Marta

 

IL COLLEGIO

.

 

 .

Seguendo madre Giusta, goffa nel grosso abito a pieghe, Marta lasciò la mamma in portineria e sbucò nel giardino brulicante per la ricreazione. In gruppi giovinette e ragazze col grembiule azzurro e il colletto bianco.

La fanciulla ebbe appena il tempo di avvertire il brusio calmo di quelle ragazze tutte uguali perché fu attratta da un gruppo di bianchi cappelli simili a leggere barchette poggiate con la carena sulle teste incappucciate delle suore verso le quali la superiora la condusse. Intorno a lei si aprì e si rinchiuse un cerchio mentre le teste dondolando si chinavano per non rialzarsi. Allora gli strani copricapi presero l’aspetto che non abbandonarono più di candidi gabbiani con le ali tese nello sforzo vano di alzarsi in volo. Quegli uccelli cominciarono a girare stringendosi su di lei fino a toglierle il respiro ... poi una voce ... e il cerchio si aprì.

Il dolce tono che l’invitava nella camerata e la presa sicura di una mano le tolsero la restante paura. Percorrendo con la suora il vialetto che costeggiava le aiuole Marta vide l’indifferenza delle collegiali ed avvertì un vuoto tutt’intorno mentre nel petto si formava uno strano peso. I gradini si fecero affannosi fino a quella che la suora aveva chiamato camerata.

Una stanza troppo lunga l’accolse, bianchi lettini in riga e tra loro un corridoio fino all’ampia finestra rettangolare chiusa da piccoli vetri tra le sbarre di una grata. Il soffitto alto, le mura nude racchiudevano un grande vuoto che schiacciava ogni cosa al pavimento. Accanto al suo lettino, uno dei tanti, Marta sentì fra le lacrime il pulsare di quel peso mentre la suora le portava via tutte le cose che la mamma le aveva con cura aggiustato nella valigia. Esse divennero soltanto un numero negli armadi del guardaroba. Il suono insistente di una campana la raggiunse nel dormitorio già pieno di ombre. Si scosse, indossò il grembiule che la faceva diventare uguale alle altre e uscì stringendo nelle tasche quello che restava suo.

Nei giorni seguenti, durante la dolorosa scoperta del collegio, Marta trovò sollievo solo tra le sue cose custodite nelle tasche. La proteggevano in quell’ambiente straniero e lei le difese quando le compagne si fecero curiose.

Tra tutte ce n’era una che, seguendola, l’attendeva alla porta del parlatorio, poi insieme alle altre, iniziava l’attacco alle sue tasche fino a quando ad una ad una terminava il rosario delle caramelle che la zia di tanto in tanto le portava. Con quelle colorate confetture alla frutta Marta protesse il suo tesoro. E la sera al fioco lume della lampada da notte ricomponeva con cura la sua roba in un sacchetto sotto il cuscino. Così sera dopo sera si chiuse intorno a lei un recinto che non permetteva altri passaggi.

Il collegio e la sua gente non le facevano più paura.

Docili scorrevano le ore, dal freddo incontro con l’acqua nei bui mattini prima della preghiera tra i banchi duri della chiesa, ai riti del refettorio, alle lunghe fatiche dello studio. Silenziosamente sostava Marta negli scomparti della giornata mentre come i campi al di là dei finestrini c’erano le suore e le compagne, e i loro incomprensibili discorsi.

Nessuno avrebbe potuto accorgersi della sua invisibile difesa. Eppure... Ella ne fu subito certa. Non poteva essere altro che ... sì, un tentativo ... un attacco allo spazio che la proteggeva.

Fu madre Giusta a comunicarglielo: avrebbe cambiato camerata... trasferita nel dormitorio delle più piccole, le scolarette.

Non la convinse la spiegazione della superiora: era ancora piccola, si sarebbe alzata più tardi. Volevano invece distruggere il suo riparo nella camerata meno vasta, più chiassosa. Marta non aveva dubbi. E non li ebbe quando si accorse che quel trasloco aveva messo lei sola in una strana situazione, così in bilico tra le più grandi con le quali condivideva lo studio e le piccoline.

Doveva difendere il suo spazio.

Quella stessa situazione le fu d’aiuto. Cominciarono le sue vecchie compagne di camerata e furono frasi e parole dette e fatte ascoltare, risolini e burla, nei tempi comuni della ricreazione o dello studio. La cacciavano, lei, la "favorita". Intrusa anche nell’altro gruppo di cui godeva solo i privilegi. In mezzo a quegli scherni Marta sentì più forte la protezione del suo spazio, e non rispose. Per tutti allora fu balorda, insulsa, sottomessa e finì per essere ignorata, ma non le dispiacque.

Così successe che la piccola Marta, sola, giorno dopo giorno conducendosi in quel luogo dove tutto appariva illogico ne prendeva possesso. E nessuno se ne accorse.

Nel refettorio intanto...

Questo vasto salone contornato da lunghi tavoli scarni e panche di legno era costantemente invaso da un odore acre e untuoso che proveniva dalle cucine e s’espandeva disgustoso anche nei luoghi circostanti. A metà mattina e nel tardo pomeriggio raggiungeva le aule unendosi al peso dello studio.

In refettorio naturalmente il disgustoso odore era parte integrante dei cibi, strani intrugli sconditi, alimenti tigliosi e stantii che facevano rimpiangere il desinare domestico come Pinocchio quello della fata. Per essi era stato approntato proprio lì accanto un ripostiglio. Il buio stanzino delle punizioni, che accoglieva insieme al pasto ripudiato chi non rispettava il sacro dono del Signore era sempre occupato. Per le suore un necessario rimedio a sicure malattie, per le ragazze uno spettro da evitare.

Marta riuscì a controllare una ribellione istintiva verso quel luogo che sembrava la sala dei martiri, ma aveva dentro di sé un ribelle bizzoso. Il suo stomaco infatti, costretto al mattino a subire un liquido dolciastro che si chiamava caffelatte, non si sa se per ripicca o insofferenza se ne liberava in fretta, ma poi non voleva aspettare fino al pasto delle due. E se a pranzo c’era la molle pastasciutta o qualche altra poltiglia, preparava per la sera la sua rivincita. La cena perciò divenne un rito sacrificale e Marta la vittima stabile. E tutto per via di una brodaglia amara di verdura e perché proprio dinanzi al suo tavolo l’istitutrice si fermava a leggere la meditazione serale. A causa di quest’ultimo motivo ci volle del tempo... e ci vollero vari tentativi... poi Marta fu pronta.

Quella sera forse per via di una storia commovente la lettrice non si accorse che la verdura dalla bocca di Marta una volta entrata ne fuoriusciva ben strizzata e andava a collocarsi nella tasca del grembiule. E quando più tardi un rotolo verde cadde in portineria dove si affacciavano i gabinetti delle camerate, Marta non fu tra quelle che in fila entrarono nello studio della superiora solo perché, si disse, non avrebbe potuto raggiungere l’alto finestrino. Un po’ delusa rise tra sé perché nel bagno s’era davvero divertita a centrare l’apertura sul muro sotto il soffitto.

Da quella sera furono trovati molti involti sparpagliati per il collegio e Marta s’accorse di non essere la sola ad odiare quella minestra. Fu così che quella comunità di suore e di educande fu perturbata da nascosti assalti ai rigidi costumi che la rendevano inespugnabile. Furono prese di mira la lunga scampanellata mattutina che chiamava in chiesa le insonnolite fanciulle, le estenuanti preghiere a stomaco vuoto, l’usanza di sbirciare nelle lettere e curiosare nei libri, persino quella di frugare, la notte, nelle tasche.

Chiusa nel suo spazio Marta osservava le suore indispettite e i loro goffi tentativi di mettere ordine in quello sconquasso. Poi anche questi furono presi di mira... e la catena divenne divertente. Furono istituiti severi turni di guardia, furono raddoppiati i censori, le capocamere ebbero rigide disposizioni, persino i professori furono messi all’erta. Le più sorvegliate erano le grandi per via di una tradizione che consentiva alle studentesse dell’ultimo anno di organizzare divertenti burle che venivano anche registrate negli annali del collegio. Ma la cosa non convinceva e non solo perché la settimana in cui erano permessi questi giochi era ancora lontana.

Le più piccole dopo superficiali controlli, furono prosciolte da ogni sospetto, più di tutto lei, la mite Marta, incapace, scialba, isolata, senz’altro cretina che potette muoversi indisturbata. E potette mettersi alla ricerca di chi insieme a lei causava simili crucci alle suore, ma riuscì solo a stabilire con costei un nascosto dialogo. Infatti quando cadde un quadro in parlatorio se ne trovò a terra uno nello studio della superiore e quando lo stoppino della lampada rossa in chiesa annegò nell’olio su cui galleggiava si spensero le candele dinanzi a Cristo nella portineria, e ancora se appassivano i fiori in un vaso in un altro erano sostituiti da quelli finti dell’atrio, oppure se restava aperta una fontana nei bagni, si versava una tinozza in lavanderia. Successe pure che nella stessa notte in due camerate cadde la tenda che isolava il letto della suora. In quell’occasione solo due persone si meravigliarono della coincidenza.

Nel frattempo Marta, mentre in un angolo dell’aula di studio fissava le parole dei suoi libri o nel giardino giocava con le lumache delle siepi, era attenta ad ogni segno che potesse rivelarle la sua nascosta amica. Forse anche lei era intenta nella medesima ricerca e forse anche lei escludeva Marta troppo insulsa per essere l’autrice di episodi che spesso suscitavano l’ilarità generale. A questa sua emula Marta avrebbe detto che quell’ago trasformato in uncino ed appeso alla ringhiera delle scale non avrebbe dovuto impigliarsi nel cappellone della superiora e scoprirne la testa pelata proprio mentre l’arciprete scendeva con lei in chiesa; e le avrebbe senz’altro consigliato di non prendere più di mira le compagne come in occasione dell’uccisione del maiale che aveva accolto nel forno del collegio giovani macellai a cui subito era andata l’attenzione delle più spigliate. Era stato davvero di cattivo gusto far trovare il giorno dopo dei capi di biancheria tra la carne fresca messa a macellare.

Intanto le belle giornate non furono più una piacevole occasione e venne quella domenica... Era l’ora delle pulizie, dopo la messa. A gruppi le piccole entravano nei bagni. Ecco Marta nel suo gruppo, seduta con le altre sull’orlo di una vasca. Vicino a lei Rosetta, la poliomelitica. La gamba malata penzolava come un pezzo di legno. Marta osservò come quell’arto morto riuscisse a partecipare al gioco che le altre avevano iniziato nella vasca. Le dispiacque che non erano diventate amiche.

Ma ecco giungere l’acqua bollente e le suore con una grossa tinozza chiedere spazio. Ecco le ragazze alzare i piedi. Due di loro, una Marta, salirono sul bordo della vasca. Ecco Marta scivolare malamente mentre l’acqua bollente andava a finire nella vasca insieme a Rosetta.

Nel trambusto che seguì Marta vide la ragazza solo la sera con le suore che le curavano le scottature e vide la gamba vistosamente fasciata. Il giorno dopo l’insegnante la sorprese distratta mentre dalla finestra dell’aula osservava la barella della poliomelitica attraversare il giardino. Fu mandata fuori a studiare la storia.

Seduta accanto alla porta dell’aula Marta si vedeva su un campo di battaglia devastato da una sonora sconfitta. Tutti i divertenti dispetti, tutta la sua ribellione diventava quell’unica cattiveria non voluta ma avvenuta a spese di Rosetta.

Stette male nei giorni seguenti, le notti in bianco, le ore mute dinanzi ai libri, torturata dai pensieri. E si sentì raggelare quando si accorse che non c’era più il suo spazio a proteggerla. Il collegio diventò privo di aria e fosco financo nei luminosi giorni della primavera, sembrò la prigione dei gabbiani che volevano volare.

Fu così che la ragazza cominciò ad osservare il via vai in portineria, le suore che uscivano sempre in due, i genitori in parlatorio ogni mercoledì, le esterne all’inizio e alla fine della scuola. C’erano vari momenti... e in lei c’era un fiume in piena contro argini troppo logori.

E venne il giorno della festa per la consegna all’arciprete di una cotta ricamata dalla suora della portineria. Tutti erano in sacrestia anche la brava ricamatrice che fu sbadata... e Marta fu lesta.

La strada rumorosa la prese. Marta si trovò per la prima volta tra tanta gente... i negozi colorati, i palazzi troppo alti. Il frastuono che si faceva assordante. La ragazza camminò e camminò ancora. Poi corse, corse... e si trovò nelle braccia di un vigile. Vide piangente tanti carabinieri che non volevano arrestarla ma le chiedevano il suo nome. E quando giunse la zia furono tutti contenti.

La sorella della madre la portò a casa mantenendo la promessa di non condurla dalle suore che impedivano ai gabbiani di volare, nel collegio che aveva l’amaro sapore di quella minestra verde che non scendeva giù.

.

 

 

Home

Scrivi

Indice

 

-------------------------------------------------------------

© www.mimmademaio.com 2002