Marta

 

Le parole della guerra

 

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Era la stagione dell’uva e i pampini cominciavano a rattrappirsi lasciando intravedere un frutto turgido e maturo in una festa di colori che come sempre anche quell’anno settembre donava al suo paese. Nella casa di Marta invece non c’era festa per via di una malattia della sorellina che dicevano contagiosa e che causava molta agitazione.

A quel trambusto presto se ne aggiunse un altro che impegnò i grandi in preoccupate discussioni. Si parlava di "guerra", di "soldati che si ritiravano", di "bombardamenti". Marta non riusciva, per quanti sforzi facesse nel seguire le discussioni sempre più frenetiche, a configurarsi a cosa potessero corrispondere quelle strane parole. Certo non era qualcosa di buono, tanto più che si decise, proprio per il pericolo costituito da quelle parole, di andare a trovare riparo in un luogo sulle prime falde della montagna. Qui per la frescura dei castagni ed una sorgente di acqua particolarmente leggera, si andavano a fare allegre scampagnate, per cui la decisione dei grandi perdette quella connotazione negativa che la bimba le aveva dato all’inizio.

Il giorno dopo con alcune persone di famiglia Marta era in una breve radura, la più alta prima dell’impennata della montagna, protetta da rugose rocce sporgenti, sotto una delle quali furono sistemate alcune cose come per accamparsi. Aveva dovuto lasciare a casa la mamma con le sorelline, una perché malata, l’altra perché troppo piccola e ciò le aveva causato un po’ di apprensione, ma la pace di quel luogo, il tepore del sole filtrato dal fitto fogliame, il profumo del bosco, la gente amica lì radunata l’avevano rinfrancata. Le parole della guerra, per colpa delle quali Marta si trovava lì, non le sembrarono più tanto brutte.

Dopo aver perlustrato bene il posto la bimba si era distesa su una coperta e guardava il sole che dominava al di là del fogliame in un cielo terso e luminoso. E lì tra il merletto delle foglie per la prima volta vide gli "aerei". Le sembrarono innocenti uccelletti, lucenti e lontani nel cielo, che procedevano però un po’ troppo rigidi ed equamente distanziati, né la loro voce, uno strano e insistente rodìo, le sembrò particolarmente paurosa nonostante le preoccupate osservazioni delle persone che erano con lei. Non li contò ma cercò di imprimere bene nella mente la loro immagine poiché capiva che essi l’avrebbero aiutata ad intendere le discussioni dei grandi.

Quando venne il babbo a portare il pranzo si parlò di "ricognizione aerea". Un’altra parola andò ad unirsi alle precedenti. La cosa però non sembrava preoccupante visto che si decise il ritorno a casa per la sera, anche perché non poteva una bambina dormire sotto la roccia, come facevano gli altri che erano grandi. Ma Marta non seppe spiegarsi perché tra quei grandi che rimanevano lì ci fossero anche dei bambini.

Il giorno dopo si decise di andare tutti, non più ospiti dell’anfratto, ma della casa di un operaio del babbo, una delle ultime del paese prima che cominciasse la montagna. Si avviarono per tempo, con loro anche la sorellina con la malattia contagiosa, e si sistemarono nella grande camera dell’abitazione, divisa dalla strada solo da un piccolo ambiente.

C’erano dei letti troppo alti per lei, ma questo fu buono visto che i bambini non dovevano starvi sopra bensì sotto per via dei "calcinacci", che dovevano essere cose pericolose. Quella sistemazione, però, la rincuorò poiché la mamma, che era molto preoccupata, vi attribuiva una grande importanza.

Lì sotto Marta non ebbe il tempo di soffermarsi a pensare come mai quella sorellina, che a casa doveva stare isolata e che portava ancora i segni della malattia, ora poteva sedere vicino a lei, poiché era attenta a seguire un più grave problema che occupava i grandi, quello di chiudere le imposte degli unici due finestrini che davano luce all’ambiente posti in alto sotto il soffitto. Né il riparo del letto e l’agitazione delle sorelline le impedirono di sentire un qualcosa di ansioso che era sceso nella camera. Cosa di preoccupante si aspettava?

Lo capì poco dopo quando riudì la voce degli aerei, ma questa volta era minacciosa e vicina, un rombo penetrante sempre più vicino e pauroso, cui presto si aggiunsero terribili assordanti boati, che si susseguivano velocemente facendo tremare financo il terreno sotto di lei.

L’aria s’era fatta irrespirabile piena di un acre odore e di qualcosa che seccava la saliva. D’istinto Marta mise la testa fuori. La camera non c’era più, solo densa polvere. Guardò verso i finestrini. Quelli c’erano. Le imposte sbattevano violentemente ed ogni volta che si aprivano lasciavano intravedere delle grosse lingue di fuoco. Il cuore prese a battere così forte da toglierle la residua possibilità di respiro. Fu presa dalla disperazione e sentì il bisogno della mamma.

Vicino a lei, nascosta tra il muro e il suo corpo, cessò quell’inferno mentre la porta aprendosi violentemente lasciava entrare altra polvere che faceva male. Il silenzio che seguì non fu meno doloroso. E mentre il grembo della mamma la proteggeva Marta vide attraverso la porta in un pesante grigiore una strana larga ombra che incedeva con passo malfermo tra le esclamazioni dei presenti. Poi distinse tre figure abbracciate, la nonna, la zia e la bisnonna, che erano state sorprese dal "bombardamento" mentre tentavano di raggiungere i familiari. Raccontarono di distruzioni, di morti, di disperazione.

- Possibile che le parole della guerra significassero tutto questo? - .

Ora che la famiglia era unita si decise di andare quanto più lontano possibile da quel luogo. E cominciò una forsennata corsa, lungo le balze della montagna, sempre più giù. I giovani aiutavano gli anziani e i bambini, ma si correva.

Per un tratto Marta corse da sola col solo appoggio della mano del babbo e con l’orecchio teso a quel rombo micidiale, poiché ora le era chiaro che tutta quella rovina veniva dal cielo, annunziata dal rombo degli uccellacci che aveva visto il giorno prima lontani e luminosi e che ora sentiva pericolosamente incombenti. Si cominciava a delineare nella sua mente un significato terribile.

E il rombo ritornò. Prima fu sottile e leggero poi sempre più duro e fisso lì in cielo col loro carico di paura. E cominciarono i boati, ricomparve la polvere. Correndo la famiglia di Marta trovò, scavato in una balza, un cunicolo buio, come altri incontrati lungo la strada, sempre pieni di gente. Lì si aspettò che tacesse la seconda terrificante voce della "guerra".

Quando la semioscurità si fece più chiara Marta potette distinguere nel fondo una bambina con un braccio ridotto ad una rossa poltiglia, che aveva completamente intriso un panno avvolto attorno alla meglio, da cui gocciolava il sangue in un secchio. Più in là un uomo con una gamba maciullata orribilmente, poi un qualcosa di vivo poggiato al muro, un viso lucido di sangue e carne viva come se fosse stata tirata via la pelle. E mentre la mamma cercava di fare scudo col corpo a quell’orrore, Marta metteva un altro tassello alla ricostruzione di un significato.

Ripresero la corsa tra i tralci di uva che non avrebbero conosciuto la gaiezza di altre vendemmie, si saltavano siepi e ruscelletti, si attraversavano campi di stoppie. Marta ora era sulle spalle dell’operaio da cui poteva vedere la vallata e lì scoprì il significato di quella che tra tutte le sue parole le sembrava la più brutta, "bombardamento".

Ritornarono infatti a rombare sulle loro teste i pesanti uccelli di fuoco, che luccicavano al sole e che mandavano qualcosa che, insieme al boato, diventava fuoco, poi fumo. Ed ella pensava anche al sangue, agli arti maciullati, alle case crollate, all’odore acre, alla polvere che faceva male. Tutto avveniva là dove c’era un grumo nero di case che diventava una densa grande nube di polvere.

Alle porte del paese, dalla parte opposta, abitava il nonno materno e qui si fermarono. Nella grande casa si unirono agli altri seduti sui gradini di pietra lungo le rampe di una scalinata interna perché più sicura. Anche loro ebbero dei cuscini sotto cui riparare la testa.

Si attese così un’altra ondata, l’orecchio teso nel silenzio che faceva paura, poi l’intervallo divenne più lungo e la speranza più consistente, il pericolo più lontano. Ma presto cominciarono a giungere le notizie dalla zona bombardata. Il nonno, che era il medico del paese, corse a portare soccorso, poi vi andarono tutte le persone in grado di prestare qualche aiuto. Marta rimase con gli anziani.

La notte fu lunga dominata dalle notizie dei morti che erano tanti, e delle distruzioni. "Morti? Erano quelli col viso sfigurato dal sangue?". In quelle ore Marta ebbe la sensazione che si fosse bloccato qualcosa nella sua testa, la mente non riusciva a muoversi, fissa su di un’unica grande visione.

Il giorno dopo fu deciso un nuovo trasferimento in un rifugio più ampio e sicuro dove, si diceva, s’era raccolta molta gente. Il paese era divenuto insicuro, ogni luogo abitato doveva essere abbandonato.

Furono così di nuovo all’aperto sotto quel cielo che il giorno prima aveva gettato tanto terrore. Marta lo guardò con astio. Mentre attraversavano la valle tese più volte l’orecchio. Nessun rombo cattivo. Si chiese però come potevano le voci della natura, che le giungevano nitide e serene, aver dimenticato l’inferno del giorno precedente. Tutto lo splendore di quella mattinata autunnale le faceva male.

Il riparo era un lungo grosso corridoio nero pieno di gente ammutolita, piangente o agitata nel raccontare storie di rovine. Si parlava ancora di morti. Tutti avevano lasciato qualcuno in quell’inferno.

La permanenza sotto la galleria alle porte del paese non fu facile per Marta. La sorellina più piccola aveva cominciato a dare fastidio per via della mamma che "aveva perduto il latte". Il suo pianto insistente e continuo provocava gli interventi di chi voleva porgere aiuto. Ma questi cercavano di farla tacere non dandole il latte, chiamando invece il "lupo mannaro" di cui qualcuno imitava pure l’ululato. Ma alla sorellina di Marta non interessava il lupo, che invece scuoteva lei riempiendo con la sua ombra ossessiva il buio pesto di quelle notti.

Allora un brivido freddo, dopo aver attraversato le sue membra immobili, giungeva al cervello percorrendo la mente con una scia di orrore su cui si muovevano come su di un binario obbligato sempre gli stessi pensieri. Qualcosa di flaccido e vischioso le impediva di liberarsi con le parole di quei pensieri di terrore, né c’era il pianto a darle una mano. Poi tutto cominciò a farle paura ed ogni cosa fu coperto da un buio indistinto, anche il sorriso della mamma non era più lo stesso. Ed erano amari anche i biondi acini d’uva che il babbo portava in grosse ceste e che costituivano il loro unico cibo insieme a tante mele e qualche patata cotta nella cenere. Come nel cervello anche in gola c’era qualcosa di gommoso che impediva al cibo di proseguire oltre.

Marta ora sapeva che anche tutto questo era la guerra.

Nei giorni seguenti, per quanti sforzi facesse, le parole, divenute pesanti come statue di pietra, non uscivano dalla sua mente sempre occupata da un’unica grande indistinta parete grigiastra. Non riusciva perciò a capacitarsi che tutto stesse tornando alla normalità, come sempre più frequentemente dicevano quelli che ritornavano dal paese.

Si parlava di "liberazione", ma ormai Marta aveva paura delle parole di cui non conosceva il significato, e questa, pur se era pronunciata con gioia, pareva a Marta avere un sogghigno beffardo. Non accettò perciò di buon grado la decisione di ritornare in paese. Le campane a festa delle chiese le sembravano una voce beffarda che si burlava di quella gioia e quasi giocando predicava sventura.

Erano in tanti per le vie del paese che risuonava lugubremente di vetri calpestati anche là dove le case non erano state distrutte. E tutti si dirigevano nella chiesa madre, nel giorno della sua festa a ringraziare il santo protettore facendo in ginocchio la lunga navata fino alla statua sull’altare.

Tutta quella gioia non riusciva a sollevare Marta, c’era qualcosa sul viso della gente che non era gioia e c’era un peso nel suo petto che non permetteva al respiro di penetrare tutto nei polmoni.

"Erano le parole a non voler uscire o la mente a non voler pensare? E perché i suoi occhi non avevano lacrime?"

La casa di Marta si trovava nella zona distrutta, ma non era a brandelli come le altre. Lo squallore in quel rione devastato accrebbe il suo peso, né la sicurezza della sua casa a cui mancavano solo i vetri, la calmò. Trovò in po’ di sollievo solo nel suo lettino, sotto le coperte e nella voce calma del nonno che diceva ai grandi, che volevano tirarla fuori, di lasciarla stare.

Per un lungo tempo quelle coperte le curarono un male che non si vedeva. Uscì da quel riparo solo per mettere Gesù nel presepe. Per tre mesi fu l’unica medicina per una malattia che non era del corpo.

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