Filosofia 

Il rapporto dell'uomo col divino

La strada per la realizzazione umana

 

Religione come fondazione dell'uomo

e religiosità popolare come rapporto uomo-Dio nella comunità.

 

l. Sentimento religioso

In questo studio analizzeremo la risposta al "richiamo metafisico", da noi definito come "elemento propulsore inesauribile e fecondo che si introduce nella evoluzione ed opera nella noosfera e che fonda lo statuto ontologico della persona vivente"1.

Esso si concretizza nell'uomo attraverso la via del rapporto col divino. Nello stadio iniziale dell'evoluzione umana non parleremo di religione perché con questo termine si designa uno stadio superiore dell'homo religiosus in cui la stratificazione primaria si è venuta concretizzando in una serie di atti strutturati2.

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1. Cfr. M. De Maio, Per una antropologia edenica. Ermeneutica del racconto biblico di Adamo ed Eva, in "Riscontri, 1-2, 1993, p. 102.

2. La parola religione è un derivato astratto di relegere = raccogliere composto di re- intensivo di legere = raccolta selezionata di atti rituali (G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze, 1970, p. 352). Cicerone le dà il significato di "leggere ad altri", riferito a quelli che nell'attività culturale riandavano col pensiero, rievocavano diligentemente e quindi rileggevano attentamente gli atti del culto ("omnia diligenter retractare et tamquam relegere" Cic., De natura deorum, 2,72). É chiaro comunque che il termine nasce per indicare un comportamento non uno stato d'animo.

 

Parleremo invece di sentimento religioso, indicando quello stato fondamentale dell'animo, che è correlato all'atteggiamento primario dell'essere umano che avverte sé, altro da ciò che lo circonda (l'autocoscienza primordiale) e nasce quando in questa situazione l'io sperimenta la propria finitezza e imperfezione, in tensione razionale verso qualcosa d'infinito e perfetto, permettendo l'innesto dell'evoluzione umana in quella della specie.

L'esperienza della negatività  - il proprio non-essere -  genera una tensione verso il positivo, come dire spinge a cercare un appoggio all'Essere, che produce essere, cioè realizzazione umana3. Il compimento dell'uomo, dice Olivier Rabut, "non è distinto da un'apertura verso l'Ultimo"4.

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3. Cfr. A. Gorres, Ai confini della psicanalisi. Psicologia del comportamento religioso, trad. it. di Ezio Bacchetta, Brescia, 2970, pp. 9-40 che è uno stimolante tentativo di studiare, alla luce di una psicanalisi poco conosciuta, le evoluzioni dell'intelletto e dello spirito, ponendo in una nuova luce le idee centrali della tradizione filosofica e teologica; e J. Danielou, La fede cristiana e l'uomo d'oggi, Milano, 1970, pp. 61 e sgg, in cui il cardinale francese, uno dei maggiori esponenti della "nuova teologia", indaga il problema fondamentale della dimensione religiosa dell'uomo. Importante è anche l'apporto di P. Louis Bouyr nel sottolineare il carattere spontaneamente religioso dell'uomo in Il rito e l'uomo, Brescia, 1967. Il teologo protestante R. Otto (Il sacro, l'irrazionale nell'idea del divino e il suo rapporto col razionale, trad. it. E. Buonaiuti, Bologna, 1926) ha chiamato questo essere fuori di noi numinoso ed ha analizzato il sentimento di spavento e inquietudine in cui si avverte il "numen praesens" che genera il senso del "misterium tremendum". Ci sono religioni pratiche che si fermano al momento negativo della constatazione della propria nullità come il buddismo e l'ascetismo. S. Agostino invece sottolinea nel De vita religiosa questo momento per giungere a Dio.

4. O. Rabut, Valore spirituale della realtà profana, Brescia, 1964, p. 51. In questo tratto siamo particolarmente debitrici alla ricerca del teologo francese, che alla luce della speculazione moderna, riconsidera le istanze umane erroneamente valutate e sana il falso iato tra realtà profana e spirituale, dimostrando come "la storia umana, prolungando l'evoluzione della specie, si dirige verso una umanità in possesso di tutti i suoi poteri", verso "il compimento umano" che si attua attraverso "la via evolutiva", e questo percorso è essenzialmente religioso (Ibidem, pp. 9 e 10).

 

 

La psicologia del profondo ha studiato questa istanza di base della personalità umana  - il "bisogno di trascendenza" -  di natura essenzialmente inconscia, che porta l'Io a superare il confine angusto della propria esperienza e a costruire modalità nuove che si innestano su situazioni precedenti, trasformandole. Una fondamentale tensione religiosa  - "il richiamo divino" è stato detto -  è dunque tra le forze più potenti della costituzione dell'Io5.

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5. Il maggiore rappresentante della psicologia del profondo dice: "Il concetto di divinità è [...] un'insopprimibile funzione psicologica di natura irrazionale [...], l'idea di un Essere di potenza sconfinata, di un Essere divino, è presente dovunque, in maniera conscia o inconscia, perché è un archetipo" (l'archetipo junghiano è una forza della natura umana. Cfr. C. G. Jung, Psicologia dell'inconscio, Torino, 1968, p. 122). Per i problemi di psicodinamica, a cui faremo spesso riferimento in questo tratto del nostro studio nel tentativo di comprendere la realtà che è alla base del comportamento religioso, cfr. A. Adler, Psicologia analitica, Torino, 1972; C. G. Jung, Psicologia e religione, Milano, 1966; Id, Psicologia dell'inconscio, Torino, 1968; G. Leevw (van der), Fenomenologia della religione, Torino, 1961; L. Pinkus, Contributo della psicologia junghiana alla comprensione della "vita spirituale"; R. Zavallone, Le scienze della religione oggi, Roma, 1978.

 

Mircea Eliade dai suoi poderosi studi sulle religioni trae la conferma che la coscienza sorse quando l'uomo riuscì a "conferire un significato" ai suoi impulsi e alle sue esperienze. Fu "attraverso l'esperienza del sacro" che "la mente umana afferrò la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e pieno di significato e ciò che non si rivela tale". "Questo processo dialettico", continua lo studioso, "precedette e servì da modello per tutte le forme dialettiche successivamente scoperte dalla mente umana"6. Anche per Ernest Cassirer ogni forma culturale trae sensibilmente la sua origine dal sacro7. Jean Daniélou parla di "genio religioso" dei popoli e si riferisce ad una specie di campo pre-storico, assoluto, universale, in cui l'essere religioso si configura come un'esigenza o una condizione dell'uomo in generale  - il diltheyano Erlebnis esistenziale, spontaneo e profondo -  che precede i contenuti storici in cui si cala e si concretizza8.

6. M. Eliade, Religione, in Enciclopedia del Novecento, Milano, 1982, s.v.

7. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, 1966. Per il filosofo tedesco tutto il reale è una produzione spirituale guidata da una energia essenzialmente sacrale. La sua poderosa sintesi gnoseologica, condotta alla luce dei progressi delle scienze esatte, allarga l'analisi kantiana a tutte le attività umane delle quali individua le caratteristiche strutturali che si riconducono ad un unico principio formale dell'attività del pensiero, dimostrando lo sforzo dello spirito umano "di trasformare il mondo passivo delle semplici impressioni in un mondo della pura espressione spirituale" (I, p. 13).

8. J. Daniélou, op. cit.

 

A questo punto possiamo accedere alla definizione di religione o religione naturale che è lo specifico rapporto dell'uomo con Dio, a quello di culto che è l'insieme degli atti mediante i quali l'uomo realizza il suo contatto col divino e a quella di religione positiva che è la determinazione concreta, legata a categorie culturali con cui gli uomini hanno elaborato il concetto di Dio e determinato il culto9.

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9. Per S. Tommaso (Summa Teologica, II, 2, 81) religione è quel complesso di relazioni che ordinano l'uomo a Dio. Per altre definizioni cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1984 e Enciclopedia delle religioni, Firenze, 1973, s. v. Citiamo la famosa definizione del sociologo francese E. Durkheim: "Nous dison les faits religeus et non la religion, car la religion est un tout de phénomènes religieux [...]. D'ailleurs, il y a une moltitude de manifestations religieuse qui ne ressortissent a aucun religion proprement dit" in De la definition des phenomènes religieux in "Année sociologique", n. 2 (1897-1898), p. 1. Quelli che sostengono che la religione è semplicemente un fatto storico e quindi bisogna analizzarla tenendo presente questa categoria ignorano il substrato religioso fondante il processo storico delle religioni positive. A. Gramsci afferma che "sia il partito che la religione sono forme di concezione del mondo e che l'unità religiosa è apparente come è apparente l'unità politica: l'unità religiosa nasconde una reale molteplicità di concezioni del mondo che trovano espressione nei partiti. [...] Ogni uomo tende ad avere una concezione del mondo organica e sistematica, ma poiché le differenziazioni culturali sono molte e profonde, la società assume una bizzarra variegazione di correnti che presentano un colorito religioso o un colorito politico a seconda della tradizione storica". A. Gramsci, Religione e politica, in Passato e presente, Roma, 1974, p. 214. Abbiamo citato per intero il passo del teorico italiano perché esso ci aiuta a puntualizzare la posizione della scuola gramsciana di cui parleremo in seguito.

 

La diversità delle religioni" dice Daniélou, "dipende essenzialmente dalla diversità nel genio religioso dei popoli", "la parola di Dio", continua, "è indipendente da ogni cultura e da ogni genio religioso ed è ricevuta da ogni popolo e da ogni razza secondo la propria mentalità", essa non distrugge allora "il genio religioso dei popoli, lo porta invece al compimento supremo"10.

Lo studio delle religioni positive fa emergere concretamente questo homo religiosus che è al fondo di ogni popolo. Mircea Eliade ha potuto costruire una fenomenologia dell'essere religioso proprio partendo dalla storia delle religioni. Si è valso dell'apporto di tutte le scienze umane per individuare i tratti comuni delle religioni, una specie di struttura religiosa dei popoli a cui le diversificazioni storiche hanno dato solo una diversa coloritura11.

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10. J. Daniélou, op. cit., p. 74.

11. Cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, 1948.

 

 

 

2. Analisi dell'esperienza religiosa.

 

2.1. Il simbolo

 

In questo tratto analizzeremo le forme e g1i elementi dell'esperienza religiosa seguendo una traccia necessariamente astratta.

Cominciamo dal simbolo, che è lo strumento necessario che la mente umana possiede per realizzare quell'istanza fondamentale  - il rapporto con l'assoluto -  che è alla base della costituzione di tutto il mondo dell'uomo12.

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12. Per gli argomenti che qui si sviluppano fondamentale è l'opera di E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit.

 

Il simbolo è qualcosa di materiale che rappresenta un qualcosa d'altro che ha valore assoluto, e si distingue dal segno che rappresenta semplicemente un'altra cosa.

L'attività simbolica permette all'essere vivente, immerso nella materialità, di trasformare, in virtù di questa valenza assoluta, a grado a grado, il mondo caotico delle cose in realtà spirituali. Cioè di "costituire spiritualmente", dice Cassirer, "sia il mondo del 'reale'. che quello dello spirituale, il mondo dell'io"13. L'operazione permessa dal simbolo è la dialettica di materiale e universale, guidata  dalla tensione verso l'assoluto. Questa è "un'energia autonoma dello spirito", attraverso la quale “la semplice esistenza dei fenomeni acquista un 'significato' determinato, un peculiare valore ideale"14. Quando ad un contenuto qualsiasi si applica l'operazione simbolica esso perde l'indeterminatezza che lo caratterizzava  - "la semplice sensazione data" è "un fatto assolutamente singolo e irripetibile" e quindi senza valore universale -  ed acquista "una più compiuta determinatezza", perché il simbolo si presenta come rappresentante di una totalità". Esso inoltre non si fissa una volta per tutte, poiché l'atto simbolico è "un processo costantemente progrediente di determinazione", ma può acquistare "una nuova consistenza e una nuova durata", assicurata però dalla stabilità della forma simbolica15.

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13. E. Cassirer, op. cit., I, p. 28.

14. Ibidem, p. 10.

15. Ibidem, p. 25 e sgg.

 

Il simbolo appare allora "un organo essenziale e necessario del pensiero", che fornisce alla coscienza dei processi sicuri di costruzione spirituale, ed agisce in tutte le attività umane  - nel mito, nella religione, nella conoscenza, nell'arte -  secondo forme peculiari di quell'attività, mediante le quali la mente fonda spiritualmente uno specifico aspetto del reale. Queste costruzioni spirituali non sono "modi diversi in cui una realtà esistente in sé si rivela allo spirito ma sono invece le vie che lo spirito segue nella sua obbiettivazione e nel suo manifestarsi"16 e tutte sono regolate da un'unica funzione spirituale. Una fondamentale istanza religiosa permette la costruzione spirituale di ogni prodotto umano e dello spirito stesso. Per questa via il mondo dell'uomo emerge dalla evoluzione della specie e si configura come "la continuazione e l'intensificazione" di quella17.

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16. Ibidem, p. 10. "Nella funzione simbolica della coscienza, quale si attua nel linguaggio, nell'arte, nel mito, si elevano per la prima volta dal flusso della coscienza determinante forme fondamentali che permangono sempre uguali, in parte di natura concettuale, in parte di natura puramente intuitiva; al posto del contenuto fluente sottende l'unità chiusa in sé e in sé permanente della forma" (ibidem, p. 25).

17. Ibidem, III, p. 51. In altro luogo il filosofo dice: "La vita emerge dalla sfera della mera esistenza data da natura: essa non rimane né un elemento di questa esistenza, né un processo meramente biologico ma si trasforma e si perfeziona divenendo forma dello 'spirito' (ibidem, I, p. 59).

 

Nell'attività religiosa il simbolo, come referente mentale della divinitá racchiude in una forte tensione che realizza la vita mistica del singolo e del gruppo. Il simbolo religioso non è un mezzo, ma un valore che evoca tutto un mondo di significati ineffabili che sono al suo centro, è come un'aureola che non determina né circoscrive il centro, lo rende pertanto adattabile a tutte le realtà e a qualsiasi grado di rapporto religioso. Se si cerca di determinarlo con un intervento razionalizzato allora esso perde l'energia valoriale e scade al ruolo di segno. Per converso nelle forme più evolute di spiritualità che portano all'esperienza di tipo mistico, poiché è avvenuta una "progressiva interiorizzazione" del processo religioso, la coscienza non ha più  bisogno del simbolo18.

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18. Questo processo è trattato in E. Cassirer, op. cit., II, pp. 215-363.

 

Introdotto nel culto, che gli crea intorno un rituale, che gli dà una norma, che gli impone degli obblighi e chiede che venga rispettato, il simbolo subisce una limitazione perdendo la pienezza significativa. Il rito infatti, inteso come un cerchio intorno all'atto religioso, rende difficile la sopravvivenza di uno spazio libero, creativo nel quale poter salvaguardare la necessaria indeterminatezza. Nello stesso tempo per essere tramandato e realizzare la comunicazione tra i partecipanti il simbolo religioso deve entrare in una istituzione, subire questa limitazione rischiando la morte di se stesso19.

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19. Su questo argomento v. C. Verhoeven, Dove va Dio?, trad. it. di L. Van Wassenaer-Creocini, Roma, 1970; C. Baudouin, Psicanalisi del simbolo religioso, Alba, 1960.

  

 

2.2. La magia

La magia è da correlare a quello stadio primario in cui s'innesta nell'uomo il rapporto religioso. Gli studi sul comportamento umano hanno infatti posto in risalto come magia e religione sorgono da un'identica situazione e quando non ancora sono netti i contorni di distinzione tra l'umano e il naturale20.

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20. Cfr. M. Mauss, Teoria generale della magia ed altri saggi, trad. it. di F. Zannino, Torino, Einaudi, 1963; L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, trad. it. di C. Cignetti, Torino, Einaudi, 1975; E. Cassirer, op. cit., v. II.

 

Il comportamento magico come quello religioso è legato ad uno stato fortemente emozionale determinato dalla esperienza della individuale precarietà rispetto al mondo circostante che sovrasta, per cui si genera una forte tensione verso qualcosa cui ricorrere per risolvere il negativo. Se questo "spazio" viene riempito di elementi che, pur presi dal mondo circostante, si caricano di "senso perché sono riferiti ad un tutto, in modo che si possa approdare ad una sintesi superiore, con il risultato che l'uomo cresce come persona e come gruppo, siamo nell'attività religiosa; si è invece nella magia se questi elementi restano quelli che sono, privi di forza, quindi non capaci di generare alcuna tensione maturante, anzi provocando spreco di energia. La magia si configura insomma una strategia che è sulla linea dell'"avere" e non dell'"essere"21.

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21. Ci si riferisce all'opera di E. From, Avere o essere? (Milano, Mondadori, 1977, trad. it., di F. Saba Sardi) in cui l'autore analizza le due modalità fondamentali d'esistenza: dell'avere, incentrata sulla brama di possesso nel senso anche dell'incorporazione dell'oggetto, opposta a quella dell'essere, basata sull'attività autenticamente produttiva e creativa, di processo, attività e movimento quale costituente dell'essere.

 

Ernest Cassirer ha messo in risalto come "in virtù dell'onnipotenza della volontà magica l'io cerca di afferrare e di piegare a sé le cose, ma proprio in questo tentativo esso si rivela ancora dominato, ancora 'posseduto' completamente da queste. Anche il suo supposto agire diventa ora per esso una fonte di patire"22. Per il filosofo tedesco però l'attività magica costituisce lo stadio iniziale dell'attività spirituale mitico-religiosa che permette all'uomo, dominato dal desiderio di reagire alla passività sensibile, di far emergere dal flusso indistinto del reale impressioni dì particolare intensità.

Alcuni studiosi indicano nella mentalità magica una "sopravvivenza del pensiero collettivo" in cui "l'individuo perde la propria individualità e sì confonde con la realtà", regredisce cioè sul piano maturazionale23.

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22. E. Cassirer, op. cit., II, p. 221

23. E. Durkheim e M. Mauss, Su alcune forme primitive di classificazione. Contributo allo studio delle rappresentazioni collettive, in AA. VV., Le origini dei poteri magici, Torino, Boringhieri, 1951, p. 21, v. comunque tutto il saggio (pp. 19.21). Stimolante anche lo studio (nello stesso volume pp. 95-131) di H. Hubert e M. Mauss (La rappresentazione del tempo nella relazione e nella magia) in cui gli autori dimostrano come il concetto di tempo sia nato dalla rappresentazione religiosa e magica della vita.

 

Il comportamento magico è dunque proprio dell'uomo primitivo per il quale "un numero di atti e di credenze rituali già fatte, una tecnica mentale e pratica definita" servono "a superare gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa o in ogni situazione critica", con la funzione asseverante "di ritualizzare l'ottimismo dell'uomo, di rafforzare la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura"24.

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24. Cfr. B. Malinowski, Magic, Science and Religion and Other Essay, Boston, Glencoe, 1948, p. 90; v. pure Idem, Teoria scientifica della cultura e altri saggi, trad. it. di G. Faina, Milano, Feltrinelli, 1971.

 

G. Frazer nel suo poderoso studio sul comportamento dell'uomo, sottolineando le ampie zone di collegamento, di continuità o coincidenza della magia con la religione  - e questo specie presso i popoli primitivi -  dimostra come alla base dì questa originaria modalità ci sia "una errata associazione di idee", e che la magia, adattandosi e modificandosi, arriva fino ai nostri giorni nei comportamenti folclorici dei popoli moderni e penetra nelle religioni più alte25. In questi casi si parla di sincretismo, magico-religioso, da intendersi non nel senso di una compresenza dei due elementi nello stesso momento bensì di un passaggio dall'uno all'altro, poiché qualora all'atto religioso venissero a mancare le caratteristiche che lo definiscono tale  - fenomeno cioè del tutto interiore in cui si genera una tensione maturante -  esso diverrebbe atto magico26, ovvero sarebbe semplicemente un atto profano o folclorico.

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25. Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d'oro, trad. it. di L. De Bosis, Torino, Boringhieri, 1973, p. 63 e sgg.

26. Cfr. G. Le Bras, Studi di sociologia religiosa, trad. it. di G. Caputo e L. Pellegrini, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 270 e sgg.

 

Nell'uomo civilizzato il comportamento magico è una reazione elementare  - la realtà non distinta dal soggetto o concepita come animata fa parte della mentalità infantile -  della coscienza che sperimenta la propria insufficienza dinanzi a situazioni difficili. In questi soggetti, che hanno carenze maturazionali, l'atto magico ha valore catartico per la capacità di alleviare i meccanismi di ansietà come abbiamo visto per l'uomo primitivo.

Levi-Staruss ha collegato la cura psicanalitica con la magia, poiché entrambe portano ad un atto sublimatorio di transfert27.

La psicologia del profondo riconosce nella magia una forma di quell'energia spirituale latente nell'inconscio di tutto il genere umano, che è il bisogno di Dio e che l'uomo non riesce a gestire in modo positivo28.

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27. Cfr. C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il saggiatore, 1964: Idem, Il totemismo oggi, trad. it., di D. Montaldi, Milano, Feltrinelli, 1964.

28. Cfr. C. G. Jung, Psicologia dell'inconscio, cit., pp. 5 e sgg,; Idem, Inconscio, occultismo e magia, Roma, Newton Compton Italiana, 1971.

 

 

2.3. Il mito.

La tensione verso l'assoluto diventa nel mito potente forza costruttrice e ordinatrice29.

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29. In questo tratto si sono tenuti presenti gli studi di M. Eliade che, valendosi del contributo di etnologi e antropologi, ha posto il mito in una dimensione nuova comunque libera dai pregiudizi e dalle mentalità della cultura occidentale (cfr. M. Eliade, Mito e realtà, Milano, Rusconi, 1974 e Idem, Il mito dell'eterno ritorno, Milano, Rusconi, 1974) e gli studi citati di E. Cassirer particolarmente il vol. II e Simbolo, Mito e cultura, Bari, Laterza, 1985.

 

Il bisogno umano di trascendenza, la necessità di dare forma all'inconoscibile e senso alla propria esperienza che costituiscono il negativo, provocano nell'uomo una tensione fortemente emozionale  - la si è vista anche alla base del comportamento magico -  che non può essere catturata dalle categorie dell'intelletto, ma solo "pensata" e che la mente umana esprime con delle figurazioni mitiche cariche di significati universali ed assoluti, che diventano archetipi. Il mito contiene infatti solo avvenimenti dotati di valore assoluto, modelli esemplari di attività umane che non avvengono nel tempo, la cui funzione asseverante è data dal rapporto con la divinità o con gli antenati. Esso allora diventa un punto fermo di riferimento ed una guida per l'uomo che, appena uscito dall'animalità, si trova immerso nel caos del mondo e dell'indeterminatezza di azioni senza senso, e, poiché deve essere "attualizzato", dà all'uomo la possibilità di ripetere le esperienze descritte e in questo modo di "ricreare" la propria vita: essere "come non era prima", correggere il proprio errore, riprendere la fiducia e la forza per progredire, dare ordine al mondo.

É questa un'attività importantissima, perché per la mentalità arcaica tutto ciò che avviene nel mito ha valore reale, è ricco di senso rispetto al negativo che è fuori; ed è un'attività totalmente religiosa con la quale l'uomo "fonda ontologicamente il mondo" e realizza il suo processo maturazionale; e attraverso il quale il sacro esplica la sua forza costruttrice nel mondo dell'uomo insieme all'uomo stesso.

Prima espressione umana del sacro, primo campo di sviluppo dell'umanità il mito indica come un determinato gruppo sente l'universale, come risponde al bisogno di guida, di regolarità, di stabilitá, di unione tanto che, analizzando le sue strutture, si possono individuare quelle mentali e comportamentali del gruppo.

E la mitologia acquista la funzione civilizzatrice di un potente disegno metastorico o di un sistema istituzionalizzato, divenendo la storia epico-religiosa di un popolo. D'altronde la ricchezza archetipica gli permette di essere una struttura aperta che accompagna, in forme di volta in volta diverse, tutta l'evoluzione umana come un fecondo nerbo guidante.

Ernest Cassirer ha sottolineato questa funzione del mito considerandolo "un fattore indispensabile, un elemento fondamentale nell'evoluzione della cultura umana" e ha dimostrato come il mito sia "un elemento costante nella vita dell'uomo", non solo perché prodotto di una struttura del pensiero umano, ma anche perché espressione di un’esigenza della natura umana tanto che l'uomo, dice sempre il filosofo tedesco, è anche "un animale" mitico30.

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30. E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, cit., pp. 239 e 247.

 

E Mircea Eliade conferma: "l'uomo qual è oggi è il risultato degli [...] avvenimenti mitici, è stato costituito da questi avvenimenti"31, ma in questa costruzione, anche se l'atto religioso mitico lega l'uomo ad una ciclica ripetizione, egli progredisce solo quanto può nella libertà assicurata dal sacro. Il Cristianesimo, sganciando l'uomo dalla costrizione del ciclico rituale arcaico e immettendolo nella linearità della storia ha dato piena libertà a questa umana edificazione32.

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31. M. Eliade, Mito e realtà, cit., p. 17.

32. Ibidem, pp. 183 e sgg.

 

I miti d'oggi continuano ad avere la stessa funzione organizzatrice dell'attività degli uomini, solo che il mito scientifico, quello che "nasce dall'uomo e all'uomo ricorre senza soluzioni di continuità, rinserra [...] l'uomo in un circolo chiuso, narcisistico, in cui come in una galleria di specchi egli vede rifrangersi da tutti i lati la propria immagine magari ingrandita e sublimata, ma sempre la propria immagine33. Questo mito desacralizzato non ha alcuna tensione valoriale, anzi costringe ad azioni fredde e ferme, è allora sulla stessa dimensione della magia34.

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33. S. Cotta, La sfida tecnologica, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 96.

34. Cassirer ha dimostrato "quanta pericolosa forza esplosiva" abbia "il mito completamente razionalizzato" del mondo contemporaneo. V. per questo argomento i lucidi saggi dell'ultimo periodo (in Simbolo, mito e cultura, cit.) che hanno la chiara profondità del pensiero maturo.

 

Questa attività umana è stata nel passato variamente valutata. C'è chi vi ha visto uno sviamento dello sviluppo del linguaggio o uno stadio dell'evoluzione sociale. Platone lo considera un prodotto inferiore ma necessario dell'attività intellettuale e lo mette in relazione al logos come l'opinione alla scienza35. Tutto ciò contribuì a dare al mito l'accezione di racconto favoloso, idea avvalorata dalla letteratura che se ne impossessò, contribuendo ad allontanare il punto di vista dal quale il mito poteva essere considerato. Fu Giambattista Vico che dette dignità al mito, considerandolo come una forma autonoma di pensiero, diversa da quella razionale36, posizione che venne ripresa e ulteriormente approfondita da Ernest Cassirer per il quale il pensiero mitico è un modo di essere dello spirito, in cui opera essenzialmente il sentimento, le cui costruzioni sono una specie di materia spirituale37. Oggi il mito, per opera soprattutto dei contributi della psicologia del profondo, della fenomenologia religiosa, degli storici della religione è visto come "una realtà culturale, espressamente complessa, che può essere analizzata e interpretata in prospettive molteplici e complementari38.

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35. Cfr. Platone, Gorgia, trad. it. di F. Zambardi, Bari, Laterza, 1941.

36. "Che i caratteri poetici, ne' quali consiste l'essenza delle favole nacquero da necessità di natura, incapace d'estrarre le forme e proprietà da' subbietti, e, in conseguenza, dovett'essere maniera di pensare d'intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessità si natura" (G. Vico, La scienza nuova seconda, a cura di F. Niccolini, Bari, Laterza, 1953, p. 400).

37. "Il mito sorge spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un'altra forma di materialismo e di legame con le cose" (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit. II, p. 34).

38. M. Eliade, Mito e realtà, cit., p. 10. Per altre interpretazioni del mito v. B. Malinowski, Il mito è il padre della psicologia primitiva, trad. it. di A. M. Panepucci e G. Pino, Roma, Newton Compton, 1976; L. Levy-Bruhl, La mitologia primitiva, trad. it. di S. Lener, Roma, Newton Compton, 1973; E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit.; C. Levy-Strauss, Antropologia strutturale, cit.; per l'interpretazione cattolica v. H. Fries, Il mito, in AA, VV., Sacramentum Mundi, Brescia, Morcelliana, 1974-78, v. V.

 

  

2.4. Il rito.

Abbiamo visto come il mito sia direttamente legato alla sua "attualizzazione", cioè al rito, entrambi momenti di una medesima attività psichica39, poiché le figurazioni mitiche diventano reali solo nel rito40 (il mito vive nel rito) e senza l'operazione archetipica del mito il rito religioso non esiste, inoltre la ricchezza acquisita nel rito si traduce in nuove figurazioni mitiche in una dimensione sincronica e diacronica.

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39.  L'antropologia culturale si pone il problema della priorità del mito sul rito e viceversa riuscendo a dare risposte soddisfacenti solo quando i due elementi vengono visti come prodotti psichici. Cfr. C. Levi-Strauss, L'uomo nudo, trad. it. di E. Lucarelli, Milano, Il Saggiatore, 1974; Idem, Antropologia strutturale, trad. it, di S. Moravia, ivi, q978; E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit.

40. "Il rito non è semplice rappresentazione di un evento, ma l'evento stesso e il suo diretto compiersi" (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., II, p. 58).

 

Il rapporto religioso richiede una serie di azioni ferme e precise che devono ripetersi, non solo per il particolare valore che, come vedremo ha la ripetizione, ma anche perché solo esse come modelli di azioni primordiali o date dalla tradizione, assicurano l'apertura alla divinità. Si hanno così gli atti rituali specifici del culto che sono descritti nella liturgia di ogni religione.

L'atto rituale ha alla base quel comportamento umano che chiamiamo abituale. Esso riproduce atti efficienti ed essenziali che costituiscono un substrato importantissimo a livello individuale e collettivo, sia per l'economia di energia, che per dare sicurezza contro l'infinitudine delle possibilità dell'azione, ma anche per permettere l'innesto di azioni nuove e importanti. Si coglie l'effetto psicologico dell'atto rituale se lo si rapporta con l'atto tecnico, che ha solo uno scopo, mentre l'altro ha sempre "un elemento significativo o simbolico"41.

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41. A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva, trad. it. di G. Bartolini, Milano, Jaca Book, 1968, p. 158. Sulla funzione psicologica e sociale del rito oltre alle opere citate nella nota 37 cfr. M. Gluckman, Il rituale nei rapporti sociali, trad. it. di D. Lanternari, Roma, Officina, 1972, inoltre l'interessante esemplificazione di C. Verhoeven citata e le opere menzionate di M. Eliade.

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Questo comportamento nel contesto sociale diventa un agire istituzionalizzato, come una traccia sul cammino dell'uomo, che dal passato dà sicurezza al presente e promessa al futuro. Diventa una norma della comunità, vive con essa, integrandosi di nuovi elementi, complicandosi e trasformandosi in usanza assicurata dalla tradizione. Creata dalla comunità l'usanza o rito costituisce il legame del gruppo, ne accompagna i momenti salienti. Ogni evento importante ha infatti un rituale, che è come uno "strato protettivo intorno all'avvenimento", un'azione che circonda l'azione di cui l'uomo vuole assicurarsi la realizzazione42.

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42. Cfr. C. Verhoeven, op. cit., pp. 54-60.

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Comunemente la parola rito o rituale si riferisce solo al comportamento religioso, ma noi ne abbiamo voluto sottolineare l'origine primaria, seguendo la linea lungo la quale ci stiamo muovendo, di considerare cioè il comportamento religioso come una categoria elementare umana. Nel campo religioso il rito infatti conserva tutti gli elementi di qualsiasi rituale, acquista però un'importanza sacrale per le caratteristiche che individueremo. Seguiamo per prima la riflessione di L. Pinkus che va alle origini psicodinamiche dell'atto rituale, considerandolo uno spazio protetto che la comunità si crea, ove ripetere l'esperienza positiva fatta precedentemente, dove "i desideri, le speranze, i drammi fondamentali dell'essere umano vengono agiti, dove si ricercano risposte, dove soprattutto [...] viene vissuta l'esperienza di maturazione e di trasformazione della coscienza religiosa. In questo senso i riti sono l'espressione della dinamica evolutiva o involutiva della coscienza religiosa di un determinato gruppo"43.

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43. L. Pinkus, op. cit., p. 145.

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Il rituale religioso serve per preparare l'avvenimento importante dell'uomo che accede al divino. La ripetitività assicura che tutto si realizzi come avvenuto precedentemente, predispone alla concentrazione, quindi all'apertura, crea l'atmosfera, dà forza. L'evento religioso ha bisogno di azioni significative e simboliche.

Il rito sacro corre però il pericolo di scontrarsi con i processi abitudinari che addormentano o distruggono l'adesione, inoltre, poiché diversamente dagli altri rituali questo tipo di rito richiede cieca obbedienza, tende ad annullare la libertà individuale. Il sociologo francese Gabriel Le Bras ha studiato l'ambivalenza del rapporto tra "la religione e la pratica", dimostrando che se è vero che il meccanismo che si instaura nella pratica religiosa contribuisce a far perdere la genuinità all'atto religioso, anche "i gesti del culto" possono "suscitare la fede". Comunque il rito religioso, essendo "un fatto essenzialmente collettivo" che assicura ed esprime l'identità etnica, lega "un popolo al suo costume", è protetto dalla stessa comunità che esercita una sorta di "sorveglianza costante" con le sanzioni sociali, "il biasimo silenzioso, il sospetto morale"44. Il sincretismo magico-folclorico-religioso del rito nasce dalla centralità ed essenzialità sociale di questo comportamento, in cui il gruppo convoglia le modalità essenziali della propria realtà. Solo l'adesione intima in questo caso stabilisce, come abbiamo detto, quando l'atto è religioso e quando è magico o folclorico.

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44. G. Le Bras, Studi di sociologia religiosa, cit., p. 259.

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I riti per la loro essenziale funzione devono essere protetti, perciò avvengono in luoghi circoscritti che aiutano la realizzazione del rapporto col divino, al di fuori dei quali c'è il completamente profano, e nei quali il sacro viene a contatto col profano; si inquadrano in un contesto particolare, la festa45, durante la quale ci si astiene dal lavoro, si indossano abiti diversi, si compiono azioni particolari.

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45. M. Eliade ha sottolineato la funzione rigeneratrice e liberatoria della festa in La nostalgia delle origini, trad. it. di A. Crespi, Brescia, Morcelliana, 1972 e E. Durkheim, Le forme elementari, cit. Per il concetto di festa come trasgressione v. S. Freud, Totem e Tabù, trad. it. di C. G. Musatti, in Opere, vol. II, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 144 e sgg.

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3. Religione e società.

Il rapporto religioso, essendo essenzialmente un rapporto sociale, cresce e si trasforma insieme alla società in cui si realizza.

Nella società infatti l'uomo deposita i modelli comportamentali che costituiscono il patrimonio storico-culturale del gruppo che egli stesso rinnova e ricrea continuamente. Quel processo di trascendenza, che abbiamo visto operare a livello individuale si socializza ed il compimento umano diventa compimento sociale, per cui c'è chi ha parlato di una "dimensione religiosa della cultura" con "un potenziale che possiamo chiamare utopico, rivoluzionario, innovatore [...], ma che esplica una funzione insostituibile per la trasformazione umana dei processi di cambiamento sociale"46. Nello stesso tempo il modello religioso, che si instaura nella società, assicurando col suo andare ciclico e ritmico la essenziale regolarità della vita sociale, permette ed agevola i processi trasformativi.

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46. L. Pinkus, op. cit., p. 143. Lo studioso di Jung sottolinea come "trasformazione umana" significhi dal punto di vista psicodinamico non "adattamento passivo o utilitaristico" ad "uno stimolo esterno di paura o di autorità" ma "trasformazione dei livelli di consapevolezza che nel cambiamento esprimono l'avvenuta maturazione" (ibidem). V. l'intero saggio citato (pp. 131.160).

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La relazione uomo-religione-societá è un paradigma sociologico, ove il religioso se è in rapporto di priorità sul sociale nello stesso tempo vive e modifica le sue espressioni nella società non senza che lo stesso contesto sociale interagisca determinando l'evoluzione delle proprie strutture.

Nella storia religiosa di ogni società troviamo questo processo per cui l'istituzione religiosa appare come "un insieme in movimento" che si concretizza in forme aderenti alla società, e mobili come può essere qualsiasi organismo vivente; ma per i profondi processi psicodinamici che mette in essere non può lasciarsi assorbire dai fenomeni costituendone anzi l'amalgama47.

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47. Cfr. K. Rahner, V. Ranke-Heinemann, N. Greinacher, Chiesa, uomo, società, Brescia, Morcelliana, 1970. La concezione della religione che, come istituzione influenza il comportamento sociale specie nella sfera dell'economia e della politica, è legata agli studi di E. Troeltsch (Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, trad. it. di Sanna, Firenze 1969) e M. Weber (Economia e società, trad. it. di P. Rossi, Milano, Comunità, 1961).

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Anche la storia delle religioni dimostra questa essenziale malleabilità alla società della vita religiosa che in essa si esplica e che si qualifica come sistema di pensiero che si attualizza e quindi che presiede alle forme sociali, le guida con norme e valori.

Nell'attuazione del modello religioso la collettività si dispone come in una sorta di scala con comportamenti che sviluppano tradiscono o deformano lo stesso modello, rispondendo a forze istintuali, sociali o storiche. Comprendiamo la forte incidenza della collettività nel determinare i cambiamenti nel comportamento religioso, se consideriamo che il comportamento collettivo può raggiungere i piani profondi della costituzione dell'essere, dove emerge la spontaneità. L'adesione emozionale collettiva, provocata dall'atto religioso, determina un momento di essenziale debolezza razionale, durante il quale si instaurano atteggiamenti inconsci anche paradossali, che o elaborano elementi culturali preesistenti o, li condensano, comunque li consolidano fortemente, divenendo costumi di vita. É questo il processo attraverso il quale la tradizione entra prepotentemente nell'atto religioso e siccome, tutto avviene a livelli inconsci e primari, con altissimi gradi di incisività e di amalgama, specie se meno forti sono le resistenze all'apertura emozionale, è difficile l'individuazione degli elementi allotrî introdotti nella pratica religiosa.

L'esperienza religiosa nella società diventa dunque un fenomeno complesso, per cui deve essere regolarizzata con norme etiche, fissata nei riti, definita nei ruoli, precisata nei meccanismi, assicurata la ritmica ripetizione, deve cioè diventare istituzione. Questa però per la fissità delle sue forme incontra difficoltà a seguire l'evoluzione psichica e quella sociale, mentre la stessa ripetitività può far subentrare processi adattivi che determinano lo svuotamento dei simboli. Altri problemi legati alla religione istituzionalizzata sono quelli che nascono nelle società complesse, poiché qui è più difficile "creare spazi di esperienza per tutti i contenuti umani" o seguire le leggi della massa, insomma dare alla istituzione un carattere dinamico. Infatti spesso essa resta lontana dai bisogni che hanno determinato l'atto religioso, per cui è stato affermato che "nella istituzione il sentimento religioso si irrigidisce e si congela" e "l'istituzione a cui ha dato luogo sopravvive"48.

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48. Il problema del "social and cultural lag" cioè dell'adattamento di una istituzione, che per molti versi ha caratteri conservativi con l'evoluzione sociale, è trattato in L'adattamento della Chiesa alla società, in K. Rahner ecc, op. cit., pp. 76-81. V. pure C. Verhoeven, op. cit., pp. 9-10 e F. o'Dea, Sociologia delle religioni, Bologna, pp. 145-156.

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4. Religiosità popolare

Se caliamo l'essenziale rapporto dell'uomo con Dio nella realtà storica e gli diamo un soggetto che lo realizza allora possiamo accedere al concetto di religiosità intesa come la modalità, con cui si esprime concretamente una persona religiosa. L'aggettivante popolare invece colloca quegli atti, caratterizzati da spontaneità creativa e fortemente determinati dalla tradizione, nella spiritualità elementare e profonda dell'uomo49.

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49. Per la problematica terminologica v. V. Bo, La religiosità popolare, Assisi, Cittadella, pp. 13-17; D. Sartori, Panoramica critica del dibattito attuale sulla religiosità popolare, in AA. VV., Liturgia e religiosità popolare, pp. 17-20; AA. VV., Dizionario di sociologia, Alba, Paoline, 1976, s. v. Religione; A. Sombrero e M. Squinllanciotti, Analisi di alcune categorie di lettura della religione popolare in F. Saija (a cura di), Questione meridionale, religione e classi subalterne, Napoli, Guida, 1978, pp. 369-387.

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Nell'individuare le motivazioni di fondo del comportamento religioso abbiamo visto che in esso agisce potentemente il fattore emozionale su cui si introduce la determinazione storico-culturale e che l'atto religioso "vive" nella società. Abbiamo visto insomma che il comportamento religioso, essendo un comportamento primario, assorbe tutti gli elementi di cui è ricca la complessione dell'uomo e della società, è un comportamento essenzialmente tradizionale. Abbiamo visto anche, e la storia delle religioni lo conferma, che l'uomo ha sentito il bisogno di proteggere o di attuare in esperienze collettive tutte le situazioni essenziali o fortemente emotive della propria esistenza. Inoltre ha esperito una gamma di tentativi per porsi in relazione col divino insieme al gruppo.

Possiamo allora definire la religiosità popolare come l'espressione dell'essenziale cammino religioso di un gruppo, che diventa tradizione, cioè si realizza in quella struttura portante in cui il gruppo deposita i "valori" scaturiti da quel cammino che lo guidano nella storia50.

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50. L. Pinkus parla di religiosità popolare come "vissuto-esperienziale personale" che ha "una precisa collocazione gruppo-culturale senza la quale rischia di essere una pura intellettualizzazione" (op. cit., p. 296).

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Religione e tradizione vengono ad unirsi essendo la prima la spinta verso il compimento umano, la seconda il risultato di quel cammino, l'esito della risoluzione dei problemi esistenziali del gruppo, la risposa al bisogno di significato. Il rapporto con Dio di un gruppo, essendo un comportamento di base, che dà significato, è la prima modalità a diventare tradizione e tramite essa a fecondare anche il non religioso.

La tradizione, improntata di valori religiosi, si qualifica come forza dinamica, perché strutturata in modo funzionale, che guida il cammino dell'uomo, l'equivalente della spinta istintuale che agisce nella evoluzione della specie.

Nel culto non c'è dunque unione di due elementi  - religione e tradizione - ,e neanche la loro fusione, c'è semplicemente la religiosità attuata di una comunità, dove l'esigenza primaria  - il rapporto col divino -  s'è realizzata. Il culto asettico non esiste, immaginare una serie di atti liturgici "a parte" è un'aporia sociale. La storia delle religioni evidenzia il lento "formarsi" del culto, il crescere sociale del rapporto uomo-Dio51.

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51. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit. Le ricerche iniziate da E. Delaurelle (La pieté populaire au Moyen Age, Torino, Bottega d'Erasmo, 1980) sulla pietà popolare del Medio Evo che hanno per la prima volta portato l'attenzione alla vita religiosa delle masse popolari e che sono state continuate in modo sempre più sistematico, hanno permesso di studiare il processo in atto di diffusione di una religione, evidenziando l'integrazione funzionale che si instaura tra religione e tradizione proprio per le caratteristiche di comportamento di base che ha il comportamento religioso.

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Quando nella comunità la convivenza è più strettamente relazionale, quando la consistenza sociale è più compatta e gli archetipi culturali sono ben definiti allora si determina unità di comportamento. Quando invece una comunità passa a forme sociali più organizzate e complesse e numericamente crescenti, quando in questo gruppo si introducono forme culturali non prodotte autonomamente o forme divergenti come quelle della massificazione, allora il culto perde la propria compattezza e si formano e affiorano le stratificazioni cultuali.

La religiosità popolare appare come una stratificazione quando il gruppo sociale non è più compatto, dove l'aggettivante "popolare" non indica una parte della società, magari distinta da un'altra, come due schieramenti antitetici, ma indica che quella stratificazione orizzontale (caratterizzata da spontaneità, creatività e tradizionalità), interferendo con l'asse paradigmatico delle differenziazioni culturali, determina sull'ascissa una varietà di risultati in cui le caratteristiche della religiosità popolare sono presenti in vario modo. In altre parole in una società complessa la religiosità popolare è quel prodotto di base che emerge con caratteri propri52. D'altronde gli strati più maturi della società introiettano nella tradizione più facilmente elementi di cambiamento, là dove invece ci sono debolezza culturale e forme elementari di spiritualità questa conserva maggiore solidità. L'istituzione religiosa diventa una struttura che lo stesso gruppo si crea e che ha la medesima funzione nerbo-guidante che abbiamo individuato nella tradizione.

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52. Gli studi storici hanno messo in risalto che i fatti religiosi hanno nel loro fondo qualche cosa di popolare. F. A. Isambert, studioso di etno-storia, afferma: "Une masse d'historiensse sont aperçu que les faits religieux qu'ils étudiaent avaient quelque chose de popoulaire" (Le sens du sacré, Paris, Les editions de Minuit, 1982, p. 13). Questo problema, emerso dagli studi che dal 1970 si erano tenuti in Francia sulla Religiosità popolare, fu oggetto di particolare attenzione in seno al Congresso Internazionale tenuto a Parigi nel 1977 dal CNRS.

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Raul Manselli ha individuato nella pietà popolare del Medio Evo i caratteri della religiosità popolare che possiamo assumere perché sono gli elementi della religiosità di base e perché sono presenti in tutta la vasta gamma della tipologia della religiosità popolare. Essa si esprime in forme semplici ed elementari, aperte a sentimenti immediati, legati al passato e comunque in forme che si riallacciano a esperienze precedenti; forme che curano gli atteggiamenti esteriori e verbali, che coinvolgono interamente la collettività; è una religiosità ansiosa, allusiva, che accetta il miracolo e tende alla immediata esaltazione. Nella sfera colta invece la religiosità è più sobria, più intima, più controllata criticamente53.

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53. R. Manselli, La religiosità popolare nel Medio Evo, Torino, Giappichelli, 1974; W. Schmidt ha messo in risalto il progressivo passaggio a forme più interiori di religiosità in Manuale di storia comparata delle religioni, Brescia, 1933. Le espressioni caratteristiche della religiosità popolare sono state analizzate da A. M. Di Nola, Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna, Torino, 1976 e V. Lanternari, La grande festa, Bari, Dedalo, 1976. Per una tipologia della vasta gamma delle manifestazioni di religiosità popolare pur tenendo presente le differenziazioni culturali v. C. Valenziano, Sulla religiosità popolare: osservazioni per una tipologia nelle culture cristiane, in "Vita monastica", n. 132 (1978), pp. 74-96.

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 Se consideriamo la religiosità popolare come il porsi dell'anima semplice in rapporto con Dio  - non una religione in tono minore o deviante, ma un tipo di religiosità -  non solo si chiariscono tutte le manifestazioni individuate, ma scompare anche la pretesa subalternità, perché quegli elementi e quegli atti, che si indicano come tipici della religiosità popolare, rispondono ad esigenze precise dell'anima semplice, manifestazioni dell'immaturità spirituale di chi le esprime. Allora anche il folclore può acquisire valore religioso, se dietro ad un qualsiasi atto folclorico c'è l'adesione propria del rapporto religioso. L'accentuato tradizionalismo, mentre è spiegato dal fatto che dà sicurezza e chiarisce perché la religiosità popolare subisce profonde differenziazioni locali, spiega l'eccessiva ritualità  - emulando il rito la fissità del tradizionale -  o le forme essenzialmente collettive, essendo la tradizione un prodotto sociale.

Si comprende allora che la "religiosità popolare non è una categoria, non è un concetto rigido, che noi vogliamo calcare sulla realtà: la vita religiosa, nel concreto suo muoversi, è così varia e profonda che non soffre alcuna schematizzazione, alcuna riduzione sociologica o strutturalistica"54.

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54. G. De Rosa, Conclusioni, in "Ricerche di storia sociale e religiosa", a. VI, n. 11 gennaio-giugno 1977, p. 185. Rimandiamo a tutto il lucido intervento conclusivo di G. De Rosa alla Tavola rotonda sul tema "Religione e religiosità popolare" tenuta a Monticchio Maggiore (Vicenza) nei giorni 25-26 ottobre 1976 in op. cit. in cui lo studioso, traendo le conclusioni dell'importante consesso, dà una chiara traccia della religiosità popolare, che non "entra" nella cultura folclorica come "parte" di un tutto". Sottolineiamo inoltre la fecondità della proposta di J. C. Schmitt nel suo intervento "Religione popolare" e cultura folclorica, di studiare questo tipo di manifestazione religiosa dal punto di vista della psicologia collettiva o della psicologia in genere (ibidem).

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 Il fenomeno della religiosità popolare è sempre esistito, su di esso si è indirizzata l'attenzione degli studiosi, quando, s'è visto, che il comportamento del popolo resisteva ai mutamenti epocali e quando la deprivazione spirituale della società tecnologica ha fatto emergere la valenza spirituale di quelle forme di religiosità più genuine.

Contemporaneamente la maggiore maturità delle scienze umane ha permesso di studiare con mezzi nuovi anche metodologici il comportamento religioso del popolo, dando un contributo notevolissimo alla stessa religione. Particolarmente l'indagine storica è stata feconda di risultati55. Vale la pena citare i fruttuosi studi sulla "pietà popolare" nel Medio Evo, che hanno permesso di conquistare categorie e tratti fondamentali del vasto campo della "cultura popolare"56.

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55. L'indagine storica, postulando l'analisi degli eventi storici dall'"interno", si è aperta ad un fecondo campo, dove si è incontrata con il comportamento popolare. Cfr. W. Dilthey, Nuovi studi sulle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, trad. it. di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1954, pp. 322-326; E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia trad. it. di C. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1966.

56. Gli studi sulla pietà popolare del Medio Evo hanno portato alla luce "il grande assente", permettendo una vera e propria scoperta del secolo. Valgono per tutte le indagini di E. Delaruelle, che, come dice André Vauchez nella prefazione al volume citato che contiene molti saggi, "ha dato dignità storica allo studio delle manifestazioni della pietà popolare", p. XVI; v. pure la feconda analisi di A: Ja. Gurevic, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1986.

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Vogliamo porre termine a questo nostro contributo riprendendo una delle motivazioni indicate come causa dell'interesse alla religiosità popolare e cioè la ricerca del sacro nella società contemporanea. Dinanzi agli esiti fallimentari dei prodotti della razionalità scientifica e tecnologica si scopre che la costruzione dell'uomo è edificazione spirituale e che la razionalità è una forza distruttiva se non fecondata dallo spirito che cresce nella tensione verso il sacro.

Lo studio della religiosità popolare, che è lo studio di una storia profonda in cui si esprime l'uomo nudo, solo a contatto con Dio, permette di scoprire l'animus religioso che si agita nel vasto e magmoso ambito della memoria popolare, e di individuare in tutti gli starti dell'esistenza quel nucleo di verità che, al di là di ogni esteriore paludamento, esprime la tensione dell'uomo verso Dio. Si ha allora la conferma che la vita umana può essere costruita a tutti i livelli. Si ha una guida ad andare oltre la bruta "corteccia" alla ricerca del "vero" di ognuno, dove preme quella forza che dal passato porta al presente, in una lenta, ma sicura, ascesa del fenomeno umano verso la conquista di tutto ciò che è a lui consono e possibile.

La religiosità popolare permette, se la si guarda da una prospettiva corretta, di analizzare il rapporto uomo-Dio con un cammino kantiano, partendo cioè dall'uomo come membro di una comunità e di scoprire il significato che Cristo ha dato alla concreta vicenda umana, poiché solo in essa l'uomo può, consumando il bagaglio di "natura" risorgere nella nuova realtà spirituale, figlio di Dio.

 

 

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Approfondimento 

Gli studi sulla religiosità popolare

 

L'attenzione al comportamento popolare iniziò in chiave negativa con la Riforma protestante, che attaccò il cristianesimo delle masse, e con quella cattolica che tentò dì introdurre nel mondo popolare una "liturgia ufficiale" impenetrabile e lontana. Del dualismo che venne a crearsi nel comportamento religioso del popolo si interessò il Muratori con un volumetto di devozioni popolari che "può considerarsi un primo approccio italiano all'espressione religiosa del popolo57.

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57. Cfr. V. Bo, op. cit., p. 5 e in particolare le pagine pp. 52-56 che contengono un’esemplificazione del dualismo cresciuto e consolidatosi in seno alla Chiesa.

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Nello stesso tempo si diffondeva, favorita dalla scoperta dei popoli fuori della civiltà europea, un interesse positivo per la religione del popolo, in cui, pur se di queste attiravano le forme folcloriche, si scopriva un valore da portar fuori, ma che inizialmente sfociò in studi condotti in modo acritico.

Solo con l'Illuminismo iniziò l'analisi critica del comportamento religioso che considerò superstizioni molti atti cultuali e che spinse la reazione romantica a ricercare i valori del comportamento popolare.

L'approccio scientifico vero e proprio fu dato dalle scienze positive prima con Comte58, poi con Tylor59 e Spencer60 che considerarono il comportamento religioso un fatto psicologico dovuto a mentalità primitiva.

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58. A. Comte colloca i fenomeni religiosi in uno stadio primitivo dello sviluppo del pensiero, il teologico, superato dal più perfetto stadio positivo (Cours de philosophie positive, Paris, 1839-1842).

59. E. B. Tylor pone l'animismo alla base di tutta la cultura e la civiltà primitiva (Il concetto di cultura, Torino Einaudi, 1970).

60. H. Spenser, allievo di Darwin introduce la religione nel processo evolutivo (Principi di sociologia, Torino, Utet, 1970).

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Un altro passo avanti fu dato dalla scuola sociologica francese di Durkheim, che sottolineò gli aspetti collettivi del comportamento religioso e considerò la religione popolare come un insieme di pratiche che operano in un ambito in cui il comportamento religioso non è organizzato61. L'indirizzo sociologico con M. Weber62 si interessò anche delle espressioni etiche dei popoli, sottolineando come l'ordine sociale ha bisogno di poggiarsi su fondamenti stabiliti che sono dati dal sacro e dalla tradizione, con Le Bras mise in relazione il comportamento religioso con quello folclorico63. Quando nacque la classe operaia ci si interessò del processo di secolarizzazione64.

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61. E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit. Il sociologo francese sul n. 2 della rivista "Année sociologique" aveva affermato:"il y a dans toute societé, des croyance et des pratriques éparses individuelles aù locales, qui ne sont intégrée dans aucun système déterminé" p. 1. Fin dall'ottavo numero la rivista, ad opera del direttore Henri Hubert, prese il titolo di "Legendes croyances et pratiques populaires" dove "peuple" ha significato di gruppo locale, per cui quando le pratiche del popolo coincidono con quelle della Chiesa cade l'aggettivante "popolare". F. A. Isamberta chiama Hubert "théoricien de la religion populaire" sottolineando che la Francia si qualifica come la nazione che per prima s'era impegnata a chiarire il concetto di religione popolare (Le sens du sacré, cit., pp. 46 e sgg).

62. M. Weber, Economia e società, cit.

63. La vasta inchiesta di Gabriel Le Bras, un questionario inviato ai prefetti in cui si chiedeva di elencare una serie di costumi in relazione al comportamento religioso, scoprì nel popolo una vitalità ed un fondo di religiosità che andava molto più in là del cattolicesimo canonico (cfr. G. Le Bras, Studi di sociologia religiosa, cit., pp. 29-175).

64. La concezione evoluzionistica, che considera la religione un fenomeno primitivo dello sviluppo psichico dell'essere umano, rappresenta il processo di secolarizzazione come l'inevitabile declino di ogni atto definito religioso fino alla completa scomparsa in uno stadio di assoluta razionalità. Cfr. S. S. Acquaviva e G. Grumelli, Secolarizzazione, Bologna, Il Mulino, 1973; R. Caporale, e A. Grumelli, Religione e ateismo nelle società secolarizzate. Aspetti e problemi della cultura della non credenza, Bologna, 1973; S. S. Acquaviva, L'eclissi del sacro nella civiltà industriale, Milano, Comunità, 1975.

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L'indagine sociologica apriva alla religiosità popolare l'analisi antropologica che ha permesso di penetrare nel sottofondo dei comportamenti religiosi del popolo e di scoprirne la concezione del mondo, la religiosità di fondo e la vitalità creativa. L'indagine storica ha cercato di risalire alle origini dei riti. In Italia chi per prima ha condotto la ricerca in chiave storica è stato Renato Pettazzoni che si pose il problema dell'evoluzione del pensiero religioso65.

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65. Cfr. R. Pettazzoni, Italia religiosa, Bari, Laterza. La sua rivalutazione del mito come "storia vera perché storia sacra" si poggia sulla concezione che "il pensiero umano è mitico e logico insieme" e quindi prodotto storico; Idem, Miti e leggende, Torino, Utet, 1963, pp. X-XIII.

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In Francia M. Bloch, usando la storia per spiegare il comportamento popolare, dimostra come dalla storia comparata si può giungere alla conoscenza della mentalità degli uomini del passato, "di quella psicologia retrospettiva che è la stessa sostanza della storia"66; insieme a L. Febvre porta la storiografia francese all'avanguardia acquisendo agli studi storici definitivamente il dato popolare e collettivo. La scuola francese insomma sposta il fascio d'indagine all'intero quadro che è dietro il fatto, al contesto sociale che l'ha prodotto e che è il solo capace di dare chiarezza. In questo contesto il comportamento religioso e popolare occupa un posto importante. Tra gli altri studiosi bisogna citare Raul Manselli che mette in evidenza i problemi culturali che interferiscono nei due sistemi - popolare e ufficiale - che non sono insiemi separati, ma due strutture in connessione con distinzioni solo culturali67. Gli studi tedeschi - maggiore rappresentante è Schnürer - danno alla parola “popolare” il significato di uomini presi collettivamente in rapporto alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano.

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66. L. Febvre, Profilo di M. Bloch, in M. Bloch, Apologia della storia o il mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 6. L'opera in cui Bloch delinea il suo metodo di sintesi del folclore con la grande storia, dimostrando come tutta la realtà occidentale è penetrata dall'anima popolare, è I re taumaturgi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino, Einaudi, 1973.

67. Cfr. R. Manselli, La religione popolare, cit. Sullo stesso piano è J. Le Goff (Culture ecclesiatique et culture folklorique au Moyen Age in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, L. De Rosa, Napoli, 1970, v. II), mentre J. G. Schmitt afferma che il criterio di differenziazione è doppio: culturale e sociale (Le sant lévrier, saint Giunefort guerrieur d'enfants depuis le XIII siécle, Paris, Flammerion, 1974).

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Altro campo indagato è quello dei movimenti dissidenti dove la religione popolare non è più un insieme fatto di credenze e di costumi, ma un movimento di opposizione politico-religioso, una rivolta paesana e un'eresia68.

In Italia le tradizioni popolari restavano fuori degli studi. Spetta a Pitré l'aver posto per primo, a cavallo del secolo, con precisione scientifica i complessi problemi delle tradizioni popolari69.

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68. E. Delaruelle indagò le manifestazioni collettive del Medio Evo non vedendovi un'opposizione con "l'eglise sauvant" (op. cit.). Anche Norman Cehn ha studiato questi movimenti rilevando il carattere limitato di queste insurrezioni (The Pursiut of millennium, Londres, 1957). In Italia V. Lanternari ha condotto uno studio comparato sulle forme profetiche messianiche e millenariste che si sviluppano in situazioni di dipendenza.

69. L'opera di Giuseppe Pitré (1841-1916) (Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane) contiene in 25 volumi le tradizioni popolari orali e oggettive del popolo siciliano e può essere equiparata alla raccolta del Grimm.

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Lo studio del comportamento popolare fu affrontato in campo laico da Antonio Gramsci che si rifece ad un'affermazione marxiana secondo la quale "la miseria religiosa è per un lato l'espressione della miseria reale e per l'altro la protesta contro la miseria reale"70. Per il teorico del marxismo italiano il folclore è una non elaborata e sistematica "concezione del mondo e della vita" che appartiene a quegli strati della società non colta, costituita da elementi non solo stratificati in gradi diversi di grossolanità, ma "giustapposti" tali da formare "un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo che si sono succedute, delle quali nel folclore sono rimasti i documenti futili e contaminati". Questo "dominio popolare" trasforma persino la scienza in folclore per cui realmente esso appare "un riflesso della condizione di vita culturale del popolo". Anche la religione subisce la stessa trasformazione, diventa folclore solo che per questa, essendo "elaborata e sistemata" dagli intellettuali e dalla gerarchia ecclesiastica, si pongono problemi diversi, che sono di convenienza a mantenere certe situazioni. Questo immenso deposito determina la morale del popolo caratterizzata da forti imperativi, molti costituiscono strati fossilizzati di condizioni di vita passata, altri sono nati da concezioni più aperte in contraddizione o diversi dalla morale degli strati dirigenti. Il folclore, quindi, è una cosa "molto seria" di cui il popolo dovrebbe prendere coscienza così che possa nascere nelle grandi masse popolari una "cultura popolare" che sarebbe "il folclore filosofico"71.

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70. K. Marx, Dialettica dell'individuo e dello Stato, in Feuerbach, Marx, Engels, Materialismo dialettico e materialismo storico a cura di C. Fabro, Brescia, La Scuola, 1962, p. 251. Per questo argomento v. O. Todisco, Marx e la religione, Roma, Città Nuova, 1975. Anche Engels considera la religione causa di tensioni nelle classi subalterne tese ad un ritorno alla condizione primaria. V. F, Engels, Sulle origini del cristianesimo, Roma, Riuniti, 1975.

71. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1971, pp. 267- 274. V. pure Idem, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino, Einaudi, 1968, pp. 120 e sgg.

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La riflessione gramsciana ha dato luogo ad una serie di studi che hanno inteso riscontrare in una specie di lavoro sul campo le intuizioni del maestro. Caposcuola di questa corrente è Ernesto De Martino, lontano allievo dei Pettazzoni, che analizza le forme più popolari della religione e le considera modi di resistenza culturale e politica alla classe dominante, ma nello stesso tempo forme irrazionali, mettendo in evidenza una sostanziale contraddittorietà, la stessa del concetto gramsciano72.

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72. Cfr. E. De Martino, Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, in "Società", 1949; Idem, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1983 (1959); Idem, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino, Einaudi, 1958; Idem, La terra del rimorso, Milano, 1961. Il nesso tra religione e società, proprio della scuola marxiana, è il punto di arrivo della ricerca demartiniana volta al mondo della tradizione. L'etnologo sardo, partito con l'intento di una "radicare riforma" metodologica d'impronta crociana del "sapere etnologico", accogliendo istanze antropologiche e sociologiche e le tematiche esistenzialistiche, era sfociato infatti nel marxismo, di cui poi avvertirà l'intima contraddizione a spiegare i problemi del comportamento religioso quando scoprirà nei fenomeni che studiava l'elemento psicologico per cui più volte sottolineerà i pericoli connessi allo studio dei fatti folclorici (Storia e folclore, in "Società", 10 (1954).

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Sulla medesima linea sono A. Cirese, L. C. Lombardi Satriani, C. Gallini, A. Rossi e A. Di Nola che hanno determinato una positiva evoluzione degli studi sul comportamento religioso, ma sono rimasti troppo legati alla concezione gramsciana, chiaramente sconfessata dalla evoluzione della società, e quando hanno voluto affrontare la difficile materia del "popolare" da diverse angolazioni, anche facendo ricorso a nuove metodologie, allora hanno dimostrato la carenza di una impostazione troppo ideologicamente rigida. Tra questi contributi quello del Lanternari si qualifica per aver posto la religione popolare nella prospettiva di tutta la storia dell'uomo73.

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73. V. Lanternari ne La grande festa (Milano, 1959) conduce un'analisi comparata dei fenomeni etno-culturali, in Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popolo oppressi (Milano, 1960), studia i significati delle componenti religiose all'interno delle popolazioni. Cfr. anche La religione popolare e il dilemma della scienza demonologica, in AA. VV., Demonologia e folclore. Studi in memoria di G. Cocchiara, Palermo, Flaccovio, 1974.

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Un accenno a parte merita il Di Nola che si è impegnato in una critica costruttiva degli studi sulla religiosità popolare "mortificati in un processo di cristallizzazione esegetica", ha postulato la necessità di "nuovi strumenti interpretativi" per affrontare la difficile materia del popolare, poiché ogni ricerca deve tener presente la sostanza storica in cui opera, le diversificazioni e i mutamenti avvenuti nella realtà soggetta ad esame, nella chiarificazione storica dei semantemi. L'opera del Di Nola ha contribuito a scindere la forzosa riduzione della religiosità popolare a folclore e l'altra di folclore come protesta e ad inquadrare il comportamento popolare nella più varia e viva realtà in cui vive il popolo, per cui lo studio di questo comportamento non può essere scisso dal contributo di altre discipline74.

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74. Cfr. A. M. Di Nola, Varietà degli oggetti della cultura subalterna religiosa del Meridione, in AA. VV., Questione Meridionale e religione e classi subalterne a cura di F. Saija, cit. pp. 35-59; Idem, Antropologia religiosa, Firenze, Vallecchie, 1974; Idem, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna, Torino, Boringhieri, 1976.

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Gli studi sulla religiosità popolare sul versante ecclesiastico sono stati affrontati solo in seguito alla spinta marxisto-gramsciana. "La spinta determinata in questa direzione è provocata dalle scosse, dai problemi, dalle tensioni verificatesi all'interno della Chiesa durante e dopo il Vaticano II che hanno indotto gli storici e i sociologi ad accordare una crescente attenzione alla "storia delle mentalità, vale a dire a sapere non solo quello che c'era dietro le storie dei papi, dei santi, dei dottori della Chiesa, a conoscere quello che pensavano e vivevano i semplici battezzati, i laici, e in particolare quali erano le loro devozioni, la loro spiritualità, la loro cultura religiosa, ma soprattutto ad accertare come ogni gruppo sociale riceve e traduce nella propria vita il messaggio evangelico in ogni regione geografica e in tutte le diversità locali75.

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75. V. Bo, op. cit., pp. 57-58.

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Il Vaticano II ha acquisito al cristianesimo "tutto l'arco dell'umano" con una nuova impostazione del rapporto chiesa-mondo che tenesse presente il fondo religioso dell'uomo al di fuori di ogni veste esteriore. La realtà religiosa è vista come una realtà dinamica, che postula un continuo evolversi verso forme più alte di religiosità, in questo spazio entra la religiosità popolare, la cui spontaneità creatrice arricchisce il senso religioso76.

Per il mondo cattolico la religione popolare è "l'espressione religiosa propria della massa della popolazione in quanto distinta dalla minoranza coltivata culturalmente e religiosamente [...] che nasce e permane in modo meno marginale a quanto è istituzionalizzato e ufficiale"77.

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76. Cfr. L. Sartori, Religiosità popolare e teologia. Indicazioni per una fondazione teologica, in AA. VV., Ricerche sulla religiosità popolare, Bologna Dheoniane, 1979, pp. 21-54. L'autore afferma che il popolo è il vero soggetto ecclesiale: "Ogni gruppo umano, anche piccolo, spesso riflette tutto l'umano [...]. Allora con questa nozione di cattolicità intesa più che estesa [...] il soggetto ecclesiale chiamato in causa diventa ogni comunità" (p. 43).

77. R. Fabris, La religiosità popolare nel nuovo testamento: S. Paolo e Atti, in AA. VV., op. cit., p. 71 e sgg.

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La scuola cattolica tende a trasformare la religiosità popolare in fatto antropologico e quindi umano, in cui il concetto di popolo necessariamente si allarga, e religiosità è modalità dell'uomo che chiede senso ad ogni cosa. Religiosità popolare è espressione della coscienza religiosa, linguaggio religioso e popolare, inteso nell'accezione di "antropologico per eccellenza [...] come l'analogatum princeps", "ciò che ha radici profonde negli usi e nei costumi di una comunità, ciò che è nato e si conserva proprio perché aderente a fattori ambientali; è popolare ciò che fa riferimento a tradizioni consolidate da tutta una storia passata, la quale viene ripresa nel presente perché in sintonia con l'anima, con i modi di sentire e di vedere di un gruppo solidale di persone". Questo popolare, che è l'antropologico in un'analisi dell'atteggiamento religioso, "costituisce anche il 'primo religioso'. Di conseguenza la religiosità popolare dà lo schema storico di verità del primo istituirsi del religioso in rapporto all'uomo. In questa prospettiva la religiosità verrebbe a riconnettersi con un originario che è precedente a tutte le religioni storiche [ ...]. E così si potrebbe scoprire attraverso la religiosità popolare come una religione nasce da un substrato più ampio fondatamente popolare".

Religiosità legata a questo concetto di popolare significherebbe manifestazione di atti che si riferiscono al divino dove questo divino può essere più o meno presente, ma non assente e dove a questo divino sono attribuiti aggettivazioni come straordinario, meraviglioso, insolito, incontrollabile, divino che si manifesta secondo le valenze dell'umano, e si esprime in vario modo; dove "il rito va assunto come linguaggio della cultura, linguaggio privilegiato, con cui la cultura rappresenta, esprime, comunica i suoi propri valori in un circolo antropogenetico, nella intercausalità, cioè tra uomo e linguaggio". Quando questa espressione della religiosità popolare contiene molto antropologico e niente sacro allora si è nella magia78.

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78. A. Natale Terrin, La religiosità popolare in prospettiva fenomenologica, in AA. VV., Ricerche cit., pp. 131-133 e sgg.

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Il maggiore rappresentante di questa scuola è Gabriele De Rosa il continuatore di Giuseppe De Luca, il sacerdote che prima di lui aveva indagato il campo della pietà religiosa. "De Luca", dirà di lui De Rosa, "non cerca solo i grandi spiriti; le grandi testimonianze i vertici [...]. Egli cerca nel cuore dei fedeli dei semplici, di "coloro che non contano" i segni della pietà [...] cerca al di dentro dei filoni più autentici e vivi di quella che noi chiamiamo oggi la religiosità popolare"79. Entrambi considerano la vita dell'uomo essenzialmente segnalata dal religioso con cui interagiscono non solo le strutture sociali ed economiche, ma anche l'autorità ecclesiastica. C'è insomma un continuum tra vita di pietà e vita sociale, così la preghiera diventa una voce non solo di un individuo, ma di una società e quindi di tutta un'epoca storica. Essa parla di istanze sociali ed economiche, personali e collettive deve essere interrogata da più voci perché la sua risposta non sia unilaterale e monca o addirittura scartata dalla indagine timorosa e allora tutta la realtà tacerà80.

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79.  G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli, Guida, p. 452.

80. Ibidem.

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Con il De Rosa gli studi sulla religiosità popolare portano all'indagine sulla religione vissuta da un vasto territorio, il Mezzogiorno d'Italia, che la scuola demartiniana aveva indagato con mastodontiche forzature, e diventano problemi della storia religiosa e tout court della storia sociale di un ambiente storico, in cui possono solo malamente acconciarsi "modelli" desunti da "altre" storie e da "altre" realtà economico-sociali.

"Ci aveva aiutato a capire" dirà del De Martino il De Rosa " lo spessore culturale della mentalità sincretica, magico-religiosa, diffusa nel Mezzogiorno, tuttavia dubitavamo che la griglia demartiniana fosse sufficiente a interpretare storicamente la religiosità vissuta mancando di ogni riferimento valido agli aspetti anche istituzionali"81. Se il campo d'indagine è lo stesso del De Martino i maggiori risultati sono del De Rosa che negli archivi parrocchiali del Mezzogiorno scopre un ricco repertorio non destinato alla storia; una "chiesa operante" in cui "clero, baroni, fattucchiere, contadini, pastori e mercanti, santi vivono gli uni accanto agli altri, tutti coinvolti in un vivo e molteplice scambio. Si toccano aspetti e momenti di una storia sociale ricca e articolata" dominata dal "tempo religioso" e dallo spazio religioso in un tempo e in un luogo ove tutto era dentro la Chiesa"82.

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81. Ibidem, p. 466.

82. Ibidem, pp. VI-XVI.

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