Marta 

 

 

C’ERA UNA VOLTA

 

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Forse era l’ultima volta che Marta poteva nascondersi tra i pampini della sua vite. Fra poco anche questa sarebbe stata abbattuta come gli altri alberi del suo giardino. Tutto aveva preso inizio quando il babbo aveva trasferito la sua attività in una parte della casa, per cui erano stati trasformati gli ampi locali al piano terra ed era stato invaso il giardino.

Non le dispiaceva la perdita del garage, che s’apriva direttamente sulla strada accanto al grande portone d’accesso al wafio di casa, per via del nauseante odore di benzina di cui l’ambiente era perpetuamente impregnato. Per le cantine sembrava invece una specie di profanazione. Il buio ampio e silenzioso che abitava quei locali da tempo immemorabile, come diceva il colore antico dei muri, e l’aria di passato ben si addicevano alla dispensa col tetto a botte e ai grandi ambienti con i finestroni chiusi da doppie grate scure e con i tini pel vino, non certo alla viva attività della conceria che l’aveva assordata ed impaurita quella volta che era stata dal babbo nell’altro opificio. Se poi pensava alla galleria tra il cortile e il porticato del giardino, alla lavanderia con le vasche per i panni e al forno con le panche e col lungo tavolo di pietra doveva fare uno sforzo troppo grosso per impedire alle immagini di sovrapporsi penosamente.

Cercò allora, in quel framestìo, le figurazioni più care di quei luoghi, le trattenne a lungo tenendosi in uno sforzo anche fisico come se fossero state cose che tentavano di scappare. La tensione divenne più forte quando fu la volta del giardino: le aiuole fiorite, il pergolato di glicini ed uva, la vasca con il grosso masso coperto di muschio e con le ninfee tra rane, rospi, girini e pesci rossi. I suoi rumori, i suoi profumi. Tutto fu avvolto in una soffice nube.

Il suo sforzo però non era stato vano perché quella realtà distrutta per sempre ora la sentiva viva dentro di lei. Doveva solo fare in modo che non si perdesse nei luoghi profondi della memoria.

La certezza di questo salvataggio la portò a rivedere con calma i recenti avvenimenti che erano passati nella sua casa come il ghibli sul deserto.

All’inizio le era sembrata un’attraente novità.

Preceduti da un breve parlare in famiglia i fabbricatori vennero una mattina di buon’ora: Marta vide gli attrezzi nel cortile e qui sorgere una specie di quartiere generale per le operazioni che si sarebbero svolte nel giardino, e fu tutta presa ad andare dalla terrazza sul cortile alle finestre del giardino. Ogni punto le offrì una diversa visione del via vai uguale e composto, dei rumori nuovi, dei gesti che ognuno eseguiva come a memoria.

Perciò le dispiacque lasciare quelle cose nuove nel partire il giorno dopo per il mare e perciò durante il viaggio di ritorno più volte andò col pensiero alle novità che avrebbe trovato.

Giunse a sera inoltrata e fu costretta ad andare a letto, però non dovette aspettare molto prima che i fratellini si addormentassero per sgusciare dal lettino, arrivare a tentoni ad una delle finestre e scostare l’imposta. Il buio era fondo. Si fece coraggio ed aprì la finestra. Niente. Tese l’orecchio. Da lontano le vennero i rumori della campagna. Quelli del suo giardino tacevano. Guardò intensamente. Intravide solo qualche sagoma strana mentre le giungeva un odore di bagnato. Ma non era di erba.

Chiuse adagio e ritornò a letto dolorosamente ansiosa per quel senso di strano che le era venuto dal giardino.

Al mattino appena si disegnarono le imposte nel vano delle finestre ne raggiunse una. La luce incerta dell’alba le mandò un ammanto biancastro che si stendeva proprio sotto il davanzale e terminava sul muro di fronte.

- Il suo giardino coperto da un lenzuolo? - .

Aprì i vetri sporgendosi di botto per far presto e di botto ritornò dietro come respinta da qualcosa di duro, perché duro era il massetto di cemento che aveva coperto il giardino. Incredula ed impaurita, ma questa volta preparata, andò all’altra finestra. Più lentamente l’aprì e sporse il capo pronta a rintuzzare l’immagine fredda che le era venuta dalla prima finestra, ma non la trovò. Qui il giardino c’era o meglio c’era uno spazio sconosciuto.

Cercò qualcosa di noto. A stento riconobbe la sua vite, ancora più abbarbicato alla casa c’era pure l’arancio, di fronte distinse nel cielo cinereo la sagoma del susino. Alzò la testa. C’era il grosso ombrello del pino che proteggeva quell’ala della casa.

Sotto le coperte non si sciolse il gelo che aveva invaso le membra, neanche col caldo delle lacrime che sentiva venire da una profondità sconosciuta.

Quando la casa fu desta Marta iniziò la perlustrazione delle novità avvenute nei giorni del mare, ma dovette fare molta attenzione per la presenza dei fabbricatori.

Ebbe una stretta al cuore quando scorse una fossa tutta bianca al posto della vasca con i pesci. Il dolore di quella trasformazione fu però attutito dal gioco magico dell’acqua della fossa dove venivano gettati dei pezzi di pasta bianca che la facevano bollire tutta come se fossero stati di fuoco. Si mantenne a rispettosa distanza mentre lo stesso uomo che aveva fatto la precedente operazione, rimestando l’acqua con una pertica uncinata, provocava altro bollore.

Passò il resto della mattinata nell’angolo ancora quasi intatto del giardino dove l’aveva relegata la voce irata del babbo. Da quel posto potette osservare una operazione che somigliava alla preparazione di un dolce. Al posto della farina c’era un mucchio di sabbia simile a quella con la quale ella aveva giocato al mare a cui veniva aggiunto un po’ della pasta bianca della vasca, un’abbondante manciata di polvere grigia mentre l’acqua trasformava il tutto in una poltiglia sporca. A questo punto entrava in azione un lungo bastone con all’estremità una lama ricurva e stretta che un uomo faceva andare avanti e dietro nella poltiglia, con movimenti regolari, da un’estremità all’altra. Altri due con pale ne controllavano le sbordature.

Con questa sostanza grigia, trasportata a spalle in secchi a due manici, le "cardarelle", quegli uomini avevano costruito nel giardino il "casone - così lo chiamava il babbo - e stavano ora lavorando in soffitta, che tutti chiamavano "suppigno".

La vite per l’ultima volta offriva a Marta il beneficio dei pensieri. La fanciulla si stava rendendo conto che vi sono momenti delle cose e degli uomini in cui tutto cambia. Come per quei luoghi dell’infanzia anche la sua vita cambiava. Presto infatti sarebbe partita per il collegio per iniziare un nuovo ciclo di studi.

Scese dalla vite alleviata da quel comune destino.

 

"È stata davvero l’ultima volta questa estate" pensò Marta ritrovandosi, di ritorno dal collegio, in quello che era stato il suo giardino. Vi sopravvivevano il susino e qualche tralcio della vite.

I lavori erano stati ultimati. La conceria aveva occupato i locali sotto la casa e una grossa costruzione con ampi finestroni e una porta chiusa da una sonora saracinesca.

Una scala di legno con gradini molto alti, che il babbo chiamava "scalandrone", portava ad un’ampia terrazza dal nome "lamia", che per Marta sembrava adattarsi al piano liscio del pavimento, dove gli operai stendevano la lana ad asciugare e lei poteva giocare con le sorelline mentre il fratellino vi girava col triciclo.

Qui si affacciavano due camere, che, trovandosi ad un livello inferiore avevano il davanzale all’altezza del terrazzo per cui Marta poteva divertirsi ad entrarvi dalla finestra. La stanza da pranzo invece a livello del terrazzo, permetteva l’accesso in casa attraverso una delle tre finestre trasformata in balcone. Gli altri due davanzali, divenuti accessibili anche dal terrazzo, offrivano alle ragazze lo spunto per nuovi giochi.

Su questo terrazzo c’era un’altra scala che portava alla "torre". Era chiamata così, ma non aveva niente a che fare con le torri dei castelli, la nuova costruzione che aveva trasformato tre ampi locali della soffitta.

Marta si consolava nel costatare che erano stati salvati due soppalchi e che in essi erano stati affastellati tutti gli oggetti della soffitta. Quelli sarebbero rimasti i suoi luoghi poiché per la forte pendenza del tetto poteva entrarvi solo lei. Luoghi bui e misteriosi che diventavano luminosi solo nei giorni di sole perché solo allora filtrava abbastanza luce dai piccoli fori tra due tegole una delle quali aveva al centro un rialzo. Un’altra ala della soffitta era stata occupata solo nella parte permessa dalla pendenza del tetto. E Marta si felicitava che i grandi non potevano introdursi negli spazi dove il tetto toccava il pavimento e che si allungavano per molto conservando la misteriosità dei luoghi inaccessibili.

Una bella sorpresa trovò nel breve spazio su tetto dove prima si apriva un abbaino e che era stato trasformato in terrazzino. Qui Marta poteva allungare lo sguardo fino ai monti azzurri dove tramontava il sole. Su un lato scendeva un tetto di grossi vecchie tegole di cotto rossastro che con la leggera pendenza le dava la possibilità di salire fino alla sommità e di essere in vetta alla casa, là dove nessuno riusciva ad arrivare e dove poteva indagare altro spazio.

Tutto questo la ripagava del sacrificio della soffitta.

 

Se il burrascoso anno in collegio aveva attutito la delusione dei cambiamenti apportati alla sua casa, le disavventure dell’anno seguente le fecero accettare i successivi mutamenti.

Dopo un altro anno infatti la conceria era stata ulteriormente ampliata. In giardino restava libero uno spazio in terra battuta circondato da un muretto sbriciolato e restava il susino molto invecchiato, pochi rami, rade foglie, come quelle persone che invecchiando perdono i capelli. Troppo vicino era stata scavata una fossa per la calce che gli rodeva le radici. Non c’era più la sua vite. Sparsi qua e là mucchi di carnume, quel materiale biancastro e molliccio formato dalle parti tagliate alle pelli durante la concia.

C’era tanta tristezza e tanto grigio in quel cambiamento.

Fu così che venne la sera. Immobile seduta all’angolo sul muretto, dinanzi a lei i campi sottostanti che a gradoni scendevano nel vallone. Provò ad ascoltare le voci della campagna. Erano lontane e sbiadite. Poi la luna sbucando dal picco più alto dei monti ne illuminò l’ampio anfiteatro mettendo in evidenza le groppe alle basi di essi: la Scorza, il Toppolo, il rione delle concerie che ora avevano invaso tutto il paese come la sua casa e quella del suo vicino nel cui giardino era sorta una conceria simile alla sua.

Anche lì c’era lo stesso squallore su cui la luna gettava una luce sepolcrale.

I mucchi di carnume alle sue spalle, viscidi e lividi, rimandavano un’eguale immagine di morte.

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