Pensieri

 

IL MIO ZIBALDONE

 

Incontro con la poesia

 

 

 

 

 

La consolazione della poesia

Durante il lungo morir della mia notte e mentre nel contempo il nuovo giorno invadea monti e valli, mi é venuta spesso vicina, insieme a dei folletti dispettosi, una ninfa. Ora le mani avea piene di fiori, ora una dolce duda; sempre attenta al mio parlare, sempre accorta a riporre i riccioli miei ribelli in ordine tra i capelli o a coprire coi veli suoi il mio nero abbigliamento. Allora avveniva che   - non so ancora bene ma era come un uscir da un nebuloso passo -   mi trovavo in luoghi leggeri a cui non sempre viene riconosciuta l'esistenza. Lì i miei spiritelli non potevano arrivare.
Da allora ancora di forma in forma io vo faticosamente procedendo, non so preciso dove, ancora l'una e gli altri sono a me vicino, divenuti ormai amici per la lunga frequentazione; e ancora con lei men vo, ancora quelli restano giù nel volubile travaglio dell'andar dell'ora. Ora so chi sono quei folletti a voler ch'io vada con la mia compagna bella. Succede infatti che, se essi vanno via, svanisce anche la fanciulla, perciò essi ritornano con rinnovata lena e con altri argomenti a involar me con la musa su per la via. E chiedono, or pietosi ora prepotenti, di non lasciarli andare nella breve corsa del tempo, mi chiedono di cercare anche per loro un posto in quella leggerezza.
Ed io vo in cerca, ma non trovo; e quelli chiedono ch'io indaghi altre vie, ed io cerco ancora. Allora vo indietro ai segni che corrono sul foglio, e se la strada non è chiara., daccapo ricomincio e chiamo altre sillabe e vocali al posto di quelle che fallirono. Se ancora il tragitto si perde tra tortuosi calli, se la strada ancora non è quella, vengono in aiuto docili parole per man condotte dalla pia fanciulla.
Mentre così travaglio i miei folletti riposano come su comodi sofà, e se poi, stanca del lungo mio vagare, io ridiscendo tra le normali cose, presto essi sono a ricordarmi di cercare ancora con le mie parole ciò che non so afferrare. E la docile fanciulla buona, stanca mai, cerca con me, e cerca ancora altri palagi, altre dimore in quella leggerezza.
Chissà se quella prole del dio dei boschi, di Pan amante, quei satiri-folletti, un dì anche loro stanchi, si accontenteranno di una semplice casetta o se, baciati dalla dea, un maniero di cristallo abiteranno.
Forse che il lor dispetto sta proprio nel voler questo mio cercare?

 

*

Quante umane vicende diventano la sedimentazione della storia solo perché non sostenute dai suoi pilastri o sono imbrigliate nella sua rete. La poesia è uno di questi, il più elevato, poiché permette a quel fluire di "guardarsi" ed emergere anche se essa può essere capace di riflettere solo un breve spazio.

Le rime di Isabella di Morra aprono su un comune fatto di sangue uno spiraglio di dolore e di angoscia, in cui si frantuma un finito bisogno di tenerezza, tanto che quello sembra quasi la naturale conclusione di questa situazione, e consegnano alla storia quella vicenda. Mancò all'infelice Isabella la possibilità di spiccare il salto da quel "rasserenare talora" che le dava la poesia alla "superiore contemplazione” perché le mancò una qualche corrispondenza, nella quale far risuonare la sua voce, essendo a questa muta la valle del Sinni, teatro della sua vicenda. 

 

 

 

 

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