonomia, l’indipendenza nei confronti del dominio religioso da
parte della Chiesa, senza soffocare la religione. Non significava
necessariamente un «secolarismo» ideologico, non significava l’irreligiosità,
propugnata nella teoria o anche semplicemente vissuta nella prassi. Tuttavia,
alla luce di tale sviluppo s’impone con sempre maggior evidenza, non da ultimo
nelle nostre università, la domanda: la fede in Dio ha ancora un futuro?
Con il mio
discorso in occasione dello storico anniversario volevo rendere un servizio
alla mia università, ma anche alla «causa di Dio», che è l’oggetto della
«teo-logia», il «discorso su Dio». Mi sentivo ben preparato: stavo per
concludere il mio lavoro su una «risposta alla domanda di Dio della modernità»
che era durato quattro anni e sarebbe stato pubblicato di lì a poco con il
titolo Dio esiste?.
Così l’8 ottobre 1977, dopo un «indirizzo di saluto» simpatico e critico del
presidente della Repubblica Walter Scheel al
movimento degli studenti, tenni il mio discorso, Heute
noch an Gott
glauben? (Credere ancora in Dio
oggi?); entrambi vennero pubblicati poco tempo dopo.
Di ciò che ho
affermato in quell’occasione sono ancora convinto: chi oggi vuole sostenere su
basi ragionevoli che la fede in Dio ha un futuro, deve conoscere e prendere sul
serio gli argomenti contro la fede. E incontestabile: spesso chi era contro la
religione era contro la religione istituzionalizzata, era contro Dio perché era
contro
Fede contro scienza
e democrazia
Come membro della
«Repubblica degli eruditi di Tubinga» - come recita il sottotitolo della storia
dell’università di Tubinga redatta da Walter Jens -
mi dispiaceva allora, come mi dispiace oggi, che ci si richiami sempre a Dio
per combattere la scienza moderna. Il caso Galilei, il caso Darwin, ma ai
nostri giorni anche quello della morale sessuale (contro pillola, preservativi,
inseminazione artificiale, ricerca sulle cellule...) hanno gravato sul rapporto
tra religione e scienza, avvelenandolo. Come potrei non avere comprensione per
il fatto che molte persone, di fronte a così tanti decreti romani e pamphlet
protestanti, rifiutano una fede in un’autorità, nella Bibbia, in una Chiesa che
appare loro irrazionale, antifilosofica, ostile alla scienza? Inoltre, molti credenti
oggi capiscono benissimo che l’argomento «Dio» non può avere alcun ruolo nella
scienza, se questa deve mantenere la precisione e l’esattezza dei suoi metodi.
Questioni notoriamente difficili dal punto di vista etico, quali
aborto, ricerca sulle staminali o i trattamenti «fine vita», dovrebbero
però essere indirizzate a una soluzione praticabile e umana: senza risposte
dettate dal fanatismo religioso, ma sicure dal punto di vista scientifico e
frutto di riflessioni filosofico-teologiche.
Da democratico
svizzero convinto mi spiaceva e mi spiace tuttora che ci si richiami sempre a
Dio per opporsi anche alla democrazia moderna. E vero che ai nostri giorni non
è più pensabile una tutela politica e religioso-confessionale da parte delle
Chiese, come accadeva durante l’Ancien Régime. Ma negli ambienti
fondamentalisti, sia cristiani sia islamici, che stanno vivendo un momento di
rinnovato vigore, l’odio per l’illuminismo è sempre presente e il motto della
Rivoluzione francese, «libertà, uguaglianza, fraternità» viene visto ancora in
modo molto negativo. Ma per restare nell’ambito della mia Chiesa, quella
cattolica: non solo i seguaci di Lefebvre, reazionari e tradizionalisti, ma
anche molti prelati in Vaticano preferirebbero ripristinare le condanne
ecclesiastiche contro liberalismo e socialismo di fine Ottocento, e rimettere
le decisioni sulla «verità» in tutte le questioni riguardanti la fede e la
morale a un «magistero» ecclesiastico, come richiesto anche nelle encicliche
più recenti su fede e ragione. In questo spirito antimoderno, nella Roma papale
si ritiene ancora di poter esercitare una pressione, da dietro le quinte e
talvolta anche a scena aperta, su governi e parlamenti eletti democraticamente
affinché le loro decisioni obbediscano alla «morale» cattolico-romana.
Quando vedo,
inoltre, quali «miracoli» vengono approvati negli ultimi tempi, anche qui in
pieno spirito medioevale, e quindi sanzionati da «canonizzazioni», come si
fanno passare per fatti storici antiche leggende, si incoraggiano dubbi
pellegrinaggi e la gente devota viene presa ripetutamente per stupida, e quando
mi chiedo poi «In che cosa credo?», la mia risposta è chiara ed è: no, in tutto
questo non credo, e nessun teologo al mondo mi potrà convincere che è parte
sostanziale della mia fede in Dio, in particolare della fede nel Dio cristiano.
Ci si dovrà chiedere, al contrario, in quale misura un’immagine falsa e
distorta di Dio e talvolta anche un’immagine «cristiana» inumana, asociale,
dell’uomo abbiano contribuito alla diffusione dell’ateismo.
Viceversa devo anche chiedermi:
quanto valore hanno gli argomenti contro la fede? Bisogna sottoporre a esame
critico soprattutto due argomentazioni: in primo luogo
quella psicologica, secondo la quale Dio sarebbe solo una proiezione dell’uomo,
quindi quella storico-filosofico culturale, ovvero che ci troveremmo di fronte
alla fine della religione.
Dio: una proiezione
dei nostri desideri?
Era un aspetto che
mi mancava già quando studiavo filosofia: nelle lezioni di storia della filosofia
si trattavano solo gli argomenti dei filosofi e i loro sistemi, ma non la loro
vita e il loro destino. Io però, dopo Cartesio e Pascal, dopo Kant ed Hegel, ero affascinato
soprattutto dai grandi filosofi atei: Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud. Volevo conoscere a fondo la loro vita,
le loro irritazioni e motivazioni personali. Perché erano arrivati a negare
Dio? Mi interessavano in particolare:
- Ludwig Feuerbach, studente protestante di teologia, il cui primo pensiero, a detta sua, era Dio, il secondo la ragione e il terzo l’uomo;
- Karl Marx, che, nato ebreo
e cresciuto con un’educazione cristiana, divenne un hegeliano di sinistra e
ottenne infine la laurea in filosofia;
- Friedrich Nietzsche, figlio di un pastore luterano,
educato da donne devote, che divenne filologo critico e seguace della filosofia
pessimistica di Schopenhauer;
- Sigmund Freud, nato da genitori ebrei,
disgustato dal ritualismo cattolico e dall’antisemitismo, che, segnato dal
materialismo della medicina, divenne fisiologo e psicologo.
Già un anno dopo
il mio arrivo a Tubinga, nel semestre estivo del 1961, dovetti sostituire un
mio collega nelle lezioni di filosofia. In quell’occasione, trattai dapprima in
modo esauriente la filosofia teologica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, quindi l’antiteologia antropologica di Feuerbach, l’ateismo sociale e rivoluzionario di Marx, l’ateismo nichilista di Nietzsche e l’ateismo in
Dostoevskij. E mi ricordo ancora benissimo di una delle ultime lezioni.
Discutevo con gli studenti della teoria della proiezione di Ludwig Feuerbach e della questione se, di conseguenza, la preghiera
sia solo una conversazione con se stessi. All’improvviso capii: non devo
ricusare l’argomento della proiezione, bensì generalizzarlo. Perché la
proiezione avviene ovunque: non solo nell’atto di conoscere Dio, ma in ogni
tipo di conoscenza, anche per esempio verso una persona amata. La mia forza
d’immaginazione agisce ovunque, metto sempre qualcosa di me stesso nell’oggetto
della mia conoscenza, dunque proietto qualcosa. Ma la domanda allora è: alla
mia proiezione non corrisponde lo stesso qualcosa nella realtà?
Naturalmente, una
cosa non esiste solo perché io la desidero o la bramo. Ma vale anche il contrario:
non è che una cosa necessariamente
non esiste, perché io la desidero. Era stata proprio questa la fallacia
dell’argomento della proiezione di Feuerbach e dei
suoi innumerevoli seguaci: Dio non esiste, sostenevano, solo perché io desidero
che possa esistere. Pongo allora una controdomanda:
perché una cosa che io desidero, spero, bramo non deve, non può e non è lecito
che esista fin dal principio? Perché ciò che da migliaia di anni viene
predicato, venerato, ciò a cui si rivolgono preghiere nelle sinagoghe, nelle
chiese e nelle moschee, deve essere solo pura illusione? Perché la ricerca di
un elemento primo (in greco arché), un principio originario di tutte le cose, avviata
già dai pensatori ionici presocratici, dovrebbe essere stata fin dall’inizio
un’attività insensata? E lo stesso dicasi poi della
riflessione di Platone sull’idea del Bene, di Aristotele su un primo motore e
un fine di tutte le cose, o di Plotino sull’Uno.
Tutto non-sense, insensatezza? E l’immenso anelito dell’uomo alla pace eterna,
a un senso ultimo, una giustizia definitiva, deve davvero rimanere disatteso?
Non ho nulla
contro il fatto che si critichi la «metafisica», se questa è intesa come
«retro-mondo» o come «sovrastruttura» condizionata da interessi. E non ho
niente nemmeno contro il fatto che la mia fede in Dio venga analizzata da un
punto di vista psicologico o neurofisiologico. Ma questo non dimostra alcunché
riguardo all’esistenza di una realtà assoluta indipendente dalla mia psiche. Il
che significa: forse, al mio desiderio di Dio può corrispondere davvero un Dio
autentico. E, viceversa, proprio il desiderio di un uomo che Dio non esista non
potrebbe essere una comoda proiezione condizionata dall’interesse, che in fondo
si basa su determinati pregiudizi?
Per questo non ho
fatto il minimo sforzo per far luce sui pregiudizi diffusi a livello universale
nei confronti della fede in Dio. Il pregiudizio, per esempio, che chi crede in
Dio non possa fare scienza con onestà intellettuale; che fede e scienza si
escludano a vicenda; che la scienza succeda definitivamente alla religione. O
il pregiudizio secondo il quale un credente non possa essere un autentico
democratico; che fede in Dio e libertà, uguaglianza e fraternità non si possano
conciliare; che la politica debba prendere il posto della religione. Il
pregiudizio, infine, che con la religione non si possa essere autenticamente
uomini; che Dio vada necessariamente a scapito dell’uomo, anzi sia
l’espressione dell’autoalienazione dell’uomo; che, di conseguenza, l’umanesimo
sia solo ateo. E vero che di solito tali pregiudizi non si possono confutare da
un punto di vista puramente teorico, ma è più efficace combatterli con una
migliore condotta pratica da parte dei rappresentanti religiosi e delle
istituzioni. il presupposto per una condotta pratica a
misura d’uomo è una religiosità illuminata. Ma che cosa si può dire sulla
seconda argomentazione contro la fede in Dio: ci troviamo di fronte alla fine
della religione?
La religione: un
modello destinato all’esaurimento?
Ciò che qui ho appena
accennato, l’ho motivato punto per punto in Dio esiste? Una risposta al
problema di Dio nell’età moderna. Il libro apparve nel 1978 e invitava a una
riflessione seria e argomentata. Mi sono immedesimato nell’evoluzione dei
grandi pensatori atei e mi sono occupato dei loro argomenti in modo più
profondo di quanto si è soliti fare in teologia. Il libro fu tradotto nelle
principali lingue europee e più tardi venne diffuso perfino clandestinamente in
russo in una edizione samizdat; nel 1978 le cose andavano ancora così; gli amici russi
corsero un rischio non indifferente.
Ci si sarebbe
potuti aspettare che Roma e i vescovi tedeschi lodassero questo libro come un
servizio reso alla causa di Dio e l’accettassero come un ulteriore chiarimento
dell’atteggiamento costruttivo da me assunto nei confronti dei dogmi
cristologici, atteggiamento che aveva guidato anche quel lavoro. Ma quegli
uomini di Dio non erano interessati, com’è evidente agli atti, alla mia
«risposta al problema di Dio nell’età moderna». Volevano a tutti i costi
mettere a tacere il critico dell’enciclica della pillola, l’Humanae
vitae, dell’inaffidabilità papale e del sistema romano. Un anno dopo la
pubblicazione di Dio esiste?, il 18 dicembre
1979, mi revocarono dall’oggi al domani la facoltà d’insegnare nelle scuole
cattoliche.
Questo caso da
Inquisizione non era stato esattamente d’aiuto alla «causa di Dio». Occupò i
mezzi d’informazione durante le festività natalizie. Fu messo in secondo piano
solamente dall’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche, che
dieci anni dopo dovettero essere vergognosamente ritirate, cosa che contribuì
in maniera sostanziale all’implosione del sistema sovietico e del suo ateismo
di Stato e al ritorno della religione in quelle terre.
In quel 1979 che
segnò il mio destino avvenne un fatto storico ancora più importante per gli
anni a venire: il regime dello scià di Persia, un
regime ostile all’Islam, cadde e l’ayatollah Khomeini, capo dell’opposizione,
ritornò in trionfo a Teheran. Grazie all’insediamento della repubblica islamica
e alle sue conseguenze la religione ridivenne clamorosamente un fattore della
politica mondiale. Il mio libro Dio
esiste? venne letto anche a Teheran e io fui il
primo teologo occidentale a poter intavolare seri dialoghi con eminenti
personalità religiose iraniane, tra i quali Mohammad Khatami,
che poi sarebbe diventato presidente. È un peccato che l’Occidente non abbia
sostenuto con maggiore forza questo politico riformista.
Tali fatti mi
diedero la conferma che avevo ragione a confutare la seconda argomentazione ateista,
ovvero quella che prevede la fine della religione. Tale prognosi, infatti, si è
dimostrata una previsione in ultima analisi infondata. Non hanno infatti avuto luogo né il «superamento della religione» per
mezzo dell’umanesimo ateo (Feuerbach) né la «morte della
religione» nel socialismo ateo (Marx) né la «dissoluzione della religione» a opera della scienza atea (Freud). Sono stati piuttosto
l’umanesimo ateo, il socialismo e la fede nella scienza a essere sospettati di
proiezione. Ma naturalmente la disputa sulla religione continua.
Gli argomenti
contro la religione
In confronto ai
grandi ateisti «classici», i nuovi ateisti, che derivano la loro posizione
dalle scienze naturali, danno l’impressione di essere degli epigoni. Di nuovi
argomenti scientifici seri contro l’esistenza di Dio non riesco a riconoscerne.
Vedo invece una polemica globale contro la religione in generale e il
cristianesimo in particolare. Nessuna discussione ha portato nuove conoscenze.
Comprendo
purtroppo che molto spesso sono i credenti stessi a fornire ai non credenti il
motivo per attaccare in modo sempre più violento la fede. Molti, anche se dimostrano comprensione per il persistente rancore
dei musulmani verso il colonialismo, l’imperialismo e il capitalismo occidentali,
di vecchia o nuova data, vanno giustamente su tutte le furie davanti ai
fanatici religiosi e ai devastanti attacchi terroristici. Altri, in particolare
i cattolici, si scandalizzano per il culto della persona di cui è oggetto il
papa, che va contro il Vangelo, e per il corso restauratore della politica
ecclesiastica dell’attuale pontefice in materia di liturgia, dogmatica, etica
sessuale e bioetica nonché nei confronti delle Chiese evangeliche,
dell’ebraismo e dell’Islam, ma anche degli indios e degli africani. Altri ancora sono allarmati dalle manovre dei creazionisti
protestanti in molti Stati e scuole americane e a causa delle dichiarazioni
prive di fondamento di alcuni uomini di Chiesa sulla teoria dell’evoluzione.
Altri infine s’indignano per la presenza di politici bigotti, come per esempio
l’ex presidente USA e i suoi consiglieri neoconservatori, i quali hanno
costruito un castello di menzogne di stampo apertamente orwelliano per
giustificare le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq e i loro metodi di
tortura, sostenendo di avere Dio dalla loro parte.
Sì, bisogna
ammettere che ci sono molti motivi seri per essere contro la religione e
soprattutto contro il suo uso indebito. E, in tutta modestia, devo anche
richiamare l’attenzione sul fatto che io, come altri pochi teologi negli ultimi
decenni, ho trattato in modo sistematico in tutti i miei libri anche gli
aspetti negativi della religione: nel volume L’ebraismo, per esempio, si trovano informazioni precise e critiche
sulle persecuzioni medioevali nei confronti degli ebrei, sull’antigiudaismo
papale e luterano, l’Olocausto e la questione palestinese. In un secondo volume,
Il cristianesimo, sulle Crociate, l’Inquisizione, la caccia alle streghe, le
guerre religiose cristiane e l’antigiudaismo romano. In un terzo volume,
L’Islam, sulle guerre civili e di conquista arabe, i
problemi dei diritti umani e delle minoranze, la questione delle donne e della
violenza e molto altro.
Pertanto non
capisco Richard Dawkins: se, in quanto scienziato,
vestendo gli abiti dell’illuminista, vuole scrivere dell’«illusione di Dio» e
della storia di scandali della religione, dovrebbe fare qualche sforzo per
informarsi come abbiamo fatto noi per quanto riguarda le questioni
scientifiche. Non può ignorare la letteratura di base filosofico-teologica
in questo campo e sostituire argomenti seri con sufficienza e ironia da poco
prezzo; Dawkins rivela la sua ottusità quando parla
del tipico sapore offuscante della teologia, come di una disciplina che - diversamente da
quanto è accaduto nelle scienze naturali o nella maggioranza degli altri campi
dello scibile - non ha registrato alcun cambiamento da diciotto secoli a questa
parte. Naturalmente Dawkins mostra di non possedere
affatto una visione autocritica: infatti, non solo le religioni ma soprattutto
le ideologie ateistiche totalitarie hanno prodotto miti pseudoreligiosi
e, con l’ausilio della scienza e della tecnologia, hanno commesso crimini
orrendi contro l’umanità. Nel caso del nazismo, del comunismo, dello stalinismo
e del maoismo, facendo milioni e milioni di vittime.
Il confronto più
lucido con L’illusione di Dio di Dawkins viene da un teologo, Richard Schrder,
che ha alle spalle la spiacevolissima esperienza di sei decenni di società
comunista atea, nella ex DDR. Nel suo libro Abschaffung der Religion? Wissentschaflicher Fanatismus und die Folgen (Abolizione della religione? Il fanatismo
scientifico e le sue conseguenze, 2008) scrive a proposito della tesi del
fisiologo britannico che l’ateismo non è violento: «Qualcuno
si è addormentato su un’isola lontana e ha dormito per un brutto secolo e sogna
ora un ateismo proprio così come dovrebbe essere se le cose fossero andate come
voleva lui. Ma la realtà, questa testarda, non ha voluto fare come doveva.
“Credo non vi sia ateo al mondo che distruggerebbe con i bulldozer
Ecco pertanto ciò
che desidero avvenga: invece di mettere in scena una lotta contro la religione,
usando argomenti superficiali e di parte, dovremmo imparare l’uno dall’altro. Le persone illuminate, siano esse religiose o meno, teologi o
scienziati, dovrebbero procedere insieme contro la violenza e le guerre in nome
della religione e della politica; contro l’oppressione delle minoranze e la
discriminazione della donna motivate da ragioni religiose o politico-economiche;
contro l’oscurantismo, la superstizione, la smania di miracoli e,
contemporaneamente, anche contro l’abuso della scienza e della fede nella
scienza.
A lungo andare la
religione si è rivelata più potente e longeva dei suoi critici e negatori. Purtroppo
però mostra sempre anche il suo lato oscuro, quello del fanatismo e della
repressione. Ma io ho fiducia che né la stragrande maggioranza dei musulmani si
farà sottomettere al giogo di un diritto penale medioevale né la controparte
cattolica ricondurre alla messa in latino, a una morale sessuale medioevale, al
confessionale e all’infallibilità papale.
Ha un futuro solo
una religione che mostra il suo volto umano e benevolo, un volto invitante e
non un viso dai tratti stravolti, che inducono disgusto. Solo se la cristianità
e specialmente
Gli argomenti a favore della religione
La critica della
religione richiama, giustamente, l’attenzione sul fallimento, sotto molti aspetti catastrofico, delle religioni. Ma la critica
della religione non può prendere il posto della religione, anche se spesso ne
funge da sostituta. Non solo si dovrebbe chiarire l’«inessenza»
della religione, ma anche la sua «essenza». Da ciò il mio interrogativo
fondamentale: quali sono gli argomenti a favore della religione? Perché
innumerevoli milioni di persone al mondo non vogliono rinunciare alla religione
malgrado tutta la sua discutibilità? Da dove deriva la forza della religione e
che cosa offre la religione, a me che do grande valore alla filosofia, che
anche la migliore filosofia non può offrire? Anche un filosofo «postmetafisico» come Jùrgen Habermas afferma oggi l’utilità della religione per la
società moderna ed è fautore di un dialogo scevro da pregiudizi con la
teologia, un dialogo che non rinneghi le conquiste della modernità ma non
ignori nemmeno i suoi vicoli ciechi.
Per me è importante sottolineare
i seguenti tre punti a favore della religione:
- primo, più della
filosofia, che spesso con le sue idee e i suoi insegnamenti si rivolge a
un’élite intellettuale, la religione può segnare con la sua impronta e motivare
anche ampi strati della popolazione;
- secondo, la
religione non parla solo alla ragione, ma tocca anche la sfera emotiva, non è
fatta solo di idee, concetti e parole, ma anche di simboli e riti, racconti,
preghiere e feste, e produce in questo modo complessivamente un «plusvalore»;
- terzo, la religione non si fonda soltanto su idee attuali, sulle opinioni
dominanti e le correnti di pensiero tipiche di un’epoca, ma su scritture sacre
e tradizioni antiche, le quali, sulla base di esperienze religiose, forniscono
quelle indicazioni normative per il comportamento umano che segnano spesso da
secoli la moralità delle persone. Le sue tradizioni sostengono quindi la
continuità delle generazioni. I detti di Confucio per i
cinesi,
Ma qual è il
contenuto, quali sono le potenzialità spirituali di tutte le religioni quando
mostrano il loro volto umano? Le religioni sono diversissime tra loro, questo è
evidente. Ma mostrano anche tratti comuni fondamentali, e questo è meno noto. Tutte le religioni contengono, se ne è parlato per esteso, valori e
norme etiche elementari, che, in quanto etica mondiale, costituiscono un
criterio di riferimento per la società. Le loro figure-guida, la loro storia,
le loro metafore, le loro parabole e i loro detti motivano le persone in
diversi modi a impegnarsi nei confronti del prossimo e della società.
Oltre a ciò,
tuttavia, la religione può chiarire l’origine e la meta ultima della nostra
esistenza, da dove veniamo e dove siamo diretti: come posso venire a capo della
sofferenza, della malattia e dei colpi del destino, dell’ingiustizia, della
colpa e dell’insensatezza, e come posso trovare un senso ultimo anche al
cospetto della morte. Proprio il filosofo Jùrgen Habermas, appena citato, che ha una posizione critica verso
le ideologie, sottolinea che le convinzioni religiose nella nostra società
laica possono far sì che l’uomo conosca se stesso e offrirgli consolazione per
una vita sbagliata o redenta.
La religione,
infine, attraverso le esperienze, i racconti, i simboli, i rituali e le feste
tramandati nel tempo può fondare una patria e una società spirituali, una casa
comune della fiducia, della fede, della certezza. La pratica religiosa,
individuale come la preghiera, o comunitaria come la funzione religiosa, può
rafforzare l’Io, dare sicurezza e speranza. Ciò può suscitare non solo un senso
di appartenenza, ma anche protesta e resistenza contro le condizioni di ingiustizia
vigenti. E un aspetto con cui i rappresentanti della dittatura comunista con
tutti i suoi armamenti, nel 1989, non avevano fatto i conti: una rivoluzione
pacifica fatta con le candele! In questo senso la religione è espressione di un
inestinguibile anelito a un mondo migliore, anzi a qualcosa di «totalmente
altro». Tuttavia, questa religione, non
è, malgrado tutto, lontana dalla ragione, non rappresenta un baluardo
dell’irrazionalità? No, non è per forza così.
Una spiritualità con razionalità
La mia spiritualità
ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che con la sensibilità. Non ho mai voluto semplicemente
«credere», ma anche capire la mia fede. Come teologo mi
sono sempre ritenuto anche filosofo, ho studiato filosofia e l’ho praticata.
L’avversione per la filosofia, osservabile costantemente da Martin Lutero in poi,
non mi apparteneva. D’altra parte non mi è mai stato chiaro perché i filosofi
del Novecento e di inizio millennio non si siano più voluti
porre le domande inerenti alla «metafisica» e abbiano lasciato ai teologi
l’amministrazione di questa grande eredità della filosofia occidentale, che ha
avuto origine dai greci.
È possibile che la
mia teologia riesca a porre rimedio alla dimenticanza di Dio sopravvenuta nella
filosofia e alla dimenticanza della filosofia da parte della teologia? In ogni
caso non dovrebbe essere una scienza segreta per chi è già credente, che nelle
questioni cruciali si trincera dietro misteri creati dagli stessi teologi nel
corso di una problematica storia dei dogmi. Piuttosto dovrebbe essere
comprensibile, condivisibile e attendibile per avvicinare anche i non credenti all’unico vero mistero, il grande segreto della realtà, quello a cui noi diamo il nome «Dio».
Qui mi stupisco
come proprio i non credenti, forse per scusarsi, citino volentieri il credo quia absurdum - credo perché è
assurdo - e naturalmente lo rifiutino. Non deriva, come spesso si sostiene, da
sant’Agostino, ma è da far risalire a colui che ha preparato la strada alla
teologia latina, il giurista Tertulliano. Non posso e
non voglio spegnere la mia ragione nelle questioni della fede. Tutto ciò che è
assurdo, oscuro, infantile, zotico, reazionario, mi è estraneo. Così come ogni
forma di isteria pseudoreligiosa di massa o
addirittura globale, come quella che si scatena per esempio attorno al tragico
incidente di una bella principessa o alla morte inaspettata di una popstar
avvolta dagli scandali o a quella pubblica di un papa, diffusa dai media.
Non sono quindi
meno critico di chi critica la religione. I razionalisti critici dovrebbero
esserlo di più nei miei confronti, ma naturalmente dovrebbero esserlo a maggior
ragione i dogmatici acritici. Anche una ragionevolezza assolutizzata, un
razionalismo ideologico può essere una superstizione, così come un dogmatismo
teologico. Io comunque ho poca voglia di discutere sia con i razionalisti irrigiditi sia con i dogmatici immobili. Più di una volta ho constatato che nella polemica entrambi si
dimostrano incapaci anche solo di riportare in maniera corretta le mie
opinioni. In quelle circostanze la loro ratio viene
offuscata dalla passio.
Naturalmente
anch’io, come ogni essere umano, non sono fatto solo di ragione e
ragionevolezza, ma anche di sentire e volere, di indole e fantasia, di emozioni
e passioni. Mi sforzo volutamente di avere una visione complessiva delle cose.
Ho imparato a pensare in maniera metodica e chiara, quello che si chiama esprit de géometrie secondo lo spirito di
Cartesio. Nel contempo, tuttavia, ho tentato di acquisire un conoscere, un
sentire e un percepire che siano completi e intuitivi, secondo l’esprit de
finesse agli antipodi di Cartesio, seguendo Blaise
Pascal, anch’egli eccellente matematico.
Quand’ero al
ginnasio di Lucerna, io e i miei compagni talvolta prendevamo in giro il nostro
ottimo professore di storia dell’arte che nell’osservare un’opera, quando ci trovavamo
di fronte a qualcosa di non quantificabile, bensì di estetico, quando si
trattava appunto della bellezza, diceva sfregando il poffice
con l’indice e il medio: «Dovete sentirla, intuirla!». Ma aveva ragione. Ci
sono così tanti fenomeni specificamente umani come l’arte, la musica, lo humor, il riso e a maggior ragione il dolore, l’amore, la
fede e la speranza che non si possono cogliere nelle loro varie dimensioni solo
in maniera critico-razionale, ma che è possibile intuire solo nella loro pienezza.
Anche la nuova ricerca sul cervello, con le sue straordinarie tomografie
computerizzate, è in grado di spiegare il funzionamento dei neuroni, ma non di
scoprire i contenuti dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
Già quando ero un
giovane professore trovavo affascinante scambiare idee e opinioni con importanti
scienziati di altre discipline. Allora non parlavo di «interdisciplinarietà» ma
la mettevo in pratica ovunque potessi. Ovviamente ritenevo fondamentale avere
un atteggiamento di rispetto, non verso i saccenti accademici quanto verso le
grandi personalità del loro campo. Rispetto di fronte alle loro immense
conoscenze, ai loro risultati dotati di fondamento, alla loro diversa metodologia,
ai loro giudizi obiettivi. Anche nell’ambito della teologia avevo a che fare
con filosofi, giuristi, storici e medici, in seguito anche sempre più con
psicologi, sociologi e politologi. Soprattutto ho sempre voluto prendere sul
serio l’indipendenza e l’autonomia delle scienze naturali
matematico-sperimentali; mi sono sempre battuto affinché non venissero poste in
dubbio da nessun teologo o religioso che si richiamasse a un’autorità superiore
(Dio,
Parimenti ho
sempre ritenuto importante che se le questioni delle scienze naturali dovevano
essere trattate secondo il metodo e lo stile delle scienze naturali, allora
d’altro canto sarebbe stato doveroso trattare anche le questioni della psiche
umana e della società, così come quelle del diritto, della
politica e della ricerca storiografica e ancor più quelle dell’estetica,
della morale e della religione, secondo il metodo e stile a loro proprio,
corrispondente al loro oggetto. In maniera del tutto legittima, oggigiorno,
anche nelle scienze dello spirito ci occupiamo sempre più dell’analisi di
fenomeni, operazioni, processi e strutture. Ma nel far ciò non dobbiamo dimenticare
che ci sono questioni legittime in ambito scientifico che attengono al senso
primo e ultimo delle cose, ai valori, agli ideali, alle norme e ai
comportamenti. Come filosofo e teologo non posso accontentarmi della
problematicità superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solamente
a razionalità e funzionalità, ma debbo cercare di penetrare nella sua dimensione
più profonda. Come si può altrimenti trovare una risposta alla domanda sul
fondamento della vita?
Andare al fondo
delle cose
Durante il mio
lavoro scientifico non ero interessato solo al fondamento logico, al principio
di conoscenza, alla ratio, bensì anche al fondamento
ontologico, al principio dell’essere, la ragione materiale, il fondamento
reale, alla causa. In filosofia, accanto al principio di non contraddizione
(«L’Essere non è Non-Essere») è stato posto il principio di ragion sufficiente:
«Niente è o accade senza una causa».
Con questo
presupposto sembra facile addurre una «prova schiacciante» a favore di un
principio ultimo, una causa prima, di Dio appunto. Ma è davvero così facile
desumere «Dio»? Come ho detto, le obiezioni mosse alla religione dalla sua
critica, fino alla filosofia analitica o all’analisi linguistica, le conosco
bene. E confesso che io stesso ho talvolta degli scrupoli a usare il nome
«Dio». Nessun nome è stato profanato tanto spesso, di nessun altro si è abusato
e ci si è serviti tanto sovente: in politica ed economia, ma anche all’interno
dei partiti, delle religioni e delle Chiese.
Lo ha scritto
anche Martin Buber, ebreo filosofo della religione,
in un toccante passaggio del suo libro L’eclissi di Dio: «... è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio
umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo
non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso
della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora
giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno
lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e
sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte
digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse
per indicare l’Altissimo?».
La prima domanda del Padre Nostro recita, in totale aderenza allo
spirito della Bibbia ebraica: «Sia santificato il tuo nome» (Matteo 6,9: nella
forma originaria aramaica di Gesù: jit kaddas semak). Il «nome» (hassem) per gli orientali non
è solo una definizione esteriore, ma parte essenziale
della personalità, dunque qui Dio stesso. La domanda significa: non «profanare»
il nome di Dio, non ignorare il suo volere e le sue direttive e non sminuire il
suo onore davanti agli uomini. Significa al contrario «santificare» il nome di
Dio, osservare e praticare i suoi comandamenti, a sua gloria di fronte al
mondo. Mi chiedo se gli ebrei, che già nell’ultimo secolo prima di Cristo
temevano di pronunciare il nome «Jahvè», e i
cristiani, che per lui usano spesso il nome abba,
padre, facciano abbastanza perché gli uomini onorino il nome di Dio.
Per me, in quanto
cristiano, ne consegue che debbo rispettare coloro che oggi proibiscono di
usare la parola «Dio», ma non devo affatto tacerla. Invece di non parlare più
di Dio o di pronunciare il suo nome semplicemente come è stato fatto finora, si
tratta di parlare nuovamente di Dio con rispetto, anzi con umiltà. Nel corso
della storia dell’umanità, infatti, non si è mai smesso di interessarsi a Dio.
Non si è mai smesso di cercarlo affannosamente, di negarlo, di credere in lui,
di pregarlo, di accusano. La questione di Dio deve
essere posta in modo nuovo, ma deve essere posta anche nel modo giusto. Alcuni
non credenti hanno un’idea di Dio che i credenti rifiuterebbero come primitiva,
distorta, assolutamente fuori discussione. Non si deve credere in Dio. Ma si
può credere in lui? Più precisamente: come uomini appartenenti all’epoca
moderna, un’epoca critica nei confronti della religione, ci si può assumere la
responsabilità di credere in Dio?
Nel corso dei
decenni, ho parlato di Dio con un numero indefinito di persone della più
diversa provenienza, nei più diversi luoghi e modi; ho discusso, meditato.
«Anche a lei è capitato di dubitare dell’esistenza di Dio?» mi è stato chiesto
più volte. La mia risposta è stata: «Dell’esistenza di Dio no, ma delle prove a
suo sostegno, sì». Immanuel Kant, colui che ha portato
a compimento e superato l’illuminismo, mi ha convinto immediatamente: la ragion
«pura» o teoretica ha i suoi limiti. il che significa:
prove scientifiche dell’esistenza di Dio non sono possibili. Perché? Poiché Dio
non esiste in quanto oggetto nello spazio e nel tempo. Non è oggetto di
contemplazione e di conoscenza con la forza probatoria delle scienze naturali.
Invano la ragione spiega le sue ali per spingersi con la forza del pensiero
oltre lo spazio e il tempo, oltre l’orizzonte della nostra esperienza, fino al
Dio reale. L’uomo non può costruire torri che s’innalzano fino al cielo, ma
solo abitazioni sufficientemente spaziose e alte per sbrigare le nostre
faccende sulla terra.
No, non esiste
alcuna prova cogente dell’esistenza di Dio, ma - è l’altra faccia
dell’argomentazione kantiana, spesso ignorata - non ne esiste nemmeno una contraria.
Perché? Perché, anche un giudizio negativo non supererebbe l’orizzonte
dell’esperienza spazio-temporale. Chi ammette di non poter guardare al di là
della cortina dei fenomeni, non può nemmeno sostenere che dietro non ci sia
niente.
Tutte le affermazioni
dei fisici si riferiscono allo spazio fisico, il tempo-spazio. Alle domande al
di fuori delle possibilità di misura fisiche, il fisico non può e non vuole
rispondere. Le scienze naturali in genere, se vogliono rimanere fedeli ai loro
metodi, non possono superare l’orizzonte dell’esperienza nei loro giudizi. Per
giudizi e decisioni di questo tipo è meglio non fare i conti con il tempo
misurabile (in greco chronos), con il cronometro, ma
aspettare il tempo favorevole (in greco kair6s) , il
momento giusto.
Alle scienze
naturali, alla scienza in generale, non si addice né la presunzione di uno
scettico ignorante né l’arroganza di un saccente. Forse, nel nostro universo,
ci sono grandezze, eventi e interazioni non rappresentabili nello spazio
fisico, ci sono esperienze nella vita di noi esseri umani, che si sottraggono
alla possibilità di conoscenza offerta dalle scienze naturali.
Nell’introduzione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (1787) Kant scriverà di aver dovuto eliminare il sapere
scientifico per far posto alla fede.
Esistono - e qui siamo arrivati
alla parete ripida - diverse possibilità di «trascendere», «di superare» il
mondo dell’esperienza sensoriale, empirica, che portano tutte a una fiducia
ragionevole. Diverse vie d’accesso alla «trascendenza», alla realtà
sovrannaturale, metaempirica, al suo grande mistero,
che noi chiamiamo Dio. Traccerò ora un abbozzo di tre vie d’accesso, da
intendersi non come prove bensì come indicazioni, riferimenti; come stimolo a
riflettere, a «intuire» la trascendenza. La prima è tratta dalla biologia, la
seconda dalla matematica, la terza dalla musica.
Un’evoluzione
mirata all’uomo?
Un lavoro
instancabile di ricerca durato decenni ha permesso
agli astrofisici di scoprire che cosa dovette essere tarato con la massima
precisione (e non in modo simmetrico) perché dopo miliardi di anni potesse
nascere la vita: la sintonia di energia e materia, delle forze elettromagnetiche
nucleari, di forza di gravità ed energia per mezzo delle reazioni nucleari del
nostro sole. Più che comprensibile dunque, che i fisici e i non fisici si
domandino se tutto questo si sia sviluppato del tutto casualmente fino a dare
origine alla vita, anzi fino a dare origine all’uomo. Nell’intero sistema
solare, solo sul nostro pianeta, dopo miliardi di anni, dal regno animale si è
sviluppata una vita dotata perfino di intelletto. Per quanto ci è dato sapere
sulla base della ricerca più recente, l’uomo è solo nell’universo. La
fantascienza è affascinante soprattutto nei film, ma rimane pura fantasia,
finzione: di «alieni» non se ne vedono. Agli extraterrestri non credo.
Un’evoluzione
mirata all’uomo, però, è un dato di fatto scientifico-naturale. È stato tutto un caso? Così tanti «casi» sono casuali? Ricorrere
a esso non è un vuoto principio esplicativo? Quindi è ovvio, anzi inevitabile
chiedersi se questo enorme sviluppo non abbia seguito come ho sentito dire
dall’astronomo reale Martin Rees, direttore del Trinity College di Cambridge, una «ricetta molto speciale».
Una sorta di meta-legge o legge superiore, come suppongono alcuni fisici e
biologi, che sta dietro, sopra o in tutte le sintonie e le leggi della natura.
Alcuni chiamano questa superlegge principio antropico. Garantirebbe che le condizioni di partenza e le costanti naturali
siano già tali per cui possa nascere la vita e alla fine un antropos,
un essere umano.
Finché si usa il
verbo «potere», è possibile sostenere questa ipotesi scientificamente. Detto
questo, non esiste però una prova che consenta di usare il verbo «dovere»: se i
credenti vogliono trasformare direttamente questo «principio antropico» nella
prova scientifica del fatto che Dio deve esistere e che l’uomo è stato voluto
da lui, questo è un cortocircuito provocato dalla fede, da una
ideologizzazione, non oggettiva ma orientata a determinati interessi.
Ma ecco ora
l’altra faccia della medaglia del problema: le scienze naturali
si dimostrano evidentemente incapaci di fornire una motivazione empirico-matematica a una tale meta-legge naturale. Non è necessario essere kantiani per riconoscere che la risposta
alla domanda che concerne un superprincipio «trascendente» (e allo stesso tempo
«immanente») che va oltre ogni tipo di esperienza empirica, non è più di
competenza delle scienze naturali. Spetta solo alla filosofia, nel caso se ne
voglia occupare. O altrimenti, appunto, alla religione.
A questo punto si
comprende quanto sia sciocca anche la conclusione opposta, ovvero che da questo
grandioso processo di sviluppo si evince che non può esistere nessun Dio che
abbia voluto l’uomo. Un cortocircuito provocato questa volta dalla mancanza di
fede e parimenti sospettato di ideologia, cioè che non può essere quello che -
sulla base di qualsiasi interesse - non deve essere. Anche con la teoria
dell’evoluzione non si può escludere l’esistenza di Dio (non era questa
l’intenzione di Darwin!): le scienze naturali, come ho appena illustrato, hanno
altrettanto poca competenza per negare l’esistenza di Dio che per affermarla.
Questo non deve stupire, perché
nessuna scienza è in grado di comprendere la realtà nella sua interezza. Ognuna
di esse ha una sua prospettiva e un proprio ambito di competenza a cui non
dovrebbe dare un valore assoluto. Anche per l’oggetto più semplice, come un
tavolo o una bicicletta, ci sono diverse spiegazioni: quella fisico-chimica,
quella funzionale, quella storico-culturale, quella sociologica... E, cosa
importante, una spiegazione non esclude l’altra, anzi può completarla e
arricchirla.
Queste diverse
prospettive delle scienze non poggiano unicamente sui limiti della conoscenza umana
che non è in grado di superare nessuna singola scienza. Sono presenti nella
realtà stessa: la realtà del mondo e dell’uomo presenta appunto diversi
aspetti, strati, dimensioni. E chi assolutizza una singola dimensione non riesce
più a vedere le altre. Sarebbe invece meglio scoprirne di nuove. Risultato: alla fine non è solo la fisica a invitare a tenersi
aperti al grande mistero del cosmo, dove hanno avuto origine le costanti
naturali e il principio antropico. Lo fa anche la matematica.
L’infinito: una
dimensione reale?
Dai tempi di
Euclide, matematico greco del IV secolo a. C., lo spazio fisico viene definito
come tridimensionale (in lunghezza, larghezza e altezza). Ma dall’inizio del Novecento,
ovvero da quando Albert Einstein ha formulato la teoria della relatività, lo si
intende come tempo-spazio o spazio-tempo quadrimensionale, dove lo spazio e il
tempo sono riuniti in un unico concetto. Questa non è una pura costruzione
matematica, come nel caso delle speculazioni a molti mondi, ma di un nuovo
modello dell’universo, un modello che è stato confermato dalle misurazioni e
dai viaggi nello spazio, ma non è rappresentabile nella realtà come una
grandezza quadrimensionale.
Per le nostre riflessioni,
in verità, le speculazioni dei cosmologi, che producono modelli matematici
complessi su ulteriori universi e dimensioni con l’ausilio dei computer, sono
irrilevanti perché, come ho illustrato nel contesto del mio libro L’inizio di tutte le cose (2005),
mancano del contatto con il mondo dell’esperienza. Mi sembrano invece degne della massima considerazione le riflessioni
sulla dimensione-infinito, che in matematica è costantemente presente, non
visibile, ed è introdotta in tutti i suoi sistemi: ogni numero si può
proiettare, moltiplicare, dividere all’infinito, cosa di cui però non si deve
tener conto nelle equazioni quotidiane. Sorge perciò la
domanda se forse non possa esistere davvero qualcosa come una reale
dimensione-infinito, che è presente in tutte le cose, sebbene, come nel caso
dello spazio quadridimensionale, non sia rappresentabile come reale e
tangibile, poiché è una realtà al di là dello spazio e del tempo.
È vero che non si
può - come hanno fatto, a loro tempo, prima Anselmo d’Aosta,
il padre della scolastica, poi Cartesio e Leibniz -
dedurre dall’idea di una tale realtà infinita la sua effettiva esistenza,
ovvero che il solo pensare a un essere perfetto o assolutamente necessario
significa che tale essere esiste. Questa dimensione reale infinito non sarebbe
più una categoria spazio-temporale, bensì una categoria eterna, a cui la
ragione matematico-scientifica non può arrivare. Sorprendentemente, già Nicolò Cusano, nel Rinascimento, contribuì a rendere accessibile
razionalmente il concetto di infinito. Cusano espresse l’infinità di Dio come «coincidenza degli opposti» e la
rappresentò per mezzo di simboli matematici: se immaginiamo di prolungare
all’infinito il raggio di un cerchio, la circonferenza si avvicinerà sempre più
a una retta: gli opposti di retta e curva coincidono nell’infinito.
Nel tardo XIX
secolo lo scopritore della teoria degli insiemi, Georg Cantor (morto nel 1918)
nelle sue riflessioni sulla categoria «infinito» si
richiama proprio a Cusano. La sua teoria degli
insiemi produsse all’interno della matematica antinomie,
paradossi, contraddizioni: determinate affermazioni che hanno a che fare con il
concetto di infinito possono essere matematicamente sia dimostrate sia
confutate. Per la matematica ciò ha avuto come conseguenza una crisi dei
fondamenti che dura ancora oggi. Alla luce del fatto che la consistenza (ovvero
l’assenza di contraddizioni) delle strutture fondamentali non è ancora stata
dimostrata, mi è capitato di sentire dai matematici la battuta: «Dio esiste
perché la matematica è priva di contraddizioni, e il diavolo esiste perché
l’assenza di contraddizioni non è dimostrabile». Siccome io non credo in nessun
diavolo personale, consiglio a tutti gli amanti della matematica di attenersi a
Dio.
Risultato: nella
problematica dei fondamenti, la matematica si scontra con dei limiti di
principio. Proprio il numero infinito può però essere l’occasione per
riflettere sulla possibilità di un superamento qualitativo dell’esperienza, del
passaggio in una dimensione totalmente altra, un infinito reale, un’autentica
trascendenza. E dal momento che molti matematici sono anche buoni musicisti,
propongo anche un’altra strada per avvicinarsi al grande mistero della realtà:
la musica.
«Sintonia»
attraverso la musica?
La musica e la matematica
sono da sempre affini, ma questo vale anche per musica e religione. La musica
ha una misteriosa struttura matematica, una caratteristica su cui si riflette
fin dall’antichità, dai tempi dei pitagorici, e che trova espressione nel
sistema di notazione e nelle infinite possibilità della sua applicazione. C’è
una cosa, tuttavia, che la matematica non può fare, ed è addurre una prova
matematica che dimostri la bellezza della musica e spinga al suo ascolto. La
musica, specialmente quella classica, che esige un ascolto consapevole, si può
anche rifiutare. Posso staccare la spina, letteralmente o interiormente. La
musica mi invita sì all’ascolto, ma non costringe ad ascoltare. Ascoltarla è un
atto di libertà. E vale lo stesso, anche se in un modo completamente diverso,
quando si deve decidere se accettare una realtà metaempirica:
anche qui si tratta di un’adesione libera. La musica, tuttavia, con la sua
capacità straordinaria di suscitare e rafforzare sentimenti, può essere qui di
grande aiuto.
In determinate
circostanze i musicisti, e come loro anche i poeti, gli artisti, le persone
religiose in genere, possono immaginare, intuire, sentire realtà che fanno
saltare lo spazio fisico, lo spazio dell’energia e del tempo, e dar loro
espressione nelle loro opere. La musica, come ogni suono, è un fenomeno fisico,
che la fisica ha studiato a fondo nell’ambito dell’acustica. Ma non è solo un
fenomeno, comprensibile esclusivamente con la fisica. A questo punto devo
tornare di nuovo a Mozart.
Il Concerto per
clarinetto e orchestra K 622, l’ultima opera orchestrale compiuta di Mozart,
che il compositore portò a termine due mesi esatti prima della morte, mi faceva
compagnia già cinquant’anni fa, ai tempi del mio dottorato in teologia a
Parigi, quando vivevo in una soffitta e possedevo solo una decina di dischi.
Quest’opera di bellezza, intensità e interiorizzazione pressoché insuperabili,
priva di qualsiasi tratto cupo e rassegnato, mi rendeva felice, mi rafforzava e
consolava quasi ogni giorno; in poche parole, mi ha concesso quel po’ di quella
«beatitudine» di cui parla lo stesso Mozart. E saranno in molti ad avere
assaporato attimi simili ascoltando la sua musica.
Certo, ai ben noti
cinici e nichilisti perfino la musica di Mozart non riesce a trasmettere armonia
e bellezza. Ci sono diversi modi di ascoltare la musica di Mozart. Io quando
l’ascolto, mentre studio o per il semplice piacere di assaporarla, mi apro
completamente a lei, la lascio scorrere dentro di me,
mi abbandono completamente a lei. Non solo con l’intelligenza della testa,
necessaria alla scienza, ma con quella del cuore, che crea legami, integra,
trasmette pienezza.
È questa
esperienza che mi attira sempre verso questa musica: quando, al riparo da
interferenze esterne, in casa da solo o durante un concerto, mi concentro sulla
musica di Mozart e cerco di accoglierla in me, magari a occhi chiusi, allora
percepisco improvvisamente quanto sono riuscito a staccarmi dal corpo musicale
e sento solo il suono prodotto, musica e nient’altro. È la musica che mi
circonda, penetra dentro di me all’improvviso, la sento risuonare dal mio
intimo. Che cosa è accaduto? Sento che io, con tutto me stesso, con gli occhi e
gli orecchi, il corpo e lo spirito, sono teso verso me stesso, verso il mio
mondo interiore: l’Io tace e tutto ciò che è esteriore, tutti gli opposti,
tutte le divisioni soggetto-oggetto per un momento vengono superate. La musica
non è più qualcosa che ho di fronte, ma una cosa che mi avvolge, mi compenetra,
mi riempie di gioia dall’interno, mi appaga completamente. Non posso fare a
meno di pensare: «In lei viviamo, ci muoviamo, esistiamo».
Si tratta
notoriamente di un versetto del Nuovo Testamento, degli Atti degli Apostoli,
tratto dal discorso dell’apostolo Paolo ad Atene, sull’Areopago, in cui afferma
di cercare e trovare Dio, un Dio che non è lontano da nessuno di noi e in cui
noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (Atti 17,27 s.). In verità, la musica di
Mozart, una musica che è bellezza, forza e trasparenza, una musica nel contempo
sensuale e spirituale, mi sembra mostrare più di ogni altra quanto sia sottile
e minuscolo il confine che separa la più immateriale delle arti, la musica,
dalla religione, che con la musica ha da sempre avuto a che fare. Entrambe,
infatti, seppur in modi diversi, indicano la strada
verso l’indicibile, il mistero. E anche se la musica non deve diventare la
religione dell’arte, l’arte della musica è comunque il più spirituale di tutti
i simboli di quel «santuario mistico della nostra religione», di cui parla una
volta Mozart, che è Dio stesso.
Risultato: perfino
la musica di Mozart non è una prova dell’esistenza di Dio, ma meno che mai
costituisce un richiamo al pessimismo e al nichilismo. Al contrario, in alcuni
momenti, seguendo partecipe l’esecuzione, può essere che alla persona sensibile
e pronta ad ascoltare sia donato di aprirsi in quella fiducia ragionevole che
trascende la ragione. Con il suo orecchio fine allora, nel suono puro,
completamente interiorizzato ma nello stesso tempo avvolgente, come per esempio
quello dell’adagio del Concerto per clarinetto, può percepirne dentro di sé uno
del tutto diverso: il suono del bello nella sua infinità, anzi il suono di
quell’infinito che ci sovrasta e per il quale l’aggettivo «bello» non basta. La
musica permette quindi di entrare in «sintonia» con un’armonia superiore.
Tracce di
trascendenza
Sono cifre, tracce
che lasciano immaginare una realtà diversa da quella empirica, percepibile
fisicamente e fisiologicamente. Tracce che non è necessario scorgere, ma che è
possibile scorgere: non esiste un’evidenza vincolante, una trasparenza
imperativa.
Eppure molti si
sono sforzati di rendere visibili le esperienze fondamentali dell’esistenza
umana come occasione per trascendere l’unidimensionalità
della vita moderna, verso una realtà completamente diversa, la realtà di Dio,
il senso-fondamento di tutto. Mi piace ricordare tre personalità importanti, a
cui mi sentivo legato personalmente.
Il primo è il sociologo della religione austriaco naturalizzato
americano Peter Berger, che ha interpretato i piccoli segni e gesti della vita
umana come brusio degli angeli (nell’omonimo libro del 1970): i gesti
protettivi e consolatori, come quando una madre tranquillizza il suo bambino impaurito,
ma anche la nostra straordinaria tendenza all’ordine, il nostro impulso a
giocare, il nostro humor, le nostre speranze, fanno
tutti parte dell’espressione dell’essenza dell’uomo e rimanda a tuttavia a
qualcosa che è più dell’uomo: a qualcosa che va oltre l’uomo, lo trascende.
Poi c’è Karl Rahner, che ha spesso tratteggiato in maniera esemplare le
esperienze fondamentali dell’esistenza umana. Io ho avuto l’onore, già nel
1964, come curatore della collana «Meditazioni teologiche» di pubblicare le sue
riflessioni sulle cose d’ogni giorno. La vita quotidiana dell’uomo pullula di
cose apparentemente insignificanti: lavoriamo, andiamo e stiamo, vediamo e
ridiamo, mangiamo e dormiamo... Ma in queste attività quotidiane l’uomo attento
può scoprire una profondità ricca e nascosta.
E infine il
fondatore della teologia della liberazione, il peruviano Gustavo Gutiérrez, che rimanda in modo appassionato alle esperienze
fondamentali della storia umana, della politica e della società: rimanda alla
possibilità di fare esperienza di Dio nella storia di oppressione e liberazione
dell’uomo, e in particolare dei poveri di questo mondo. Egli vuole aprirci gli
occhi proprio su di loro per dirci che Dio è esperibile ovunque venga superata
l’alienazione, ovunque vengano messe da parte le ingiustizie e si creino la
pace e l’amore.
Così nella storia
di vita e di sofferenza degli uomini ci sono fatti, segni, avvenimenti,
situazioni, «casi» straordinari, che possono essere un’occasione per
riflettere, per meditare sulla religione. Le nostre esperienze sono troppo
preziose per poterci permettere di gettarle via, invece di serbarle e farne
oggetto di riflessione. E forse è utile, alla fine di questo capitolo,
indicare, come se si trattasse di una sorta di note a piè di pagina, quali sono
state le esperienze particolarmente importanti che mi hanno
fatto fermare a riflettere e a spingere la mia riflessione oltre la
situazione contingente. Si tratta di una doppia esperienza: quando si viene
fermati e quando si viene sorretti.
L’esperienza di
essere fermati: si può fare nelle piccole come nelle grandi cose e può essere
dura, amara; può, a lungo andare, togliere il sonno. Succede quando si è
intenti a un’impresa, che pare d’importanza enorme (vale per me e anche per gli
altri), e all’improvviso non si va più avanti. I miei, i nostri avversari
esultano: «Lo hanno fermato!». Qualcuno o qualcosa mi impedisce, ci impediscono
di andare avanti e questo cambia completamente la situazione. So una sola cosa
per certo: non sarà mai più come prima, ma non so ancora che cosa succederà. In
breve, sono bloccato, non ho vie d’uscita.
Che fare allora:
rassegnarmi definitivamente, rinunciare o ribellarmi...?
Ritenerlo un altro segno dell’assurdità della vita? Qualunque decisione si
prenda, questo essere fermati è un invito molto tangibile non solo a fermarsi,
ma anche a stare fermi, a calarsi in se stessi. Che si tratti di una battuta
d’arresto nel lavoro, di una malattia inattesa o della rottura di una relazione,
tale circostanza può costituire un’occasione per riflettere sulla dimensione
profonda della propria esistenza, per aprirsi nuovamente in una fede fiduciosa.
Allora sarà un’esperienza consolatoria perché perfino in questa sosta forzata
ci sarà un appoggio radicato nella realtà di fondo della nostra vita, nella
realtà di Dio, il fondamento della nostra esistenza, colui che è in grado di
dare una nuova prospettiva anche alle situazioni senza speranza. Da questa
fiducia possiamo attingere nuova forza e ciò ci renderà capaci di guardare alla
nostra vita in modo nuovo, di acquisire nuovamente una prospettiva, di correggere
la nostra rotta, di metterci nuovamente all’opera.
La seconda di
queste esperienze chiave è l’esperienza dell’essere sorretti. Al momento mi riesce
quasi tutto bene: non solo il lavoro, ma quasi tutto va come da sé. Che dipenda
dal tempo, dalla congiunzione astrale, dal bioritmo? Comunque sia, vado avanti,
ottengo dei risultati, sono di buon umore. Naturalmente non sarà sempre così,
le cose cambieranno di nuovo... Ma che m’importa ora? Perché devo sprecare il
mio tempo con altri pensieri, sentimenti, stati d’animo, adesso che sono
appagato...? Qui vivra verra.
Eppure c’è
qualcosa che non torna. Non si tratta di rovinare il buon umore a qualcuno
facendogli la morale. Non si tratta di demolire il successo di una persona. E
piuttosto che questo pensare positivo, questo stato d’animo spensierato, fa
spesso il paio con l’indifferenza, la presunzione e la superficialità. Non
guarda alla dimensione profonda della nostra esistenza. Manca della consapevolezza
che pensare ha a che vedere con la gratitudine. Chi si ferma anche un solo momento
a riflettere, infatti, ha il presentimento che la buona riuscita, il successo e
la fortuna non dipendono solo dal nostro lavoro; che
noi abbiamo dato molto, però abbiamo ricevuto ancora di più; che, con tutta
onesta, la fortuna ci e toccata in modo magari non inaspettato, ma spesso
comunque immeritato.
Pertanto, io ho
sempre motivo di provare gratitudine non solo nei confronti delle persone, ma
anche di un’altra istanza che fa sì che la mia vita abbia un senso malgrado
tutti i controsensi dell’esistenza. Quest’istanza rappresenta la causa prima
della mia fiducia continuamente rinnovata nel fatto che qualcuno dispone e
dirige il nostro operato nella vita, nel fatto di dovere a qualcuno la nostra
esistenza. Ho motivo di provare gioia per il fatto che, pur nelle tempeste
della vita, sono comunque guidato e condotto di nascosto. E quello che vale per
me vale certo anche per innumerevoli altre persone.
Per concludere:
chi opta per una fiducia ragionevole e dice di sì a una causa e un senso primi,
a Dio, non solo sa che in ultima analisi può aver fiducia nella vita, ma anche perché. Dire di sì a
Dio significa così optare per una fiducia fondata e coerente nella vita: una
fiducia originaria ancorata nella profondità ultima, nel fondamento dei
fondamenti e rivolta al fine dei fini: Dio, in quanto nome per il
senso-fondamento del tutto, come annota Ludwig Wittgenstein nel brano di diario
citato all’inizio di questo capitolo. In questo modo, malgrado tutte le
incertezze della vita, mi vengono donate una certezza e una consapevolezza
radicali.
Dovrebbe essere
ormai chiaro che la fiducia di fondo e la fiducia in Dio evidenziano una struttura
simile. Non riguardano solo la ragione, ma l’uomo nella sua interezza;
riguardano corpo e spirito, ragione e istinto. Anche la fiducia in Dio
trascende la ragione senza essere irrazionale. La si può giustificare
razionalmente contro la critica razionale: non con prove imperative ma con
motivi convincenti.
Per questa fiducia
- non solo
«credere che»: che Dio esiste;
- non solo
«credere a qualcuno»: credere alle sue parole;
- bensì «credere
in lui»: riporre in Dio tutta la mia incondizionata e irrevocabile fiducia.
Nella professione di
fede si evita di mettere in relazione questo «in» con
il Dio eterno dà un fondamento e
un senso a tutte le cose di questo mondo, e oggi non ci si deve più scusare se
si desidera una fede illuminata in Dio. Ma che dire se, alla fine, si scoprisse
di essersi ingannati, sulla fede? Io sono convinto che la mia vita è stata più felice con Dio piuttosto che senza. Tutto ciò
diventerà ancora più chiaro quando, basandomi sul fondamento della vita, mi
interrogherò sulla sua potenza.
(H. Kung, Ciò che credo, pp. 133-171)
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