Marta

 

Quel mondo che non andava

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Ormai non aveva dubbi e doveva scoprirlo. Tra le cose amiche del suo giardino, Marta era decisa e preoccupata, soprattutto per il fare del babbo. L’uomo ogni giorno si lamentava di tante cose che non andavano e lo faceva con un vocione tonante e convinto proprio come se il mondo stesse lì per essere invaso da temibili mali. Così quando lui compariva sulla soglia di casa ella ne scrutava ansiosa il viso in cerca dei segni di quei mali.

"Prima o poi entreranno anche nella mia casa", pensava vedendo che in essa tutto scorreva regolarmente e cercava di immaginarli nella strada ma non riusciva a vedere che a braccetto streghe e mostri come quelli delle fiabe. Al più le rivedeva piene dell’unica rovina che le mandavano i ricordi, quella che aveva trovato all’uscita del rifugio dopo il bombardamento. Diversa però le sembrava la rovina di cui si lamentava suo padre, meno visibile, quasi un’ombra che poteva entrare in un giorno qualsiasi dietro il babbo col viso annebbiato, dopo averlo seguito lungo l’erta che conduceva alla sua casa, aver attraversato il cortile e salito gli alti gradini di pietra grigia. Temeva perciò le venute del babbo.

A sera seguiva il suo parlare con i grandi ma le parole erano come macigni per la sua mente. Solo a tratti il discorso diveniva più familiare, ma il tono restava preoccupato avvolgendo il tutto di oscuri significati. Allora guardava la mamma sul cui viso un senso chiaro di distacco, pur nella partecipazione, la sollevava. Anche la mamma si recava in quel mondo che non andava, ma vi ritornava sempre sorridente.

Della rovina di cui parlava il babbo non si trovava traccia neppure nel suo giardino. Lì la vita scorreva normale, le prugne stavano ingiallendo, il profumo intenso del gelsomino veniva dal fondo come sempre, lo zampillo cadeva nella fontana con le medesime forme. Osservò le formiche in fila sul tronco contorto del glicine: procedevano in fretta, ma non venivano da fuori. Un grosso calabrone si fermò sul viticcio smettendo per un attimo il suo ronzare. Neanche quell’animale, che giungeva da lontano, sembrava recare le tracce di ciò di cui il padre si lamentava. Era bello il suo giardino nell’ombra macchiettata di giallo, leggero nella frescura e nei suoi profumi. Non poteva essere distrutto dai mali del mondo.

Forse c’era la mamma.

Fu così che Marta scoprì che la mamma si interessava a quelle stesse cose per le quali il babbo era sempre arrabbiato. C’erano tante persone che venivano nella sua casa, povera gente, con cui la donna parlava con trasporto di cose che dovevano essere importanti. E c’era un ragazzino mingherlino, bruno, piccoli occhi neri, che ogni giorno si fermava sulla porta e, tra la vergogna e la deferenza, aspettava la commissione. Anche lui aiutava la mamma nel mondo in rovina nascondendo nel suo fare una chiara determinazione.

"Perché il babbo non faceva come la mamma e come quel ragazzo? Perché il babbo non credeva nelle cose che la mamma faceva?".

La gente della mamma raccontava storie che Marta capiva. Famiglie senza pane e senza casa, uomini senza lavoro, vecchi stanchi, e molti, molti bambini malati. "Rachitismo", doveva essere un male diffuso. Tanti bambini andavano per questo al mare con maestre e assistenti, come in una scuola.

Anche lei andava al mare con le sorelline e il fratellino per non ammalarsi e con loro c’erano altre persone che avevano bisogno della cura del mare. "Se tutte le cure fossero così !" diceva tra sé Marta andando col pensiero agli sciroppi disgustosi, alle polverine che inutilmente la mamma mescolava con lo zucchero o all’infermiere con le sue iniezioni.

Durante i giorni del mare quell’anno Marta visitò una colonia dove la mamma mandava i bambini del suo paese. Non aveva mai visto tanti bambini insieme. Vestiti tutti uguali - celeste i maschietti, rosa le femminucce - giocavano in pezzi di spiaggia chiusi da una rete di ferro e pali di legno, ma divisi, i maschi da una parte, le femminucce dall’altra. Ci fu una gran festa nella grande sala con le pareti bianche, quel giorno.

Altri bambini si curavano sui monti del suo paese dove c’era un convento di suore circondato da folti boschi di castagni. Per costoro la malattia era più grave. Un giorno uno di questi venuto con la propria mamma a casa sua aveva cominciato a tossire mentre il fazzoletto che la donna gli teneva sulla bocca si riempiva di sangue. La mamma scrisse quel giorno il nome del malato su uno dei suoi "biglietti" e questo gli permetteva la cura con tanta gioia dell'altra mamma.

Marta scoprì che i biglietti della mamma consentivano anche di ricevere del cibo, perché "ci sono tanti che non possono sfamare i propri figli" fu la spiegazione alla sua richiesta. C’era in paese un grosso locale quadrato chiuso da una pesante saracinesca dove Marta una volta vide ciò che i "buoni" della mamma davano a quelle persone. Sacchi in pila fino al soffitto dai quali le donne prendevano farina, pasta, fagioli, lenticchie; scatoloni di cartone che contenevano più piccole scatole di latta. E barattoli bianchi, grandi barattoli con una dura pasta gialla che veniva distribuita a pezzi alla gente in fila. Era formaggio.

Una volta mentre Marta in un angolo di quel locale era intenta insieme alle sorelline a badare alla carrozzina dove sgambettava il fratellino che voleva essere slegato, una donna si avvicinò con in mano dei triangolini coperti di stagnola gialla.

"È cioccolata" disse offrendone un pezzo ciascuno.

E Marta seppe, proseguendo la passeggiata verso la casa del nonno, che quel "formaggino di cioccolata" era per i bambini poveri, e si fece ancora più attenta.

Così quando la stessa donna venne a casa sua, la bimba non perdette d’occhio una scatola di ferro a forma di tubo che quella aveva posto sul tavolo e, mentre costei seguiva la mamma nello studio, l’aprì. Conteneva tantissime palline un po’ più grandi di un pisello. Ne prese alcune, erano morbide, di un bel colore giallo trasparente come le caramelle che la nonna preparava facendo sciogliere lo zucchero sul fuoco e lasciando asciugare la pasta su un piano di marmo. Ne mise una in bocca. Non era di zucchero, i denti la catturarono, strinse, due molari affondarono nella pallina, strinse ancora. La sostanza molle si ruppe... Un liquido amaro e immediatamente puzzolente invase la bocca mentre la bimba gridava e correva dalla mamma che si calmò vedendole nella mano le restanti palline.

Solo dopo aver mangiato un’abbondante porzione di zucchero, Marta capì perché l’olio di fegato di merluzzo era chiuso nella gomma e seppe perché i bambini malati dovevano prenderlo.

Si chiariva così per Marta l’impegno della mamma fuori di casa. La gente, sotto il peso di cruciali problemi, afflitta da dure malattie, angustiata da situazioni difficili, portava nella casa di Marta un po’ di quel mondo che il babbo diceva che non andava. Ma non ancora capiva perché l’uomo si arrabbiasse tanto con la mamma che cercava di aiutare le persone che soffrivano in quel mondo.

Per questo motivo Marta si fece ancora più attenta a cogliere tutti i segni che venivano da fuori. Scoprì allora che oltre alla miseria causata dalla guerra c’era qualcosa che costituiva un pericolo per il babbo, ma soprattutto preoccupava la mamma. Ne parlava la radio mentre i grandi ascoltavano in silenzio, ma non era la guerra.

Qualche anno addietro da quella radio il babbo aveva ascoltato le notizie dal fronte dove c’era il fratello, lo zio che di tanto in tanto mandava i saluti, ma poi costui era tornato portando le fotografie della sua tenda nel deserto e raccontando tante storie intorno al camino la sera. Ed era stata la radio a dare la notizia dell’entrata in guerra dell’Italia quando il babbo - la mamma le aveva raccontato - aveva mandato l’apparecchio a frantumarsi contro il muro. Ora che la guerra era terminata doveva esserci qualcosa di altrettanto pericoloso perché il babbo ancora imprecava ascoltando i notiziari.

Marta si sforzò di seguirli.

L’apparecchio posto sul ripiano più alto di un grosso mobile dominava la stanza da pranzo riversando sui commensali parole e parole che formavano intere frasi piene di cose che non andavano, contro cui cozzavano la mente di Marta e la voglia di parlare dei fratellini. D’inverno sistemata sul ripiano del camino raccoglieva più del fuoco i grandi di famiglia che lei andando a letto lasciava intenti ad ascoltare e a commentare.

Questo fare e le poche cose che riusciva a capire Marta integrava con certe discussioni tra la mamma e la donna del bucato. Parlavano di un qualcuno che sarebbe venuto a risolvere tutti i problemi, l’una con foga trionfante e sicura, l’altra con timore. "Guai se fosse venuto", pensava Marta trasferendo qualche frase della mamma nel suo pensiero, "sarebbe successo come negli altri paese". "Ma cosa era successo in quei posti ? E perché c’era chi ne voleva la venuta e chi no?".

Marta seguì ancora più attentamente la mamma.

Le discussioni con la donna del bucato si erano fatte più vive sfociando in accesi litigi da quando la mamma aveva iniziato un’intensa attività tesa a non provocare quella rovina. Ella ne parlava ai suoi poveri spiegando come si doveva votare per impedire la pericolosa venuta. Erano i grandi a doverlo dire sulle schede.

In quel periodo la casa fu piena di volantini e manifesti che venivano affissi anche di notte. La mamma vi andava con la zia con in un secchio un impasto di acqua e farina e con grossi forchettoni, con cui le due donne distruggevano i manifesti nemici.

Un bel giorno - il giardino si era già coperto di fiori e Marta era andata a raccogliere le viole nel vallone - giunse la notizia che il pericolo era passato perché la gente aveva detto no a quel signore. La mamma fu contenta, ricevette molta gente. Si diradarono anche le sue uscite. La donna del bucato continuò ad inveire.

La riuscita di questa impresa però non risolse i problemi del babbo che non smise di lamentarsi. La mamma continuava a interessarsi della sua gente. I problemi che ora doveva risolvere la costringevano ad uscire dal paese. C’erano carte, sempre tante carte da portare in uffici lontani per la sua gente.

Quei viaggi servirono a far trovare un lavoro al ragazzo bruno che aveva vergogna, a permettere alla donna del bimbo malato di raggiungere il marito in America insieme ai figlioletti, a dare ricovero a tanti malati. Ma c’erano ancora i parenti dei carcerati, i vecchi da accudire e c’era da far funzionare le scuole dove i giovani imparavano un mestiere.

Marta si rendeva conto che con la mamma tanti lottavano e vincevano, come Nunzia. Abitava in un basso di fronte alla sua casa, dall’altra parte della strada, con tanti figli, ognuno bisognoso di qualcosa, il più grande avviato su una cattiva strada. La mamma e Nunzia si dettero pace solo quando videro risolti i problemi di quei ragazzi e quando il primogenito divenne carabiniere. Ci fu poi il problema della donna lasciata sola dall’uomo, padre di tutti quei ragazzi. La donna trovò una via più sicura e raccontando la sua nuova vita piangeva e ricordava.

Come per Nunzia molti ostacoli erano stati rimossi. Ora i bambini andavano a scuola, non si ammalavano più, soprattutto i padri lavoravano e anche tante mamme. Le cose invece peggiorarono per il babbo, forse quel mondo che non andava ne aveva determinato la resa ed ora la malattia, che aveva cominciato a invadere le sue membra ne fiaccava la volontà.

Marta guardando suo padre sentiva che non bisogna mai abbandonare la lotta e che si può vincere nel mondo che non va come avevano fatto quelle persone che la mamma aveva aiutato.

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