La teologia di Vito Mancuso*

 

 

 

 

 

Un “vero e proprio manifesto” della teologia di Vito Mancuso è il suo ultimo libro, Obbedienza e libertà della Fazi Editore (2012, pp. 202, 15 €), che delinea una teologia nuova e innovativa.

 

Si tratta di una teologia cristiana della relazione, perché in essa il Cristo è il paradigma della perfetta relazionalità, pienamente verticale (amore per Dio in quanto origine e meta dell’essere) e pienamente orizzontale (amore per il prossimo e per ogni frammento di essere). Il Cristo è il simbolo concreto che manifesta come la relazione più alta sia l’amore, nonché la promessa e la speranza che il compimento della logica relazionale che informa l’essere-energia sarà l’amore (184).

 

Siamo dinanzi ad un’operazione di portata storica, che intende intervenire in modo costruttivo nelle difficoltà della Chiesa, incapace di liberarsi di una dottrina prigioniera di una superata visione del mondo e dell’uomo, di ascoltare le esigenze della società e il malcontento che viene dal basso e dall’interno della stessa istituzione. Insomma i nodi stanno arrivando al pettine, la storia manda il conto, “un conto salato”, dice Mancuso, che riguarda “un variegato miscuglio di dogmi, ipocrisie, precetti, tatticismi”(14) a cui nei secoli la Chiesa è ricorsa per imporre la sua supremazia. E con il potere c’è un infinito strascico di male, il più deleterio è la mancanza di coerenza, ma c’è anche, aggiungo io, la colpa di aver mancato ad un compito di portata universale perché la Chiesa avrebbe potuto incidere positivamente nella noosfera verso la realizzazione di un’umanità più giusta e completa, il Regno, qui ed ora, se avesse realmente attuato il dettato del Vangelo.

Il teologo avverte la gravità della situazione, vede che i tempi sono maturi, sa che la sua strada è quella giusta e si sente investito di un compito che prende con sapienza sulle spalle. Ecco il tono appassionato e forte che traspare da ogni pagina di questo lavoro che diventa un annuncio, una dichiarazione d’intenti, si trasforma nel proclama di un programma di fondazione di una nuova teologia su cui poggiare il rinnovamento del Cristianesimo e che si collega alle sue fonti da Teilhard, alla Weil, a Florenskij, a Küng, a Molari e ad altri teologi che hanno avvertito il disagio del cristianesimo, denunziandolo e sono stati messi a tacere. Sono tutti i martiri del libero pensiero che lo sostengono in questa sua opera.

Il programma di Mancuso è guidato da questo imperativo: “essere liberi nella propria mente e nel proprio spirito, senza alcuna sudditanza esteriore, e al contempo coltivare una scrupolosa obbedienza interiore alla verità” (16) che è obbedienza al bene, alla giustizia, alla bellezza, all’amore. Teologia della libertà, dunque, per promuovere la libera ricerca spirituale all’insegna del principio di autenticità, attingendo a due dimensioni umane, il bene e l’intelligenza, “la bontà che desidera la luce dell’intelligenza e l’intelligenza che desidera il calore del bene” (12). La “bontà dell’intelligenza”, chiamare a raccolta l’uomo che usa le sue qualità migliori per far risplendere il vero cristianesimo e “tradurre efficacemente in idee la luminosa attività della prassi”, liberare i tempi nostri da quello che già nel secolo scorso Simone Weil indicava come “disagio dell’intelligenza” (13).

Mancuso lega la situazione in cui si trova il cattolicesimo all’Inquisizione, una sopraffazione contro coloro che avevano idee religiose diverse, che ha fatto sì che si andasse strutturando nei secoli una dottrina poggiata sul principio di autorità, e si formasse un modo di essere cristiano “che fa dell’ossequio verso l’autorità il dogma primordiale” ed ha fatto sì che oggi ci troviamo “di fronte al paradosso che nel cattolicesimo predomina lo spirito degli scribi e dei farisei contro il quale Gesù aveva lottato fino a perdere la vita”, che da una parte c’è “la concretezza dei fatti”, l’ortoprassi, dall’altra, un “immenso edificio dottrinale costruito all’insegna del primato dell’ortodossia, le parole” (23).

 

Il paradosso che stringe come una tenaglia la coscienza cattolica è dato quindi dal fatto che l’istituzione per merito della quale continua a risuonare oggi nel mondo il messaggio di liberazione di Gesù è governata al suo vertice da una logica che riproduce il potere contro cui Gesù lottò e da cui venne ucciso. Questa è la tragica condizione dell’essere cattolici. Non esiste luogo dove maggiormente risuoni la logica del bene e dell’amore, ma al contempo non esiste luogo dove maggiore è la supremazia della fredda ragione di Stato, per cui solo se uno accetta di piegare l’intelletto all’autorità è un cattolico, se no, no, perché ben più della vita concreta e dei suoi frutti conta la professione esteriore di obbedienza. (22-23).

 

Nonostante questa situazione Mancuso sottolinea i progressi fatti dall’istituzione con la libertà di coscienza in materia religiosa, che privilegia l’individuo alla dottrina, un grosso passo avanti che indica la direzione giusta, su cui procedere con coraggio e sistematicità, portandola anche all’interno della Chiesa. Seguendo questa direzione, il teologo indica nello “spirito eretico” la strada per continuare, una condizione della mente per accedere alla verità che rende liberi. Non pensare che la verità sia in una formula bella e costituita ma affrontarla con animo aperto, non aver paura di indagare ciò che si suppone per verità, essere animati da “un rinnovato desiderio di indagine”, lasciarsi “invadere dalla realtà sempre più grande e sempre diversa dell’esistenza”, amare la verità più di se stessi e delle formule (27). Essere aperti alla scelta è una caratteristica che serve per affrontare il pluralismo della nostra epoca e la necessità di fare i conti con la realtà, ma questa è contraddizione. Ecco allora un altro punto della metodologia mancusiana: “l’arte di cogliere le contraddizioni, non per demolire, ma per fondare, su basi rinnovate, la vera e propria scienza del bene e dell’amore che è il cristianesimo” (36). Essere disposti a cogliere le contraddizioni significa capire che questa è la logica con cui si muove la vita, che l’ordine, la disciplina e il potere sono dimensioni essenziali per l’edificazione sia della società che dell’esistenza umana e che bisogna lottare contro il loro contrario (il disordine, l’indisciplina, l’anarchia) per far emergere il volto buono della realtà, quella dimensione dell’essere amica della vita, che promuove la vita. “Amare le contraddizioni” allora significa “affermare l’amore per la vita, amare la vita più di ogni razionalizzazione che pretenda di incasellarla e disciplinarla”, capire che la vita, che è dinamicità dell’essere, è contraddizione di caos e di logos, ma amarla da lottare per cercare di tradurla in bene (37-38), secondo il vivo senso del Dio cristiano, che è amore, quindi impegno, passione, capacità di sacrificio e di lavoro, dramma”(43). “Da qui discende” la visione mancusiana della vita come “ottimismo drammatico”, “ottimismo perché qualcosa si fa ed è tale da essere orientato verso una crescita dell’ordine e dell’organizzazione, drammatico perché non esiste lavoro che non richieda fatica, dolore e talora anche incapacità di intravedere un senso in quello che si fa” (43-44). Questa visione, che è quella di Pierre Teilhard de Chardin, di Goethe, di Fiorenskij, di Bonhoeffer, di Schweitzer, dà un senso profondo e nuovo al dettato evangelico di amare i nemici, è l’adversa diligere del Cardinale Martini, suo maestro e suo mentore, perché “solo abbracciando gli opposti, spinti dal mistero dell’essere a capirne ed apprezzarne le ragioni può sorgere la nuova figura della verità, di cui le nostre anime, anche se non lo sanno, sono assetate” (46).

E qui, nel porre come base dell’agire umano il bene, giungiamo ad un punto centrale, che affronta il problema dell’anima spirituale, a cui è legata l’idea del bene. Considerando che la visione cristiana ha dei limiti quando fa derivare l’anima direttamente da Dio, perché crea un dualismo che la rende difficilmente conciliabile con la visione contemporanea del mondo, con l’esperienza concreta e persino col dogma del peccato originale, Mancuso afferma che è necessario rivedere con radicalità la dottrina antropologica della dogmatica cattolica. La sua teoria dell’anima si rifà alle scienze moderne per le quali “il concetto di anima” si riferisce al fenomeno fisico della vita ed in particolare “il concetto di anima spirituale” a quello della vita libera e per le quali l’essere-energia è la sola sostanza che forma il mondo e tutte le cose in esso, esseri umani compresi. Tale energia “si dispone in molti e diversi modi dentro l’essere umano, a seconda del livello di complessità delle relazioni atomiche, molecolari, cellulari”, facendo sì che ogni essere umano esista come un fenomeno in continua evoluzione, in continuo lavoro, che si può descrivere come “soma-corpo e cioè bíos-vita vegetale, zōé-vita animale, psyché-vita psichica, lógos-vita razionale fino al pneūma o noūs-vita spirituale”. Quest’ultimo punto è un livello superiore, discontinuo rispetto ai livelli inferiori, è il livello della vita spirituale, ovvero della vita libera, “capace di una certa indipendenza rispetto al soma e alla sfera bíos-zōé-lógos, cioè all’organismo”. Tale pura energia spirituale, raffinatissima disposizione dell’essere-energia, consente all’uomo “di agire e non solo di reagire, di essere attivo e non solo passivo, creativo e non solo recettivo, di poter produrre, insomma, qualcosa di nuovo nel mondo, traendolo da sé”. La spiritualità esprime “il livello più nobile della nostra personalità e insieme la nostra partecipazione ontologica al divino”, qui l’energia umana, al culmine del suo lavoro evolutivo, crea rispetto alla materia “una separazione non dualisticamente configurata come originaria in opposizione alla materia, ma da pensarsi come frutto del lavoro di tutto l’essere-energia dell’uomo, a partire dalla materia-mater”. È importante rilevare che la separazione dello spirito dalla materia, condizione ontologica dell’immortalità, è tale non perché “lo spirito è disceso da un ipotetico mondo di là, dall’alto, ma perché è salito dal basso, dal continuo cammino evolutivo, creatio continua, sempre all’opera (en-érgon) nel mondo”. L’equivalenza tra materia ed energia, che ci dà una visione unitaria del cosmo, permette di eliminare il dualismo tradizionale corpo-anima, che ancora campeggia nella dottrina cattolica, di pensare senza contraddizioni al dogma cattolico della “immortalità naturale dell’anima” e di coltivare la speranza nella vita eterna che si inserisce in una prospettiva di razionalità. Si può pensare, insomma, che “la razionalità della mente umana, il momento qualitativamente più alto del lavoro evolutivo della natura, sia la manifestazione di una razionalità ancora più grande dentro cui siamo immersi e in questo senso si può interpretare l’uomo ‘a immagine e somiglianza di Dio’”. Mancuso afferma: “Lo scenario cosmico si può descrivere come segnato da quattro discontinuità, cioè da quattro passaggi da uno stadio meno organizzato a uno stadio più organizzato dell’essere-energia, tale però da non essere prevedibile dalla condizione dello stadio precedente”(71-77). Esse individuano l’essere-energia come lavoro, produzione continua di legami e quindi emersione di livelli di essere-energia ontologicamente più ricchi”; come produzione di una sempre maggiore disponibilità di energia libera (ovvero spirito) rispetto all’energia solidificata come massa materiale, volta verso la vita, ma passando attraverso la morte, cioè incremento di ordine e di organizzazione attraverso disordine e caos. Da tale scenario è ragionevole ipotizzare che “possa scaturire una quinta discontinuità, da intendersi come passaggio definitivo mediante la morte a quel livello dell’essere-energia pensabile come energia pura, senza cioè nessuna traduzione nella massa corporea, di cui la luce è la più concreta attestazione empirica che ci è data” (78).

 

Se Dio esiste, del resto, è proprio così che va pensato dal punto di vista ontologico: come luce (ho Theòs phôs estin, «Dio è luce», 1 Giovanni 1, 5) e come spirito (pneūma ho Theós, «Dio è spirito», Giovanni 4,24), cioè come essere-energia sussistente senza nessuna traduzione nella massa corporea («Deus non est corpus», ha sempre insegnato la grande teologia) (78-79).

 

Alla base di tutto questo appare una visione duale del mondo, nel senso che “il modo con cui si pensa l’uomo rispecchia il modo con cui si pensa il mondo: antropologia e cosmologia quindi, ma anche ontologia e teologia, sono al fondo una cosa sola” (80). “Io non accetto”, dice il teologo, “né la prospettiva dualista né la prospettiva monista, e abbraccio piuttosto una visione duale, che potrei definire di evoluzione progressiva, una visione del mondo non statica ma dinamica, secondo la quale dalla materia-mater sorge ogni cosa, anche lo spirito, ma lo spirito che sorge dalla materia-mater è un’altra cosa rispetto alla materia, è differente, è di più. Si tratta di una visione del mondo che prende sul serio l’evoluzione al punto da renderla un processo sempre in atto, non solo nel mondo esterno a noi, ma anche al nostro interno, nel frammento di mondo che ciascuno di noi è. L’evoluzione in questa prospettiva è generazione di progressiva organizzazione dell’energia, che, antropologicamente parlando, sale al livello dello ‘spirito creativo’, noūs poiētikós diceva Aristotele, e quindi ‘immortale ed eterno’” (81-82).

Posta l’anima spirituale come produttrice di bene, Mancuso si pone il problema se esiste il bene come qualcosa di universale, di comune per tutti gli uomini, che non dipenda dalle circostanze e come lo si possa riconoscere. La risposta del cattolicesimo è che esiste un bene siffatto; che si sostanzia nella natura delle cose; che consiste in ciò che favorisce la vita e in tutto ciò che è umano; che come tale ogni uomo può riconoscerlo mediante la luce della propria coscienza, la sinderesi, “capacità luminosa della coscienza umana di riconoscere il bene” oggettivo anche a “prescindere dal proprio interesse e dalle diverse circostanze storiche e geografiche”, che fonda il cosiddetto “principio-responsabilità”, il giudizio responsabile, posto sulla realtà della libertà (84).

Il bene che si impone alla persona, secondo quanto dice anche la Commissione Teologica Internazionale, è il bene morale, “un comportamento che, superando le categorie dell’utile” (86), permette la realizzazione autentica della persona umana in un quadro di senso più ampio. Ed è proprio l’attività morale a dimostrare che l’essere umano si può spiegare solo in riferimento ad una “logica che vada al di là della semplice sopravvivenza in termini di adattamento all’ambiente esterno e di realizzazione degli istinti interni”(86); che c’è un “patrimonio morale largamente comune”, un “messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini sono in grado di decifrare” (87); che questo è riconosciuto da tutte le grandi religioni le quali sono unite nell’individuare come principio la cosiddetta “regola d’oro” (90). Nonostante ciò, visto che realizzare il bene “non è per nulla facile”, è necessario che vi siano leggi, codici e tutti gli apparati esteriori promossi dall’autorità, i quali però devono venire “vagliati alla luce della coscienza”, che, in caso di conflitti, ha l’ultima parola (87).

Si può quindi concludere, alla luce delle affermazioni della Commissione Teologica Internazionale, che «la legge morale non può essere presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”. Primato della coscienza, dunque, che non significa “fare di se stessi e dei propri desideri il criterio dell’agire”, ma tenere presente un criterio più ampio, una dimensione più grande che “non è qualcosa di esteriore e quindi di alienante, ma è l’ordine cosmico ‘impregnato di una sapienza immanente’ dentro cui ogni essere umano vive e respira” (89-90). Non esiste dunque una “dittatura divina”, ma “ogni realtà creata si muove in autonomia, certamente non assoluta ma relazionale” (94), e che “non si possono prendere i principi morali del cattolicesimo e applicarli per sillogismo alle situazioni concrete” (95).

Siamo giunti ad un altro punto importante dell’analisi di Mancuso: il vero spirito del cristianesimo è conoscenza e pratica della mediazione perché si ha a cuore il bene reale della persona reale, sempre singolare e concreto come singolare e concreta è la persona. La logica del retto giudizio morale nasce “tenendo sempre presenti due pilastri: i principi morali e la situazione concreta” (95-96).

 

Il giudizio morale è il ponte che collega questi due pilastri nel modo migliore possibile, per creare la migliore armonia, la migliore giustizia, il migliore benessere per il soggetto alle prese con la sua specifica situazione, ogni volta unica com’è unica la persona. Collegando i principi morali alla situazione concreta si ottiene il vero giudizio morale, il quale, nella luce della sinderesi, si formula all’interno della coscienza personale e come esercizio della coscienza personale. Solo così si produce un’azione morale degna di uomini liberi, e non di devote pecorelle o di zelanti soldatini (96).

 

Anzi, poiché l’altezza dei principi e le strade concretamente percorribili non sono in simmetria perché “quanto più si scende nei particolari tanto più aumenta l’indeterminazione”, va assunto il fatto che “quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione”. “Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc”. E, citando San Tommaso, Mancuso specifica persino che tra i due elementi, se proprio si deve privilegiare qualcosa, “è preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che riguardano più da vicino l’operare”(96-97).

L’attenzione alla “sapienza della tradizione cattolica in materia morale” spiega la svolta, timida ma reale, intrapresa alla fine del 2010 da Benedetto XVI nell’uso dei preservativi che si può leggere come “un primo passo sulla strada che porta a una sessualità diversamente vissuta, più umana”, che però non basta “per la salutare rivoluzione di cui ha urgente bisogno la morale sessuale cattolica al fine di giungere a parlare alla vita concreta liberandosi dall’ipocrisia di precetti proclamati sulla carta ma ignorati nelle coscienze” (97-98). Mancuso è conscio che la strada è ancora lunga  tenendo presente tutti gli ostacoli incontrati da queste aperture; sa che in questo campo ci vuole “prudenza nel senso autentico del termine che è pratica del discernimento, è lettura prima analitica e poi sintetica del reale” (101).

 

Fare discernimento dentro di sé; mettere a tacere le passioni che sempre imperversano e sempre ti portano a essere di parte; mettere a tacere queste passioni negative, senza però spegnere la passione positiva, la passione per il bene, per la bellezza, per la giustizia; saper discernere tra questa passione positiva e le passioni negative che portano a incurvare il pensiero e a distorcere la visione con una volontà che vuole solo se stessa e trasforma la mente in una specie di buco nero che desidera attrarre e ridurre tutto a sé, anche la luce della verità, perché il centro di gravità posto dentro di sé annulla il principio vitale della relazione che porta a uscire da sé verso gli altri e verso la realtà; debellare queste passioni negative ed esercitare la passione positiva dell’amore per il reale e per la giustizia delle relazioni: ecco la meta dell’educazione spirituale. (101).

 

Poste le basi fondamentali di teologia morale Mancuso entra nel labirinto delle questioni bioetiche sottolineando l’incoerenza della gerarchia rispetto ai principi fondamentali della morale cattolica quando parla di “valori non negoziabili” che si trovano al lato opposto del primato della coscienza personale; che la stessa incoerenza coinvolge concetti come “sacralità della vita” e la sua “indisponibilità” (103). Su questo argomento aspra si fa la critica di Mancuso quando accusa di povertà spirituale la visione antropologica cattolica “che si rivela curiosamente concordante con il pensiero neodarwinista ortodosso secondo cui la verità di noi stessi è nelle molecole di DNA del nostro patrimonio genetico”(106). L’uomo non può essere definito dalla biologia, che è il livello inferiore, l’uomo ha livelli superiori dell’essere-energia, ha la vita spirituale che ci rende unici, tanto che ci lega a Dio e che rimanda alla libertà spirituale. Dire che “non spetta alla persona decidere” “equivale a sostenere che la verità dell’uomo non sta in alto, cioè nella libertà descritta classicamente con i termini di anima e di spirito, ma in basso, nella sua biologia” e dimostra che “il pensiero cattolico ufficiale si sta pericolosamente trasformando all’insegna di un biologismo che la tradizione non ha mai conosciuto” (107). Tale analisi viene confermata dal caso Englaro che Mancuso analizza citando l’acceso dibattito che si ebbe in Italia prima e dopo la morte della giovane e concludendo con le parole del Cardinale Martini:

 

“È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta un’apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona [...]. La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto”. Il principio primo e assoluto è la dignità della vita umana e questa si compie nella libertà personale (116).

 

Questo argomento porta al concetto di laicità che deve intendersi come “il metodo che governa il rapporto tra la dimensione interiore e quella esteriore della nostra vita” e che consente di mediare tra spiritualità ed etica da una parte e diritto e politica dall’altra. Questa distinzione ci dice come agire rispetto ai cosiddetti principi non negoziabili, che si possono considerare tali a livello di “foro interiore nel senso che nessuno deve mai rinnegare o mercanteggiare le proprie convinzioni, soprattutto quando ad agire è lui in prima persona” (127), tenendo anche conto che, poiché la realtà di questo mondo è sempre più plurale e ricca, la dimensione dell’io non è mai perfettamente traducibile nella dimensione del noi.

Se nessuna negoziazione è possibile a “livello interiore, dove è in gioco l’anima e il grado dell’adesione personale alla verità e alla giustizia”, lo è invece a livello di foro esteriore, dove è in gioco la relazione armoniosa degli uomini tra loro, uomini sempre più diversi, plurali, differenti. Riuscire a mediare tra queste due dimensioni della vita significa fare esercizio di laicità” (128), un esercizio problematico nella situazione odierna di una politica troppo distante dall’etica e dalla spiritualità e di una “laicità che ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica” (130). Ecco quindi la necessità di una nuova stagione, di una politica rinnovata che dovrà avere come elemento generatore la dimensione morale per cui “quanto più sarà alta la tensione morale, tanto più si avrà una buona politica e un buon governo” (132). Invece la nostra civiltà è condizionata da un vistoso “scollamento tra etica e politica” (134), nel senso che le persone si sentono unite dagli interessi immediati e dinanzi alla cosa pubblica non percepiscono di essere al cospetto di qualcosa di più importante. Per questa situazione la questione morale è “la” questione, non qualcosa di secondario ma il punto da cui tutto dipende. Mancuso ne individua la causa nella “raccolta del consenso”, problema immenso perché l’aggregazione sociale avviene nel nome degli interessi e delle passioni e quindi a scapito della giustizia e della morale e può essere affrontato solo mediante la costituzione di veri partiti e veri professionisti della politica. Solo il partito politico, che non sia un cartello elettorale, può infatti mediare “gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune”. “Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà. Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell’etica e quando sa mediarlo con l’opacità del reale” (136).

Andando ancora più a fondo Mancuso individua la specificità della crisi italiana nella sfiducia verso l’Italia, nel fatto che non si è capaci di trovare un valore-guida comune, una forma su cui modellare l’esuberanza della materia, che manca una religione “civile” che leghi responsabilmente l’individuo alla società, manca un’attrazione irresistibile verso una realtà più grande, nella quale ci si identifica.

 

Questo qualcosa cui l’Io sa cedere il passo è la società: il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che essa è più importante di lui e perché al contempo vi si identifica, secondo la logica di dipendenza e identificazione vista sopra. Viceversa in Italia i più ritengono che il singolo sia più importante della società, e per il bene del singolo non si esita a depredare il bene comune della società. […] Noi italiani siamo più corrotti perché usiamo in modo distorto la nostra intelligenza, e tale distorsione la si deve alla mancanza di un’idea comune più grande dell’Io, cioè di una religione civile e dell’etica che ne discende. La religione civile è ciò che consente di rispondere alla seguente domanda: perché devo essere giusto verso la società?, perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo? Senza un legame di tipo “religioso” con la società, nessuno sacrifica il proprio particulare, nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d’importanza vitale per il nostro paese. […]. Una religione civile, e la conseguente etica di cui l’Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il cattolicesimo, non contro di esso. (138-140).

 

Questa realtà più grande dunque non può essere che il cristianesimo, ma “rinnovato” e trasformato in forza di unione che abbia a cuore l’insieme del paese e il mondo nella sua interezza chiamato a diventare il regno di Dio in cui si realizza la sapienza divina che vuole il bene e la giustizia, e li vuole per tutti; un cristianesimo veramente universale che affronti il problema del dialogo interreligioso facendosi guidare dal genuino amore per la verità non dottrinale ma che sorga dalla prassi che diventi realmente un autentico servizio alla pace del mondo e alla felicità interiore dei singoli.

Perché ciò avvenga è necessario, continua Mancuso, che si sciolgano alcuni nodi come quello di considerare Gesù la via vera verso la verità, il sentiero adeguato per arrivarvi, un metodo, e quindi essere cristiani non è la tappa definitiva dell’essere uomini, ma è uno strumento verso una pienezza maggiore, di cui nel Nuovo Testamento si parla quando si dice “regno di Dio”, “Padre”, “Dio”, “Spirito Santo”, “verità tutta intera”; quello di considerare la verità non dottrinale e statica, ma fisica e dinamica, una verità con la stessa radice di ver, cioè primavera che “esprime il fiorire dell’essere, la generazione ininterrotta e sempre più complessa della vita”, quindi verità come ciò che “incrementa la vita”. “La più importante condizione della mente per un fruttuoso dialogo spirituale è la consapevolezza che alla verità si arriva solo diventandola, diventando cioè un frammento ordinato e pulito di essere-energia, del tutto conforme alla logica della relazione armoniosa che da sempre fa procedere il mondo in quel processo di progressiva organizzazione che la teologia chiama ‘creazione continua’” (157-158).

L’atteggiamento corretto allora non è né la “conservazione, che si chiude a ogni altro punto di vista, né l’abbandono, che taglia completamente le radici, ma piuttosto un atteggiamento definito ‘fedeltà dinamica’”, che non fa essere prigioniero del personale punto di vista, ma che lo fa assumere come metodo, con cui “affrontare il viaggio della vita”; “fedeltà alle origini” che “non sarà mai a scapito della fedeltà alla ben più grande verità del mondo e al genuino incontro con gli altri uomini”; apertura senza paura all’esperienza reale. “Apertura alla continua rivelazione della vita, che è il dialogo spirituale”, avendo “fiducia nell’esistenza di un lògos, universale preesistente alla ragione umana, ovvero nell’esistenza della verità e di una sfera di valori morali che l’esprimono concretamente”; “fiducia che tale lògos sia percepito da tutti gli uomini, e quindi fiducia nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali”; “desiderio di fare della propria vita uno spazio il più possibile pulito e onesto”, nella convinzione che ‘la sincerità è il fondamento della vita spirituale’. Ce lo dice la stessa parola dialogo - sostantivo logos e preposizione diá -  che ha in sè la convinzione che “il lógos esista e che possa essere scambiato”. “Il dialogo spirituale suppone quindi una fiducia verso l’oggetto (lógos) e una fiducia verso l’interlocutore (diá), che nella loro relazione producono più precisamente una triplice fiducia: nell’esistenza della verità, nell’interlocutore e nella sua ricerca, nella possibilità dello scambio dei risultati delle ricerche sulla base di un desiderio comune di crescita spirituale” (158-159).

 

In primo luogo la fiducia nella verità. Il dialogo spirituale vive della fiducia-convinzione che vi sia un logos comune per ogni essere pensante e responsabile, un logos dotato di consistenza oggettiva, il quale non è solo una proprietà della mente umana, ma anzi può diventare proprietà della mente umana perché, prima ancora, esprime una proprietà della realtà dentro cui la mente è immersa e di cui è costituita. Il dialogo spirituale si contrappone così alla prospettiva del razionalismo che riduce la realtà ai limiti della ragione umana, escludendo dall’orizzonte della verità tutto ciò che la ragione umana non può concepire e finendo per privare la realtà di ogni mistero e di ogni profondità. Di contro a tale restringimento del razionalismo, il dialogo spirituale esalta la prospettiva opposta della razionalità, la quale mira a una continua apertura della ragione umana verso la ben più ampia logica-lògos del reale.

In secondo luogo la fiducia nell’interlocutore e nella possibilità dello scambio. Il dialogo spirituale vive della fiducia nella percezione soggettiva della verità e nell’autenticità dell’incontro, cioè della fiducia nella coscienza. Si può dare un autentico dialogo solo se si ritiene che la coscienza sia reale e che possa sottoporsi da se stessa ad esame, in una sorta di tribunale interiore a cui la stessa coscienza deve rendere conto.

Ma ancor più profondamente, con il suo rimandare al fenomeno della relazione tra gli uomini il dialogo spirituale indica una particolare tipologia della continua e ininterrotta rete di relazioni dentro cui ognuno di noi è, anzi, di cui ognuno di noi è costituito. Occorre infatti dire che il nostro stesso organismo, a livello fisico, chimico e biologico, è il risultato di un continuo dialogo tra le diverse componenti del nostro essere: le particelle subatomiche dialogano e formano atomi, gli atomi dialogano e formano molecole, le molecole dialogano e formano cellule... Anche la nostra componente mentale vive del dialogo, a cominciare dal linguaggio, e poi le emozioni, i sentimenti... In quanto organismo fisico e psichico noi siamo relazione, cioè dialogo. Ne viene che quando esercitiamo il dialogo a livello spirituale non facciamo altro che riprodurre la logica fisica fondamentale di cui viviamo, obbedendo alla logica del nostro essere. Il che significa, per chi crede che il nostro essere venga dalla paternità di Dio, che obbediamo a Dio, alla continua rivelazione del suo logos che si dà in ogni istante nel nostro stesso corpo (160-161).

 

L’ultimo punto del percorso di questa teologia mancusiana si introduce nello spirito del tempo ne tiene presente “il suo ruotare, spietato e insieme generoso” (164), per cogliere la domanda che porta con sé e poi rileggere in base ad essa la dottrina. “Solo coltivando una reale comunione col presente, la teologia rimane teo-logia e si fa attuale, in grado di toccare, curare e forse anche un po’ guarire la vita degli uomini” (165). Ebbene il presente, il post-moderno, è un rinnovato paganesimo, che, dietro Nietzsche, cerca di riconquistare il cuore spirituale dell’Europa con una sfida che va molto al di là di quella precedente, condotta dalla modernità, perché il crescente desiderio di spiritualità di oggi, ferocemente anticristiano, non può essere soddisfatto dal cristianesimo che ha perso fascino. Mancuso accetta la sfida che si gioca sul campo della teo-logia con la sua teologia rinnovata, della quale indica i punti di forza: “radicale onestà intellettuale e primato della vita” (168).

L“onestà intellettuale”, essere onesti fino alla durezza, è un modo di essere, un metodo come quello di Pavel Florenskij, di Dietrich Bonhoeffer, di Simone Weil, di Pierre Teilhard de Chardin, di Albert Schweitzer, che hanno indicato la strada della “sincerità morale” portata alla “massima intensità”, in nome della quale la “teologia deve intraprendere una lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, senza eccessivo timore di dare scandalo ai fedeli, perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l’ipocrisia”. “Alla fede cattolica sono essenziali la consapevolezza di parlare nel nome della verità e l’esibizione della razionalità di tale verità, che si dice come logos” (169). La difficoltà sta proprio “nell’esercizio della ragione che cerca la verità”, che si scontra con la staticità e la rigidità della dottrina. Come molti teologi Mancuso avverte il disagio dell’intelligenza ed accetta la sfida in nome della volontà di verità, accetta il conflitto con l’istituzione ben conscio che esso nasce dal “nesso fede-chiesa-teologia” (171).

 

A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica se vuole sopravvivere come disciplina degna di essere presa in considerazione dalla coscienza contemporanea, e, ancora più radicalmente, contribuire a impedire il progressivo estinguersi del cristianesimo dal continente europeo. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere, è necessario che la teologia lo liberi dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale dalla Gerarchia lungo i secoli. La teologia deve liberare la fede dalla configurazione dottrinaria di cui è stata rivestita e che ha prodotto la morsa del controllo ecclesiastico coi suoi anathema sit (171).

 

Nel suo programma Mancuso è chiaro, egli non intende eliminare la Chiesa, la dimensione istituzionale, che è il naturale sbocco della fede vissuta, e neanche intende far scomparire il Magistero dottrinale, al quale riconosce una funzione essenziale. Auspica invece “il superamento nella mente dei credenti della convinzione che la verità della loro fede cattolica si misuri sulla conformità alla dottrina consolidata, tanto in campo dogmatico quanto in campo etico”, si augura “l’introduzione nella mente dei credenti di una concezione dinamico-evolutiva della verità” e non “statico-dottrinaria”, non la regola ignaziana, ma un compito critico, lo “splendore della verità” tale da “illuminare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina”. La questione ha acquistato un’ampia portata poiché “non si tratta di qualche singolo dogma o di qualche usanza liturgica”, si tratta della “condizione morale e spirituale dell’Occidente”, che “impone alla teologia il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità”. Questa nuova teologia si chiamerà “teologia laica”, intendendo “una teologia che nasce dalla fede e vuole servire l’esperienza spirituale della fede”, e che assume come criterio del credere il bene concreto, proprio come dice la Bibbia quando parla di “verità che è qualcosa di vitale, su cui potersi appoggiare e camminare, pane da mangiare, acqua da bere” (172-175).

Questa operazione darebbe al cristianesimo il suo vero volto eliminando la causa della sua crisi. La verità infatti “deve tornare a essere pensata come vita”, nel senso che il criterio di verità delle affermazioni della fede non deve essere collocato all’interno della stessa fede, ma fuori, nella vita”. “Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica ‘ortodosso-eterodosso’ al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica ‘bene per la vita-male per la vita’” perché è questa che determina la verità o la falsità di un’affermazione. Mancuso elenca i punti che devono essere toccati: il rapporto tra Gesù e Paolo come fondatori del cristianesimo; il senso della redenzione tramite la croce; il peccato originale; la lettura cristiana delle Scritture ebraiche e la loro connessione col Nuovo Testamento; il clero e la sua selezione-formazione(176-177).

La sfida più grande di questo rinnovamento consiste nella definizione della natura di Dio perché si tratta di affrontare la natura intima dell’essere, si tratta di risolvere il quesito se Dio è bene e amore, come dice il cristianesimo oppure Dio è forza e potenza come dice Nietzsche lanciando la sua sfida. Ma proprio su questo campo Mancuso risolve l’antinomia perché i due concetti solo apparentemente sono in opposizione infatti “la natura intima dell’essere non è la potenza, in quanto dominio, ma il bene, essendo il bene la forma più armoniosa e quindi più stabile, più forte e più duratura di relazione”, per cui si tratta di concepire Dio come relazione “che viene prima della sostanza, perché ogni sostanza scaturisce solo dal lavoro delle relazioni che intessono con l’essere” che è energia, ininterrotto tessere di  relazioni (180).

“In questa prospettiva l’ordinamento del mondo” “è interpretabile come creazione continua da attribuire al logos intrinseco all’essere energia che agisce come logica relazionale armoniosa”, che fonda il primato del bene in cui consiste il cristianesimo.  Il bene ha a che fare con l’ontologia, è la logica relazionale che prima tesse e poi tiene insieme e fenomeni per cui il versetto “in principio era il Logos” si può interpretare come “in principio era la Relazione”, infatti, anche se “la relazione si esprime come conflitto e quindi come volontà di potenza, è altrettanto chiaro che essa non è riducibile alla sola volontà di potenza”, la quale può avere anche una “capacità di trascendere la volontà di dominio personale, se cioè si riconosce alla volontà anche la possibilità di determinarsi per il giusto e per il bello, in sé ritrovando una crescita di potenza personale nell’adesione a un livello più nobile dell’essere non riducibile all’ego”. Allora si può determinare “il senso ultimo dell’essere come volontà di potenza”, intesa come “crescita di adesione ad un livello superiore dell’essere”, “qualcosa di fronte a cui il singolo soggetto percepisce di non desiderare il dominio ma la dedizione e la comunione. La vita non è solo volontà di imporre se stessi, conosce anche il movimento opposto quale la volontà di consegnare se stessi” (180-182).

“Sulla base del carattere relazionale dell’essere-energia, il bene e la giustizia emergono come i valori in base a cui vivere perché sono l’espressione più alta della logica primordiale intrinseca all’essere quale viene informato continuamente dal lògos. È questo il kérygma eterno, la buona notizia di sempre, valida a partire dal primo giorno della creazione del mondo, a cui il cristianesimo col suo kérygma storico deve essere funzionale. Si tratta di ricomprendere il cristianesimo storico come funzionale al cristianesimo eterno”, di giungere a quel cristianesimo universale che parla di Dio dicendo che ‘in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo’, “il cristianesimo amico degli uomini e delle loro religioni”. “Il vero kérygma, la buona notizia definitiva ed eterna, non riguarda la storia ma riguarda l’universalità dell’essere, scoperto come bene e come giustizia, e che si traduce esistenzialmente generando fiducia nella vita”. “Alla luce del fatto che l’essere è in se stesso relazione, il cristianesimo, che esalta la relazione nel modo più radicale dicendo che Dio stesso è amore, cioè relazione assoluta, è compimento vero dell’essere vero”. Il “cristianesimo eterno non è una fuga o un tradimento del mondo, ma la sua autentica espressione”. “Parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo», come dice Bonhoeffer (182-183).

Avendo individuato nella logica relazionale il principio che muove l’essere-energia e quindi al contempo la prospettiva a partire dalla quale guardare il mondo, ecco che si delinea la teologia della relazione i cui tratti fondamentali sono: il primato della spiritualità che pone la vita concreta degli uomini come destinataria privilegiata della teologia la quale “in funzione di essa deve interpretare la dogmatica”; pensare Dio come relazione logica, interiore e originaria, che si esprime come amore e dal cui movimento sorgono il Figlio e lo Spirito Santo; una visione del rapporto Dio-mondo che intenda l’azione di Dio nel mondo come azione una e unica, identica a se stessa, permanente, continua, senza variazioni (in tal modo va intesa l’impassibilità di Dio), e che considera il mutamento del mondo come mutata “consapevolezza nella mente umana della sua unione con Dio”, tutto rispondente alla “logica che guida l’organizzazione progressiva del mondo”, che si dice il “Logos divino, il Verbo come attività continuamente creatrice, sempre all’opera, sempre al lavoro” (186); una Cristologia che applica i titoli di Lógos e di Verbo a Gesù di Nazaret in senso pieno, “nel senso che in lui l’eterna relazione di Dio col mondo ha avuto la sua massima consapevolezza soggettiva e la sua massima manifestazione ontologica”, ma che non “esclude altri fenomeni storici nei quali la continua comunicazione di Dio è giunta a prendere coscienza di sé come Logos”; una soteriologia che intende la salvezza come “presente da sempre nella creazione”, la cui logica relazionale, “immessa continuamente dall’incessante azione divina”, fa sì che gli uomini partecipino ad una “dimensione più ordinata dell’essere” che “apre a una vita al di là di questa vita terrena”, cioè pensare “la salvezza non più come redenzione ma come risultato del lavoro secondo giustizia, tornando all’annuncio originario di Gesù”, che esclude l’interpretazione paolina e quindi ogni concetto di colpa e di peccato originale e che considera invece la necessità di ordinare e disciplinare “l’energia caotica della libertà” grazie al “fascino esercitato su di essa dall’idea del bene” (187); un’antropologia spirituale che concepisce ogni singolo uomo come opera della creazione continua di Dio, qui e ora “figlio” di Dio, intimamente unito al Dio personale da chiamarlo “Padre”, conscio della sua dimensione divina e quindi abitato dallo Spirito santo; liturgia e sacramenti intesi come forma più consapevole di esercizio della spiritualità essendo la categoria di sacramento eminentemente relazionale (188); una ecclesiologia che considera la Chiesa comunione e comunità, naturale sbocco della fede vissuta, a cui compete la struttura gerarchica; un’etica nella situazione che consideri la vita spirituale come attenzione alla rivelazione continua che ogni momento dell’essere e ogni situazione della vita porta con sé col compito di condurre gli uomini a vivere la vita concreta, intesa come relazione in cui si esplica l’amore di Dio; il considerare come criterio decisivo per valutare gli asserti teologici ed etici l’aumento della qualità della relazione, cioè l’aumento dell’unità con gli altri e con se stessi, di cui l’amore è la forma più alta (189).

Nella conclusione Mancuso fa un invito alla coerenza, a riflettere sul vero e proprio atto di guerra che il potere papale durante i secoli ha dichiarato contro il pensiero filosofico e la ricerca scientifica, depredando le migliori energie intellettuali dell’umanità; sul fatto che la Chiesa, ha risposto alle sfide della modernità basandosi non sulla forza della verità ma su quella, decisamente meno evangelica e meno scientifica, della nuda autorità, servendo così non il mondo reale degli uomini, bensì il mondo di carta dei dogmi, non la spiritualità ma il potere e la sua conservazione. La conseguenza è che, perduta la forza del “braccio secolare”, la religione cattolica ha iniziato a perdere sempre più valore nella mente degli uomini fino a non essere più il centro pulsante della vita civile e sociale, a configurarsi come religione che ha il suo baricentro nella forza e non nella pace, nell’autorità e non nella ragione, nell’obbedienza e non nella libertà, nella dottrina e non nella verità, una religione all’insegna della rigidità dogmatica e del potere, e non del dinamismo della rivelazione biblica e della libertà. Termina con un invito a rispondere con onestà intellettuale sui punti su cui la Chiesa deve fare ancora chiarezza dalla condanna di Lutero, alle torture della Controriforma, alle varie stragi e condanne, all’abiura di Galileo, alla politica contro gli ebrei, questioni cui si deve rispondere con la mente governata dall’autenticità e dalla sincerità superando la non più sostenibile opposizione tra obbedienza e libertà.

Mimma De Maio

 

(in "Riscontri", Sabatia Editrice, nn. 1-2. 2012).

 

 

 

* Vito Mancuso è teologo, docente ed editorialista de “la Repubblica”, nato nel 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani. I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007), Disputa su Dio e dintorni (con Corrado Augias, Mondadori, 2009), La vita autentica (Raffaello Cortina, 2009) e Io e Dio. Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011). Sul suo pensiero è stata pubblicata da una delle più prestigiose editrici accademiche tedesche la seguente monografia: Corneliu C. Simuţ, Essentials of Catholic Radicalism. An Introduction to thr Lay Teology of Vito Mancuso (Francoforte, Peter Lang, 2011) (dal risvolto della quarta di copertina di Obbedienza e libertà).

 

 

 

 

 

 

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* Vito Mancuso è teologo, docente ed editorialista de “la Repubblica”, nato nel 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani. I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007), Disputa su Dio e dintorni (con Corrado Augias, Mondadori, 2009), La vita autentica (Raffaello Cortina, 2009) e Io e Dio.Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011). Sul suo pensiero è stata pubblicata da una delle più prestigiose editrici accademiche tedesche la seguente monografia: Corneliu C. Simuţ, Essentials of Catholic Radicalism. An Introduction to thr Lay Teology of Vito Mancuso (Francoforte, Peter Lang, 2011) (dal risvolto della quarta di copertina di Obbedienza e libertà).