Racconto

 

 Tartarino

 

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- È contro natura per un padre alzarsi dal letto di morte del figlio - . Pronunciando queste parole l’uomo guardò il viso del giovane sul quale lentamente prendeva posto un grigiore inerte e scialbo, ed uscì asciugandosi gli occhi.

Lo studio in penombra lo accolse sulla solita poltrona accanto alla quale si sedette l’amico che gli era stato vicino nelle ore della straziante agonia del figlio. L’aiuto del collega medico non era venuto meno da quando si erano accorti che la grave polmonite scatenava nell’organismo debilitato del giovane violente crisi spastiche presto accompagnate da un profondo senso di soffocamento e di difficoltà nel bere per cui non era stato più possibile allontanare lo sgomento che la malattia stava scatenando in qualcosa di tremendo.

Per tre terribili giorni il giovane si dibattette in preda a sussulti spezzati del petto mentre la gola era stretta da spasimi che facevano aprire orribilmente la bocca dalla quale colava una saliva densa e bianca. Negli intervalli sempre più brevi delle crisi i due uomini si guardavano ed ambedue collegavano questo imprevedibile esito della polmonite con l’episodio lontano accaduto ad un ragazzo di sette anni morso da un cane arrabbiato. E quando le convulsioni e l’aumento febbrile fecero comprendere che ci si avvicinava alla fase critica, per impedire che il giovane potesse farsi male e provocare del male fu l’amico a prendere accordi con la vecchia domestica su come immobilizzare il malato al letto creando con le fasce, che avevano avvolto tutti i figli neonati del dottore, un solido e non doloroso involucro che lo tratteneva al lettino. In questo modo si potettero frenare gli spasmodici sussulti che straziavano il giovane corpo mentre le donne si alternavano nell’asciugare con panni di lino la bava che pericolosamente usciva dalla bocca e il sudore che rendeva vischiosa la fronte.

Poi tutto scemò nella gelida calma della morte.

- Il Signore affida agli eletti le prove più difficili - . L’amico cercò di articolare questa consolazione ma capì quanto fossero inadeguate le parole dinanzi a quel dolore a cui la singolarità della vicenda conferiva aspro vigore anziché lenimento il rifugio in una volontà superiore.

Nel silenzio del grande studio riandò alla vicenda del giovane. Era allora da poco laureato. Ancora ricordava il lungo giro giornaliero in calesse presso i malati dell’amico, medico condotto del paese, fino all’ospizio ove costui era atteso per la visita di mezzogiorno.

Il ragazzo aveva sei anni...

I figli del dottore quel giorno erano in festa intorno ad un cuccioletto bianco che un contadino aveva portato in una cesta per dimostrare la sua riconoscenza al medico che gli aveva "salvato la figlia". L’animale scodinzolava festante dinanzi ad una ciotola di latte zuccherato mentre il più piccolo dei fratellini cercava con tutti i mezzi di far capire al nuovo arrivato quanto fossero saporiti i biscotti che lui preferiva. La festa scemò nella contrastata ricerca della cuccia e poi del nome.

Fu così che il cagnolino ebbe per dimora un vano che si apriva nel muro della grande cucina ed un nome che sembrava troppo grosso per lui. Ma Tartarino piacque a tutti. I ragazzi da poco si erano appassionati alle avventure di uno strano francese e forse immaginavano di imitarne insieme al cane le gesta nel cortile sul quale si affacciano vasti e misteriosi ambienti che potevano, con la loro oscura e affastellata generosità, fare da teatro ad ogni sorta di avventura.

La cucina restò tuttavia il luogo degli incontri quotidiani dei bambini con Tartarino a cui fu dato pure il permesso di consumare il pranzo nella camera da pranzo durante il quale ognuno, dandogli un boccone del proprio piatto, poteva scommettere sulle preferenze non solo alimentari dell’animale.

La domestica, a cui quella invasione nel suo regno non aveva garbato, un poco alla volta si affezionò all’animale che da lei ebbe le cure igieniche mentre le due fanciulle più grandi si preoccupavano di cambiargli il fiocco al collo o addirittura di versagli tra il pelo, che diventava sempre più morbido e folto, qualche goccia di colonia della mamma.

Forse perché era la più grande o perché, poco golosa, Teresa, regalava al cane abbondanti porzioni di dolci, avvenne così che Tartarino si affezionò alla figlia maggiore del medico a tal punto da mostrare apertamente le sue preferenze e quindi da attirare le giuste rimostranze dei fratelli. La cosa fu notata dalla mamma, ma non preoccupò il giovane padre che non vedeva nell’indole docile del cane alcun pericolo.

Fu così che quella mattina, era passato quasi un anno durante il quale l’animale aveva imparato a seguire docilmente le abitudini di casa, il medico nel raggiungere un paziente nello studio non dette peso al litigio incorso tra il figlio più piccolo e la più grande. La cosa degenerò ed il ragazzo che non riusciva ad avere dalla sorella il fiocco che doveva quel giorno adornare il collo di Tartarino, si gettò verso di lei strappandoglielo malamente. A questo punto l’animale, che non visto aveva seguito con agitazione crescente il litigio, si lanciò di scatto verso il ragazzo. La domestica fu svelta ad intuire il pericolo, forse aveva notato negli ultimi giorni uno strano comportamento del cane, e ad alzare per le braccia il ragazzo, ma non potette impedire che l’animale con un salto gli azzannasse una gamba.

Nel trambusto generale nessuno vide dove fosse andato a cacciarsi il cane tanto che ci volle un bel po’ prima di trovarlo nella legnaia quando il dottore, dopo aver medicato i quattro segnetti prodotti dai denti del cane sulla gambetta del figlio e dopo aver ascoltato dalla domestica il racconto delle stranezze di Tartarino, volle vedere l’animale.

In un angolo buio il cane si agitava mordendo freneticamente un pezzo di legno. Il dottore fece allontanare tutti e alla fioca luce cominciò ad osservare il comportamento dell’animale che alla vista del padrone si mise a guaire ma il suo era un sibilo fine ed acuto, prolungato, scattante. Il paventato timore si trasformò in un brivido che dolorosamente percorse le membra e strinse di gelo il cuore del medico che porse al cane una scodella d’acqua. L’animale vi si gettò avidamente, poi dette uno strattone e, come se l’acqua fosse diventata di marmo, cominciò a mordere rabbiosamente il liquido. Poi un guaito ringhioso, un salto, la fuga precipitosa attraverso i piedi di quelli che nel cortile non si rendevano conto di ciò che stesse accadendo. Lo lessero sul volto dell’uomo primo di comprenderlo dalle parole: il cane aveva contratto la rabbia.

Mentre l’animale che rappresentava un pericolo fu rintracciato ed ucciso, il medico si preoccupò del figlio. Il trasferimento in un ospedale specializzato, l’indagine, la terribile diagnosi, la cura lunga e dolorosa furono il calvario di quel padre che dalla scienza medica, a cui aveva dedicato tanti amorosi studi, freddamente era ripagato, perché ora essa gli offriva come sotto una forte luce tutta la cruda realtà.

Dopo la cura nel ragazzo rimase solo una diffusa irrequietezza che facilmente si confondeva con la vivacità degli anni.

- È nervoso il signorino! - diceva la domestica. - Sfido io, con quelle punture sulla pancia, lui così piccolo! - era la sua conclusione.

Il tempo si preoccupò di alleggerire i timori e smorzare il ricordo. Perciò dopo altri dieci anni nessuno pensava più che quel male debellato a sette anni potesse invece serpeggiare sonnolento nelle vene per essere risvegliato da una polmonite contratta per una di quelle imprudenze che quando si hanno diciotto anni si commettono come per sfida alla vita che sta dinanzi.

La vita non aveva perdonato quella temerarietà.

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