I FASANO DI SOLOFRA
1. L’impianto a
Solofra. Il ceppo dei Fasano di Solofra1 fu una di quelle
famiglie coinvolte nel vasto movimento migratorio proveniente dal Cilento,
iniziato con i saccheggi avvenuti in molte borgate della baronia di Fasanella
al tempo di Manfredi e continuato durante la guerra del Vespro, quando
perseguitati e ribelli si sparpagliarono in tutta l’area collinare alle
spalle di Salerno raggiungendo la stessa città2. A Salerno i Fasano
si introdussero nelle attività mercantili della città che avevano avuto una
forte spinta dall’istituzione della fiera3, altri si insediarono
in possedimenti tra Giffoni e Contursi4 e tra Montoro e Solofra,
dove si unirono alla colonia cilentana esistente fin dal periodo
longobardo-normanno con attività legate a Salerno5. In questa zona si
individuano alla fine del XIII secolo i primi possessores con
incartamento su due territori, e cioè Giovanni e Guglielmo de Fasana6,
quest’ultimo fondachiere del sale di Principato Ultra7, che
potrebbero aver ottenuto il suffeudo dal Principe di Salerno per assicurarsi
la loro fedeltà, ma anche dallo stesso Carlo I quando li integrò nei loro
possedimenti nella prospettiva di avvalersi del loro sostegno8. Sul ceppo
solofrano si incentrò l’evoluzione della società solofrana, che si giovò in
modo sostanzioso della vicenda della famiglia, i cui membri trovarono la
propria forza non solo nel possesso fondiario quanto nell’industria
armentizia e nella mercatura con un raggio di azione che giungeva alla Puglia9.
I Fasano di
Solofra, che godettero fin dall’inizio del titolo di "nobile" e la
facoltà di "possedere feudi con la recognezione al solo re"10,
furono in stretti rapporti con i re angioini dei quali sostennero la politica
di sviluppo dei territori interni e di trasformazione di Napoli in un grande
centro mercantile e culturale. Ebbero importanti privilegi di natura
economica, che li trasformarono in elementi di collegamento tra la nuova
capitale e le terre dell’interno e che valorizzarono le attività mercantili
solofrane. Queste, che avevano gravitato fin dal periodo longobardo su
Salerno, per merito di questi attivi mercanti cominciarono ad aprirsi al
ricco ed emergente nuovo centro mercantile, dove si era prodotto, proveniente
da Firenze, un aumento della domanda del prodotto di tutto l’hinterland
economico salernitano, la lana, in un momento particolarmente delicato quando
- si è nel 1343 - un terribile terremoto sconvolse il golfo di Salerno e
distrusse il porto di Amalfi riducendone drasticamente la capienza mercantile.
Da questo momento anche la produzione solofrana seguì il percorso del suo enclave
economico verso il mercato di Napoli, su cui Solofra cominciò gravitare col
trasferimento di famiglie e di attività a Napoli tanto da divenirne una
specie di succursale11. Solofra ebbe
inoltre esenzioni su molte altre piazze mercantili, che contribuirono a dare
una spinta alla specializzazione produttiva - lana e pelli - che si stava
realizzando in loco. ---------- |
1.
Cfr. O. Beltrano, Breve descrittione del Regno Napoli, Napoli, 1644,
p. 202. Il Beltrano parla di "molte scritture" che fanno discendere
il ceppo solofrano dai conti di S. Angelo a Fasanella. 2.
Cfr. B. Capasso, Liber inquisitionum Caroli I pro feudatariis Regni,
in Historia diplomatica Regni Siciliae ab anno 1250 ad annum 1266,
Napoli, 1874, pp. 344 e sgg. Il re angioino, per una congiura che aveva
coinvolto Capaccio e Fasanella, tolse la baronia a Pandolfo di Fasanella. 3.
Cfr. Codice Diplomatico Salernitano a cura di A. Carucci, Subiaco,
1934-1954, I, p. 105; da ora CDS. A Salerno si trova Bartolomeo Fasano, che
nella seconda metà del XIII secolo possedeva i diritti della Chiesa di S.
Lorenzo a strada, la chiesa che controllava la fiera, e che nel 1269, nel
periodo della congiura contro Carlo I, è detto "proditore" (CDS,
III, 338); e c'è Rinaldo Fasano citato tra i ribelli di Salerno (cfr. Registri
Angioini, a cura di J. Mazzoleni, Napoli, 1967, VI, p. 164). 4.
Cfr. CDS, III, 413 e Registri Angioini, a cura di J.
Mazzoleni..., cit., II, pp. 86 e 268. 5.
Cfr. M. De Maio, Alle radici di Solofra. Dal tratturo transumantico
all'autonomia territoriale, Avellino, 1977, pp. 88-89 e 126. Per questa
famiglia v. pure Id., Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese,
Solofra, 2000, pp. 48, 54-57, 65, 161, 165, 184, 186-187. 6.
Registri Angioini, 1300-1301, n. 7.
Cfr. Registri angioini, a cura di J. Mazzoleni, cit., XXV, p. 54. 8.
Il re angioino oltre a restituire a Pandolfo di Fasanella i beni tolti da
Manfredi gli concesse anche delle terre tra Giffoni e Contursi (cfr. CDS, I,
224 e II infra). 9.
Cfr. M. Popovic-Radenkovoc, Le relazioni commerciali fra Dubrovnik
(Ragusa) e la Puglia nel periodo angioino, in "Archivio Storico
delle Province Napoletane" (da ora ASPN), 1958, p. 156. 10.
O. Beltrano, op. cit., p. 202. Altre prerogative furono "d’esser
servuti nelle compre di cose commestibili immediatamente dopo il barone,
d’andare armati senza licenza". B. Candida Gonzaga (Memoria delle
Famiglie nobili delle Provincie meridionali d’Italia, Napoli, 1875, v.
V-VI, p. 85) dice: "Ha goduto nobiltà in Sicilia, in Solofra, in
Somma vesuviana", ne descrive lo stemma: "un albero in fiore e due
ragazzi affrontati che colgono dall’albero" "di azzurro al fagiano
fermo del suo colore" e infine: "godeva il privilegio di portare la
mazza del Pallio nella festa del Corpus Domini". Il Gonzaga cita altri
autori che parlano di questa famiglia (Majone, Capitelli, Capecelatro,
Cappelletti, Mauro, Pacichelli, Sassone, De Stefano). V. pure Crollalanza, Dizionario
storico blasonico delle Famiglie nobili e notabili, I, Bologna, 1886, s.
v. 11.
Per questo argomento e per il concetto di Solofra come succursale di Napoli
v. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, cit., pp.
56-58 e 181 e sgg. |
2. I medici del
Trecento. I membri di questa famiglia, che dettero meriti al ceppo e fama
al luogo di origine lungo tutto il XIV secolo, furono i medici Riccardo,
Andrea e Niccolò - rispettivamente figlio e nipote del primo - che fecero
parte della corte angioina ricoprendo importanti ruoli nella vita napoletana
e sostenendo quei re anche economicamente. Riccardo Fasano,
figlio di Pietro e nipote di Oliviero "huomo non meno eccellente in
lettere, che prode, e famoso per l’armi"1, studiò a Salerno
dove fu medico di Carlo II fin da quando il re angioino era principe della
città e che seguì a Napoli. Fu collaboratore e medico anche di re Roberto,
membro del suo Consiglio in Calabria e suo sostenitore nella spedizione in
Provenza dove lo accompagnò2. Importante fu il
contributo di Riccardo nello sviluppo dello Studio napoletano e nel
trasferimento nella nuova capitale, da Salerno, degli studi di medicina,
opera che lo pose al centro di inevitabili contrasti negli ambienti
salernitani ma che egli sostenne con forza, avvalendosi del completo favore
di entrambi i re angioini. Fu reggente del nuovo centro di studi nel 1313 e
insegnante così noto da essere chiamato "medicinalis scientia
professor" anche dopo aver lasciato questo status, per quello di
Protomedico del Regno, sotto Roberto. Questa carica, che egli svolse senza
tralasciare di seguire le vicende del regno, gli permise di completare la
riforma napoletana della professione medica e di regolarne l’esercizio. I
registri angioini danno la possibilità di seguire l’attività del "medico
Riccardo", come era semplicemente chiamato, data la sua fama, parlando
delle solenni proclamazioni di dottorato fatte da lui in qualità di
Protomedico del Regno, tra cui quella del celebre medico Niccolò da Reggio,
definito "sufficiens abtrusque ad catedram et ad apicem doctoratus"3.
A Riccardo, che
morì nel 1333 e che a Napoli possedeva una terra "in casali
Carpignani", i re angioini concessero benemerenze e privilegi nel
commercio della lana e del grano in Puglia, che egli continuò a seguire
riuscendo a coniugare mercanzia e cultura4. Con lui può dirsi
iniziata una modalità seguita da tutte le famiglie solofrane impiantate a
Napoli, il cui trasferimento nella capitale portò sempre questa cifra. Il figlio Andrea e
il nipote Niccolò furono anch’essi esperti nell’arte medica, tenuti in alta
considerazione alla corte angioina e Protomedici del regno. Entrambi
prestarono la loro opera a re Ladislao seguendolo nei suoi spostamenti ed
entrambi ebbero la conferma dei privilegi personali, tra cui l’esenzione sui beni
posseduti in "Sicilia, Solofra e Montella", mentre Nicolò in due
momenti diversi - nel 1409 e nel 1413 - ebbe confermato l’incartamento sui
beni solofrani5. Anche le attività
solofrane continuarono ad avere importanti immunità - sono documentate nel 1392
- che si rivelarono particolarmente preziose per il commercio che potette
liberamente usare il passaggio su alcuni passi senza gravami tributari6.
E se si pensa che nel periodo in cui fu presente Niccolò Fasano a corte,
chiamato dal re "Fidelis nobilis, et circumspectus", Ladislao pose
nel demanio reale le terre del feudo dei Filangieri rimasti senza erede,
quindi anche Solofra che godette delle prerogative economiche legate a questo
status, si trovano ampie motivazioni che spiegano perché l’Universitas
esonerò la famiglia dalle tasse con pubblico atto di "notar
Antonio" facendola immune "da qualsivoglia pagamento con pena di __________ |
1.
Cfr. O. Beltrano, op. cit., pp. 202-203. Parlano di lui M. Camera, Annali
delle Due Sicilie, Napoli, 1841-1860, II, p. 70; R. Caggese, Roberto
d’Angiò e i suoi tempi, Firenze, 1922, II, p. 414 e n. 3; R. Trifone, L’Università
degli studi di Napoli dalla fondazione ai giorni nostri, Napoli, 1936, p.
19. 3.
Registri angioini, n. 223, 3, 10 marzo 1319 e n. 217, c 109, 8 giugno
1319. Il fatto che fosse chiamato semplicemente "il medico
Riccardo" ha reso facile la confusione del Riccardo medico
"salernitano" o "napoletano" con il Fasano solofrano. 4.
Cfr. M. Popovic-Radenkovoc, op. cit., p. 156 n. 1. 5.
Cfr. O. Beltrano, op. cit. Il Beltrano parla del "feudo di S.
Agata" nel 1403 e di quello "di arco" nel 1416, che in effetti
sono il medesimo possedimento, denominato più precisamente "arco"
in quanto "S. Agata" era un toponimo che si estendeva a tutta la
zona pianeggiante di Solofra al confine con Montoro, comprendendo il galdo
e l’arco, per cui le date devono considerarsi riferite solo alle
riconferme dei privilegi. 6.
B. Candida Gonzaga, op. cit., p. 85. 7.
S. De Renzi, Elogio storico di Lionardo Santoro, Napoli, 1853, p. 5 n.
1. 8.
Cfr. C. Castellani, Statuta Universitatis Terre Solofre, Galatina,
1989, p. 55. L’articolo, che regolava il jus gradante, sul fondo dei
Fasano al galdo ("deli galdi") conservava una parte della
tassa perché potesse essere goduta dalla famiglia, la quale inoltre nell’uso
di quel fondo non pagava alcun censo. |
3. I Fasano nel
XV e nel XVI secolo. Nel secolo XV, mentre continua la tradizione medica
della famiglia con i diretti discendenti di Niccolò - il figlio Biagio e il
nipote Valerio1 - si evolve il rapporto mercantile con Napoli
iniziato con i Fasano, nel senso che divenne più ampio il trasferimento di
membri delle famiglie locali a Napoli - dai Maffei, ai Murena, ai Guarino, ai
Giliberti, ai de Parisio - per sostenere con le agevolazioni legate alla
residenza nella capitale, le attività economiche locali. Sintomatico fu il caso
del battiloro, detto allora oropelle, su cui la città di Napoli godeva il jus
prohibendi e che, per poter essere esercitato a Solofra, dove c’era la
materia prima - la pelle - e dove si diffonderà in modo esponenziale
raggiungendo una perfezione superiore alla stessa capitale, era necessario
che ci fosse un legame con la famiglia "napoletana"2. I
Fasano continuarono ad avere la residenza a Napoli facendo parte del Seggio
di Porto3 e come molti altri si nominavano con l’appellativo
"napoletano" solo raramente aggiungendo la precisazione "di
Solofra", cosa che contribuì a far dimenticare l’originaria provenienza
della famiglia4. Ancora in questo
secolo si ha la possibilità di precisare il ruolo della famiglia nella
economia locale attraverso la figura del "viri nobilis Pietro
Angelo", "Capitaneo" di Solofra5, una carica
importante poiché il Capitano, come capo della curia e rappresentante del
feudatario, controllava i rapporti soprattutto economici della comunità sia
col feudatario che con la corona. Poiché tale carica doveva essere ricoperta
da persone abitanti lontane dal luogo almeno quindici miglia, si può arguire
che tale Pietro Angelo possa essere originario di luoghi limitrofi, poi
stabilitosi a Solofra, visto che tale onomastica legata alla famiglia Fasano
continuò in loco; comunque ciò dimostra, data l’importanza della carica, che
i legami con altre diramazioni del ceppo continuarono e furono di natura
economica. Poiché però tale carica è documentata nel 1458, quando il feudo
era da poco passato ad un ramo collaterale della famiglia Zurlo di Montoro,
la quale per altro non risiedeva ancora sul posto e visto che il
rappresentante era scelto dalla famiglia feudale e solo in occasioni
eccezionali poteva essere elusa la clausola della residenza, si può ancora
arguire, qualora Pietro Angelo fosse stato di Solofra, che la famiglia Fasano
ne avesse beneficiato data proprio la sua preminenza nella società locale. La valenza della
famiglia solofrana in questo secolo è dimostrata anche dal fatto che era ben
introdotta nel clero locale, il quale per le attività mercantili poggiate sul
prestito svolgeva nella comunità un importante ruolo economico. I Fasano
furono tra le famiglie compatrone della chiesa "ricettizia"
dell’Angelo, anch’essa essenziale sostegno dell’economia locale e per di più
ebbero ben due membri a dirigerla, gli archipresbiteri "venerabili"
Pietro Angelo, che non è il precedente, e Andrea; in essa inoltre gestivano
la cappella con jus patronale dei santi Filippo e Giacomo6.
Infine furono fin da questo periodo erari dei feudatari, gli Zurlo, ed ebbero
in particolare la committenza dei beni ecclesiastici solofrani dell’abate
Giovanni Zurlo, fratello di Ettore ed Ercole, "con la facoltà di
disporre a loro arbitrio, di alienare, difendere, fare utile reddito,
di rispondere a contraddetti e ribelli"7. La conoscenza di
questa famiglia si fa più precisa nel XVI secolo quando i Fasano appaiono una
famiglia non molto ampia appartenente alla borghesia artigiano-mercantile,
tra le più rappresentative dell’economia locale con beni in varie zone ed
abitazione nel centro commerciale della "platea". Si individuano
bene gli interessi economici che vanno da un’attività legata all’allevamento,
che la poneva in contatto con le zone del sanseverinese e con quelle interne
del Principato Ultra e della Puglia, al possesso di una conceria, di una
"calcara" per la produzione della calce, importante prodotto
conciante, di una macina per la mortella e per il sommacco, alle attività
commerciali con un ampio spettro di prodotti che comprendevano tutta la gamma
della produzione locale, con particolare riguardo alla lana, che, proveniente
dalla Puglia, aveva come base Giffoni, e alla carne salata8. La famiglia
continuò ad avere ruoli di primo piano nella vita locale sia nelle attività
curiali, con due notai, che ecclesiali, con chierici impegnati nel governo
della cappella di famiglia ed in altre chiese, sia nel governo della
Universitas, svolgendo una funzione finanziaria di grande interesse nella
particolare realtà economica locale9. In questo ambito è
da segnalare l’importante missione portata a termine da Giovanni Tommaso
Fasano, figlio di Valerio, "persona non solo di lettere, ma di gran
valore, che per mantenere La tradizione
medica venne portata avanti da un altro Valerio, dottore fisico, che fece
parte della Commissione per la stesura degli Statuti insieme a Lanzaleo, e
poi da Giovanni Battista e da Paolo. Questa attività si poggiava sempre su
una "spezeria", tenuta da famiglie con un membro esperto nell’arte
medica, un "fisico" come si diceva, e che, oltre ad esse il centro
dell’arte di Esculapio, era anche al servizio della concia delle pelli per i
prodotti concianti, cioè per tutte quelle materie vegetali contenenti
tannino, quali il sommacco, il mirto, il visco, l’amindolis, che fermavano il
processo di decomposizione del tessuto animale trasformandolo in
"corio" e che venivano fornite dalle spezerie sminuzzate alle
concerie locali. A metà
Cinquecento, quando la famiglia Fasano era all’apice nella società locale, un
figlio di Alberico, Agiasio, sposò - si è nel 1544 - Adriana la figlia del
nobile amalfitano Giovanni Brangia11 e più tardi il fratello
Galieno impalmò un’amalfitana12, cosa che permise l’instaurarsi di
un legame tra la famiglia solofrana e l’ambiente dell’aristocrazia della
costiera sorrentino-amalfitana. L’insediamento del ceppo sulla costiera fu
consolidato, qualche decennio dopo, quando gli Orsini, che avevano preso il
possesso del feudo e avevano iniziato la costruzione del palazzo locale - si
è nella seconda metà del XVI secolo -, divennero debitori dei Fasano che
ricevettero in cambio il dominio dell’Abbazia di S. Maria di Vietri.
Hortensio, i fratelli Valerio, Vincenzo, Camillo e Antonio e i figli
Gabriele, Tommaso e Basilio si impegnarono con Flaminio Orsini nell’uso
dell’Abbazia con il diritto, per gli eredi, dell’usufrutto e l’obbligo della
cura dei beni, con "il conto privilegi" e dei bisogni religiosi
della chiesa. Questi furono affidati, all’inizio, ad un Valerio e ad un
Gabriele13, predecessori del più cospicuo rappresentante della
famiglia dopo Riccardo - appunto Gabriele Fasano - autore, nel secolo
successivo, de Lo Tasso napoletano14 e che morì proprio a
Vietri15. Sicuramente
l’impianto della famiglia solofrana nella valle metelliana fu determinato da
più ampi motivi di natura economica che il possesso della chiesa permetteva e
sosteneva. Bisogna infatti considerare i più forti e antichi legami di natura
essenzialmente economica di tutta l’area solofrano-motorese con Cava, che
risalgono al primo periodo normanno quando l’Abbazia si introdusse nella
pianura a nord-nord est di Salerno assorbendo i beni delle due chiese
palatine dei principi longobardi, S. Massimo e S. Maria de Dommo, e quando
Sarracena, balia e reggente di Roberto II di Caserta-Tricarico nel feudo di
Serino, sottomise al dominio del grande centro economico-religioso terre e
uomini del vico di Solofra. A queste donazioni risale il possesso da parte
dell’Abbazia di diversi appezzamenti nei territori di Solofra, documentato
ancora nel 145416. Cava costituì un
punto importante di riferimento per le attività artigiano-mercantili
solofrane non solo per i porti di Vietri e di Cetara, che furono importanti
punti di smercio dei prodotti solofrani, ma perché raccoglieva la produzione
agricola e artigiana di queste terre. Inoltre attraverso la valle metelliana
passava la strada che da Salerno portava Napoli e che interessava il
commercio solofrano. Ancora da Vietri e da Cava veniva la maggior parte del
sommacco, proveniente dalla Sicilia, e della mortella, raccolta sui monti
della costiera, altra voce sostanziosa del commercio solofrano17.
Cava infine forniva a Solofra i suoi artigiani e i suoi artisti18
mentre molti altri motivi di contatto si possono individuare tra i due centri
che riguardano proprio la famiglia Fasano, come quando nel 1565 fu sindaco di
Solofra Tommaso Fasano, mentre ne era Capitano il cavese Geromino Angrisano19.
Alla fine del XVI
secolo la famiglia solofrana, che aveva legami anche con l’aristocrazia
napoletana tra cui i conti di Laurenzano che saranno protettori di Gabriele20,
era ben impianta a Napoli mentre da Solofra e da Cava-Vietri, centri
dell’immediato hinterland napoletano, il ceppo traeva la fonte della propria
sussistenza. _________ |
|
1.
Il notaio Vit’Antonio Grassi nella sua Genealogia e Ragguagli istorici di
Solofra e sua Universita, inedito del 2.
Vale la pena ricordare che il possesso di beni nella città o nelle pertinenze
di Napoli e i matrimoni contratti con cittadine napoletane davano la
possibilità di usufruire di non pochi benefici soprattutto di carattere
mercantile. Per questo argomento v. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,
cit., pp. 186 e sgg. et infra. 3.
La partecipazione dei Fasano al Seggio di Porto è citata dal Candida Gonzaga
(op. cit., p. 393), mentre C. Celano (Notizie del Bello dell’Antico
e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1692), amico di Gabriele
Fasano, parla della residenza della famiglia al vico Severini o dei Garofali
(poi vico Summonte). Si conosce anche un’abitazione dei Fasano al vico S.
Onofrio. 4.
Nei documenti notarili dei secoli XVI e XVII si trova spesso la dicitura,
riferita anche ad altri solofrani, di "napoletano di Solofra". La
stessa cosa avviene nel Catasto onciario del 1754, dove sono censite anche
famiglie solofrane residenti a Napoli, i cui membri si definiscono
"privilegiato napolitano" o "causidico napolitano" e via
dicendo (Archivio di Stato di Napoli, Catasto 1754, vol. 4743-4746). 5.
Cfr, Archivio della Badia di Cava, Inventarium reditum et censum
prioratuys Sancti Bernardini de Montorio sistentem in terra Solofre, XII,
6.
Cfr. Archivio Diocesano di Salerno, Benefici e cappelle. Solofra, Y,
89, 1, II; da ora ADS. Tra i gestori dei beni ecclesiastici ci sono Agiasio e
Ladislao. 7.
ADS, Benefici..., cit., IV, in M. De Maio, Solofra nel
Mezzogiorno..., cit., pp. 216 e 237 e sgg. 8.
Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., Appendice
documentaria, III A e B. 9.
Cfr. Archivio di Stato di Avellino (da ora ASA), Notai, B6522 e sgg. 10.
V. Grassi, Genealogia..., cit. 11.
Cfr. ASA, B6532, f. 60. Era il 20 dicembre del 1544. 12.
Cfr. ASA, B6540, f. 216. Da questo matrimonio nasceranno Tommaso, Ortensio e
Agiasio. 13.
ASA, Notai, B6540, f. 221e B7093 ff. 13, 18 e 32. Gli agenti degli
atti di stipula e di conferma del contratto sono i procuratori di Flaminio
Orsini, Paolo Liongello di Spoleto e Carlo Antonio Miraballo di Napoli. 14.
L’opera, pubblicata a Napoli nel 1689, è stata studiata in M. De Maio, Gabriele
Fasano e Lo Tasso napoletano, in "Riscontri", anno XXI, n.
3-4(1999), pp. 31-51, da cui si attingono alcuni elementi nella seconda parte
di questo articolo. 15.
Archivio Parrocchiale di S. Pietro in Dragonea, Libro dei morti, a.
1689. 16.
Cfr. Archivio di Cava, arm. II, O,.14, 15. X, 9 e Id Inventarium
reditum...., cit. V. pure M. De Maio, Alle radici di Solofra....,
cit., pp. 62 e sgg., 119-124. 17.
Gli atti notarili dimostrano il legame Solofra-Cava per il commercio del
sommacco anche con mercanti cavesi come Camillo Ambrosio (ASA, B 18.
Cavesi furono i costruttori della Collegiata, del Palazzo degli Orsini, del
Convento di S. Domenico, i fratelli Jovine (cfr. ASA, B6655, f. 109r, B6656 e
sgg.), e cavesi furono i carpentieri e i lavoratori del legno responsabili
dei lavori di molte strutture dell’interno del maggiore tempio solofrano. 19.
ASA, B6547, f. 80. Cavesi furono tanti altri individui con attività a
Solofra: Ottavio e Marco Rentino (B7093 , ff 34-35), Iacopo Cafaro (B7093, f.
82), Federico de Curtis (B6539, f. 148), Francesco Orsilio (B 20.
Nell’opera di Gabriele Fasano è chiaro il legame della famiglia con
l’aristocrazia napoletana. V. ultra. |
4. Gabriele
Fasano autore de Lo Tasso Napoletano. Al triangolo Solofra-Napoli-Cava e
alla costiera è legato Gabriele Fasano, che nacque a Solofra il 7 luglio del
1645 da Alessandro e Livia Murena1, ma risiedette essenzialmente a
Napoli definendosi "napolitano", aggettivazione da lui stesso
apposta sul frontespizio della sua opera che fa pensare ad una volontà di
volersi distinguere dalla famiglia originaria2. Questo fatto, che
entra nella mentalità del secolo, non favorì un serio approfondimento sulla
sua origine e determinò le carenze della sua biografia riscontrate in tutti
gli studiosi della sua opera3. Si è giunti persino ad attribuirgli
come luogo di nascita Vietri, che invece fu solo quello della sua morte.
L’errore è in uno studio di Salvatore Milano, che ha dimostrato il legame tra
i Fasano cavesi e i Fasano napoletani, e che invece ignora quello che sia gli
uni sia gli altri avevano coll’originario ceppo solofrano4. Le carenze
biografiche hanno inciso sulla stessa lettura dell’opera del Fasano, le cui
caratteristiche, quelle proprie di una traduzione in dialetto napoletano,
sarebbero state meglio esaltate se si fosse potuto cogliere quel denso
sottofondo popolano che permette di gustare più a fondo tutta la genuina e
vivace napoletanità propria delle zone meno cittadine, di una provincia però
molto napoletanizzata, come quella cui apparteneva Solofra5. La famiglia Fasano
all’epoca di Gabriele era al centro di una fiorente attività mercantile
sostenuta da una bottega per la concia delle pelli, a cui erano legate le
macine per la preparazione della mortella e del sommacco e da forni per la
produzione della calce, da una bottega di battiloro, attività che il padre
Alessandro svolgeva insieme ai figli Giovanni Battista, Bartolomeo, Filippo e
ai nipoti Giuseppe ed Emilio6. La tradizione
medica continuava nella "spezeria" di famiglia, guidata da Giovanni
Camillo, "speziale singolare nella medicina"7 e fratello
di Gabriele, la cui amicizia con Francesco Redi, medico e grande conoscitore
e studioso delle virtù delle piante, esprime proprio questa comune unione di
interessi e di conoscenze. Anche nell’opera fasaniana ci sono ampi richiami
all’arte medica, frequenti citazioni di medici del tempo e passi in cui è
presente persino la "spezeria" di famiglia8. Gabriele, dopo i
primi studi seguiti nelle scuole private locali che avevano una tradizione
antica perché legata ai bisogni della mercatura, aveva abbracciato lo stato
clericale9 e si era trasferito a Napoli nella residenza di
famiglia, mentre l’incombenza della cura dell’Abbazia di S. Maria di Vietri
lo fece risiedere anche nella cittadina metelliana. Negli ambienti
della costiera Gabriele Fasano, che fu un uomo colto ed erudito, conobbe lo
speciale rapporto che questi avevano avuto con Torquato Tasso per gli anni
vissuti dal poeta a Sorrento e per i legami con l’aristocrazia locale10.
C’era un orgoglio ed un trasporto diffuso che avevano creato un’accesa
atmosfera in cui la vicenda letteraria del poeta riceveva un riflesso tutto
particolare con strascichi che erano ancora vivi ai tempi del giovane
Gabriele e che emergono nelle pagine introduttive dell’opera fasaniana11.
Intorno al Tasso
si cementò anche l’amicizia con Francesco D’Andrea, giureconsulto nativo
della costiera, animatore di Accademie ed eminente uomo di cultura, col quale
il Fasano partecipò alla vita culturale napoletana12. E fu il
D’Andrea a fargli conoscere Lorenzo Magalotti e Francesco Redi13,
con i quali si creò un fecondo sodalizio testimoniato da un importante
carteggio, che fa parte dei "vivaci scambi culturali e letterari fra
Firenze e Napoli nel secondo seicento"14 e che chiarisce il
contributo che i letterati fiorentini, esperti e interessati a problemi
linguistici, dettero al poeta solofrano-napoletano nel momento più ricco
della sua attività culturale. Essi sostennero e seguirono la traduzione della
Gerusalemme liberata in dialetto napoletano, che fu una vera e propria
operazione linguistica espressione della querelle tra la lingua
toscana e il vernacolo napoletano. I rapporti del
Fasano con i due rappresentanti della corte medicea ebbero aspetti più
amicali se si pensa che il Redi citò scherzosamente il Fasano nel Bacco in
Toscana accanto al D’Andrea quando disse che "Egli a Napoli sen bea
/ del superbo Fasano in compagnia", riferendo, nelle annotazioni, un
episodio che esprime la familiarità di questa amicizia e cioè che l’amico,
mostrandosi in collera perché nel Ditirambo non erano stati lodati i
vini di Napoli, disse: "Voglio fa venì Bacco a Posileco, e le voglio
fa vedè, che differenza ’nc’ è tra li vini nuosti, e li Pisciazzelle de
Toscana"15. Il Fasano infatti aveva intenzione di aprire
col Redi un confronto letterario scrivendo un Bacco a Posileco ad
imitazione dell’opera rediana parlando dei vini antichi e moderni del
Meridione, opera che però non vide la luce forse per la precoce morte dell’autore.
Così pure si deve pensare per una traduzione del Bacco rediano in
lingua napoletana che avrebbe dovuto fare il Fasano, come proposto dal
D’Andrea16. I rapporti
continuarono poiché nel gennaio del 1686 il Fasano mandò ai due amici la
traduzione del XVI canto della Gerusalemme, chiedendone un giudizio,
cosa che il Redi fece con espressioni entusiasticamente positive17,
mentre il Magalotti gli inviò "un vero e proprio commento con consigli e
giudizi lusinghieri"18. Ancora il Fasano mandò all’amico
aretino in omaggio un suo sonetto di argomento enologico ancora scherzando
sulla diatriba sui vini e poi ricambiò la cortesia citando il Redi nel canto
XIV della sua opera19. L’amicizia tra i due rimase se il Redi
nella edizione definitiva della sua opera aggiunse altri versi che parlano
dell’amico20. Ci furono altre
persone, che seguirono l’opera del Fasano prima della stampa quando brani de Lo
Tasso erano letti nelle case dell’aristocrazia napoletana21
dove si dibattette anche lo spinoso e controverso problema della scrittura
della lingua che accompagnò l’intera traduzione. La lunga
gestazione dell’opera e soprattutto il citato carteggio con gli intellettuali
fiorentini, ancora il fatto che lo stesso Fasano fu consulente di operazioni
letterarie dialettali22, lo mostrano come un accademico impegnato
in polemiche e problemi linguistici e letterari, in grado di disporre di
molto tempo da dedicare alla sua opera, alle sue amicizie e alla vita del
letterato gaudente, cosa che concorda benissimo anche col suo stato clericale23.
Gabriele Fasano,
che fu autore di sonetti in napoletano24 ed ebbe anche un
imitatore25, morì a Vietri nella frazione Dragonea, a cui
apparteneva la chiesa di S. Maria di Vietri, nel _________ |
1.
Archivio della Collegiata di S. Michele Arcangelo, Libro dei battezzati.
Anno 1645. Dall’atto, che fu stipulato dallo zio Hortensio Fasano
canonico della Collegiata, si apprende che al piccolo furono imposti i nomi
di "Gabriel Michael Angelus" e che fu "levato" da
Giovanna Positale. 2.
Questo fatto, che non impedì al Fasano di continuare ad avere rapporti con la
famiglia di origine, fu comune ad un suo contemporaneo e conterraneo,
l’artista Francesco Guarini (1611-1651), importante esponente della
rivoluzione operata nella pittura napoletana del Seicento dalla scuola del
Caravaggio, che volle distinguersi dalla bottega solofrana del molto più
modesto padre Tommaso, cambiando il proprio cognome in Guarini. Naturalmente
ci fu chi notò la cosa, come lo studioso Antonio Giliberti che nel suo Pantheon
Solophranum (Avellino, 1886, p. 50 n. 1) precisò: "Si vuole per
errore, Napolitano e non Solofrano, secondo l’epigrafe posta a fronte
dell’opera suddetta. Si, era Napoletano di domicilio, non di nascita per
essersi trasferito colà a stanziare". 3.
Pietro Martorana disse nel 1874 (Notizie biografiche e bibliografiche
degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli, pp. 189-190): "Di
questo poeta ignoriamo completamente la vita". Né gli altri studiosi del
Fasano hanno mostrato migliore conoscenza dei dati biografici. 4.
Cfr. S. Milano, Cavese l’autore de Lo Tasso napoletano, "Rivista
storica salernitana", 1991. Nello studio è chiaro un errore di omonimia
tra il Gabriele solofrano (nato nel 1645) ed un omonimo e coevo Gabriele
cavese, figlio di Filippo e Angela Garofaro, nato per altro nel 1638, mentre
il fatto che vi siano nella chiesa di S. Pietro in Dragonea due atti di morte
a nome "Gabriele Fasano" in uno dei quali si legge "iste
est qui composuit Tassi lungua neapolitana" (corsivo nostro) non ha
indotto l’autore a pensare che vi fossero due "Gabriele" e che con
quell’"iste" l’estensore dell’atto avesse voluto proprio
sottolineare la distinzione. La conoscenza di questo atto definitivamente
corregge l’incertezza sulla data della morte del Fasano riportata dal
Martorana (op. cit.) e dal Marotta (Dizionario biografico degli
italiani, Roma, 1994, v. 45, pp. 211-213) che nasce da una errata lettura
del Celano (Notizie del Bello dell’Antico e del Curioso della città di
Napoli, cit., v. IV, p. 70). 6.
Cfr. ASA, B6681, infra. 7.
V. Grassi, Genealogia..., cit., p. 141. 9.
Lo stato clericale del Fasano è citato dal Giliberti (op. cit.) e dal
Caputo (Sacerdoti salernitani, Salerno, 1981, pp. 96-97. 10.
La madre del Tasso, Porzia de’ Rossi, apparteneva per via materna ai marchesi
di Celenza e Gambacorta, e la zia era entrata a far parte dei conti Curiale
di Terranova (cfr. G. B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, 1621)
mentre la sorella era entrata nel casato sorrentino dei Sersale, legati ai
D’Ammone (cfr. dedica di B. Castiello all’edizione del 1720 de Lo Tasso
napoletano). 11.
Cfr. G. Fasano, op. cit., Introduzione. 12.
Cfr. N. Cortese, F. D’Andrea e la rinascenza filosofica in Napoli nella
seconda metà del secolo XVII, Napoli, 1923. Gli studiosi parlano di vari
viaggi fatti dal D’Andrea col Fasano (cfr. P. Martorana, op. cit., M.
G. Marotta, op. cit., B. Croce, Nuovi saggi sulla Letteratura
italiana del Seicento, Bari, 1931, pp. 89 e sgg.). 13.
Sia il Croce (op. cit.), sia il Nicolini (F. Galiani, Il dialetto
napoletano, Napoli, 1923), come pure il Marotta (cit.), danno versioni
diverse circa l’occasione di questo incontro. 14.
Cfr. A. Dardi, Fra Napoli e Firenze: Magalotti e Redi consulenti di
Gabriele Fasano, in "Lingua nostra", 1987, pp. 67-76 e sgg. 16.
Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 68 e nn. 21 e 22; G. Tellini, Tre
corrispondenti di Francesco Redi. Lettere inedite di G. Montanari, F, D’Andrea,
P. Boccone, in "Filologia e critica", I, 1976, p. 429. 17.
Il Redi disse: "Questo poeta mi fa troppo di onore, e gli resto
obbligatissimo" e ancora "Ho avuto fortuna d’intenderlo, e mi piace
molto e molto [...] vi è più vivezza, naturalezza di lingua, e
proprietà" (F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 143, 181-182). 19.
Alla strofa 31 della sua opera il Fasano dice "Chisto è no Rede nquanto
a lo sapere / e ne parlaiemo assaie de sto viaggio / na vota nziemme"
chiarendo in nota: "si allude all’eruditissimo e gran filosofo signor
Francesco Redi, mio parzialissimo padrone, [...] di cui basta solamente
accennare il nome già che la chiara fama da lui tutta la terra
ingombra". 20.
Cfr. F. Redi, Opere, cit., vv. 114-139, pp. 4-5. 21.
Cfr. A. Dardi, op. cit. pp. 66-67 e n. 12. Nella casa del principe di
Ottaviano, nel 1682, ne ascoltarono degli "stralci" sia il
Magalotti che il Valletta, che ne parlarono, entusiasticamente e
separatamente, in due lettere Il Magalotti disse al Valletta, l’undici agosto
dello stesso anno: "Viva V. S. Illustrissima mille anni per la buona
nuova che mi porta di aver presto a godere del bellissimo poema del Tasso
trasportato, del quale il mio Sig. principe d’Ottaiano, ebbe la bontà di
farmi sentire alcuni squarci, la mattina, che mi favorì in sua Casa",
mentre il Valletta ne aveva parlato al Magliabechi il 28 luglio: "Qui è
comparso un Poema napoletano trasportando quello del Tasso, ed è mirabilmente
riuscito, e fu composto dall’Autore in due anni, e già s’incomincierà la
stampa fra breve e credo inviarnele più d’un esemplare". 22.
Antonio Parrino nella prefazione alla traduzione dell’Eneide in napoletano
dello Stigliola dice che alcune ottave erano state fatte vedere a
"Gabriele Fasano di eterna ed immortale memoria" (cfr. M. G.
Marotta, op. cit., p. 213). 23.
Meno aderente gli è la figura del mercante di seta, notizia riportata dal
Marotta (op. cit.) e dal Milano (op. cit.) che, come si è
detto, lo confonde con un suo omonimo mercante cavese. 24.
Cfr. P. Martorana, op. cit., p 434. Vari biografi parlano di sonetti
fasaniani come quello dedicato in lode di Giovanni Battista Palo e pubblicato
nella sua opera (Descrizione della terra di Palo, Napoli,
1681). 25.
Una imitazione può considerarsi la tragicommedia sacra in dialetto
napoletano, 26.
Archivio Parrocchiale di S. Pietro a Dragonea, cit. |
5. Solofra ne Lo
Tasso napoletano. Vale a questo punto citare i riferimenti all’ambiente
solofrano contenuti ne Lo Tasso napoletano che sono molto più precisi
delle citazioni di luoghi napoletani e cavesi, senz’altro presenti nell’opera1
e molto più circostanziati e riscontrabili. Al di là di qualche elemento del
paesaggio2, il primo riferimento e il più caratterizzante è quello
che riguarda la concia delle pelli, della quale sono usati termini tecnici,
che solo chi ne aveva diretta dimestichezza poteva conoscere. Si considerino i
versi: "E cco lo scuto suio c’havea fi a sette / sole una ncoppa
ll’autra de mezina", dove il termine "mezina" traduce
l’espressione tassiana: "dure cuoia di tauro", con in nota la
spiegazione che le "mezine" erano i "cuoi da solar
scarpe", e con l’aggiunta che "suolo di mezina" era "la
parte più doppia del cuoio"3. Ancora il verso, in cui Armida,
visto che il suo strale non aveva colpito Rinaldo, pensa che le sue membra
siano coperte di diaspro ("Vestirebbe mai forse i membri suoi / di quel
diaspro ondei l’alma ha si dura"), è tradotto: "Besogna che lo
cuorio ll’haggia muollo", attingendo alle conoscenze sul comportamento
del cuoio, che, solo "molle", cioè bagnato, può essere trapassato più
facilmente. Altro riferimento
molto preciso si trova nell’invettiva di Argante che si prepara al duello
contro i cristiani: Po dice:
"Hann’a bedè sti pisciavine mo mmo che dde
Tancrede nne fa Argante. E boglio spestellà
ss’autre assassine, justo comme se
fanno fave frante, voglio fa de le ccoiera
marrocchine e cordovane, e dde le ddoppie addante: la carne a ccane e
l’ossamma ch’avanza nfarinole la
voglio mannà nFranza"4. (VII, 54). Qui il Fasano,
allontanandosi completamente dal testo, dice tra l’altro che vuole fare dei
cristiani "ccoiera marrocchine e ccordovane" e "ddoppie
addante", dove, ai termini, che indicano tecniche precise di concia -
"marocchini" e "cordovani" - , si aggiunge l’uso che ne
fa l’autore, e che corrisponde esattamente ad un’invettiva solofrana:
"fare la pelle" (nel senso di "conciare la pelle"),
riferita in modo minaccioso a quella di persone nemiche. In altro luogo lo
stesso traduce il tassiano "barbaro è di costume" così: "de le
ccoire farria sole de scarpe" (XV, 28), dove c’è un chiaro riferimento non
solo alla concia e alla confezione delle scarpe - altra attività solofrana5
- ma alla rozzezza del conciapelle, che solo uno del posto poteva usare
spontaneamente ed per celia6. Ci sono ancora
altri precisi riferimenti a questa attività e ai suoi prodotti, per esempio
tutte le volte che il Fasano usa il vocabolo "cuoiere", che era un
preciso termine locale7, o "correa" (VII, 107), con cui
si indicava una cinta di cuoio, o "scardosa" (XV, 48), che non è
aggettivo di scarda ma un sostantivo indicante un preciso tipo di pelle
ruvida, come lo stesso spiega in nota; quando cita la mortella (VI, 51),
l’erba conciante venduta dalle spezerie solofrane8; quando parla
della lana - prodotto principe dell’allevamento e della concia - nelle
espressioni: "de lana no ballone", o "a la balla ch’ammassa
lana" (XI, 40), e poi: "si nne cardaste lana" (XII, 38),
"e saie cardà la lana" (I, 47), riguardanti, le prime due, una
modalità di conservare e vendere la lana, le altre, una delle operazioni
elementari su questo prodotto, la cardatura; quando menziona le
"carcare" ("ma fa la notte peo de sei carcare", "so
ddoie carcare ll’uocchie"), cioè le fornaci per la calce - addirittura
sei - , il che dimostra che l’autore conosceva quest’attività e questo
prodotto essenziale in conceria9; e infine quando nomina il
"cantaro", una tinozza per la concia (X, 56). Altra attività
solofrana presente nei versi del Lo Tasso napoletano è la salatura
delle carni, specie quelle di maiale, produzione molto diffusa a Solofra e
che richiedeva la presenza di diverse botteghe per la macellazione delle
carni. La espressione: "e dde nnemmice fecemo salate" [dei nemici
facemmo una strage] (VIII, 13), ed altre simili richiamano, nella loro
significazione, proprio la grande quantità di animali uccisi per questa
attività; mentre la frase: "nè a lo mercato fanno strille tale / ciento
mmorre de puorce a ccarnevale" (XV, 51), si riferisce al fatto che per
Carnevale, essendo il maiale pronto per la macellazione, ne cominciava la
vendita, tanto che questo era anche un tempo di scadenza dei contratti di
compravendita; né mancano riferimenti al lardo, un prodotto usato
essenzialmente nella concia10. Si trova
l’ambiente solofrano nei richiami alle attività pastorali e alla lavorazione
del latte11; quando si parla del visco, prodotto usato
nell’uccellagione e nella concia; quando ci si riferisce al rapporto
dell’artigiano col garzone ("fare lo masto"), e persino
all’emancipazione, quell’atto legale col quale il padre liberava dalla patria
potestas il figlio per renderlo autonomo nella contrattazione
mercantile (XV, 8). Infine come non vedere il mulino, che i Fasano avevano
nelle loro terre, nella citazione di un particolare, cioè del
"taccariello", un legno che stava sulla ruota e che, girando,
faceva un rumore stridulo (V, 25)? E si trova Solofra in tutta una serie di
citazioni, di proverbi, di paragoni che costituiscono un habitat
dominante, e che, se potevano benissimo essere anche napoletani, erano
sicuramente presenti anche a Solofra12. ________ |
1.
Nell’opera fasaniana è presente Napoli, la costiera amalfitana oltre che
Cava-Vietri (cfr. M. De Maio, Gabriele Fasano..., cit., p. 50). 2.
Nella espressione: "nce puoi vedè cose galante de pagliara e cciardine
ch’è no spasso" (XVI, 41) c’è un caratteristico paesaggio solofrano,
dove i giardini, anche quelli detti "di delizie", si alternavano ai
pascoli in cui il pagliaio era un elemento dominante. 3.
Con questo vocabolo si indicava a Solofra esattamente questo tipo di cuoio
(ASA, B6533 e sgg). 4.
Il corsivo evidenzia i termini che interessano. Anche in altro luogo è citato
il cordovano (VI, 52). 5.
La confezione delle scarpe era strettamente legata a quella della concia,
infatti le concerie non di rado avevano locali adibiti a questa attività
artigianale, la quale nell’opera ha un altro richiamo nel termine
"chiantaruole" (I, 60), che sono i chiodi con la testa piatta usati
per le scarpe, dette "chiantarelle". 6.
Tra i detti proverbiali solofrani ce ne sono alcuni che sentenziano questa
caratteristica (cfr. S. Giliberti, Proverbi e detti dell’Irpinia: Solofra,
Atripalda, 1988). 7.
"Cuoiere" è il referente solofrano di pelle conciata dura (I, 22)
ed è usato dal Fasano non solo con questa accezione ma anche per tradurre il
generico termine "pelle". In altro luogo dice "ncoppa ssi
cuoiere vuoste" (X, 68) che traduce il tassiano "sopra voi
l’Imperio ho pieno". 8.
La spezeria, che a Solofra vendeva anche prodotti per la concia, e l’arte
dello speziale sono ricorrenti nella traduzione fasaniana. 9.
Rispettivamente per i versi citati: XV, 28; IV, 7. La famiglia Fasano a
Solofra possedeva una "carcara". Più avanti il Fasano parla anche
di "cauce forte" (IV, 31), caratteristica espressione locale che
significa "calce viva" non ancora idratata che a contatto
dell’acqua sviluppa calore e "bolle", infatti il sintagma fasaniano
è riferito all’amante che brucia di amore (IV, 31). 10.
Di questa attività, documentata fin dall’XI secolo, negli Statuti solofrani,
del XVI secolo, ne è regolata l’igiene proprio per il gran numero di tali
botteghe. Tra gli altri riferimenti si citano quelli relativi all’attività
delle "chianche" che preparavano e salavano la carne e che erano
luoghi sporchi di sangue: "cchiù se chiancheava", "ch’è na
sanguenacciaria" (XX, 92), "guerra n’è cchesta è cchianca sì, è
scafaccio / ca llà è la carne e ccà lo coltellaccio" (XX, 56),
"facea macello" (XX, 95); alla salatura delle carni: "a
ccomprì la salata" [a terminare la salata, cioè la strage] (X, 59),
"Via su corrimmo mo a Gierosalemme / a fare na salata de Salemme")
(I, 27); all’uso del lardo: "scotenata" (con questo termine si
indicava a Solofra il togliere la cotenna dalla pancia del maiale con cui si
ungeva la pelle) (I, 68), "comme lardo a ssole" (XIII, 61), "e
fa tanto de lardo" (I, 86). 11.
Si citano il dispregiativo: "guarda vuoje" ("guarda
buoi", così erano indicati gli armentieri) (V,19), il proverbio:
"ca la vacca è la nosta" (III,70) e le espressioni: "janca
cchiù de joncata" (il Fasano spiega che "joncata" è
"latte rappreso senza salare" e aggiunge che è detta così perché si
pone tra i giunchi mentre se è posta tra le felci è detta
"felciata", che sono attività, anche nei termini, caratteristiche
solofrane) (IV, 24), "po comm’a ccrapie dero duie sbalanze / quanno vanno
nnammore a pprimmavera" (VI, 40). 12. Vale citarne alcune espressioni: "llà nterra", "Michelasso" (XV, 63), "lassa fa a Cola" (II,46), "vale na rapesta" (II, 74), "chisto a cchiù dd’uno romparrà li cuorne" (III, 60) "a ffa li marcanciuni" (II, 79); e i proverbi: "o maccherone mio saltami in ganna", "ncagno de fico, haverraie molegnane" (II,69) "De casa e ppoteca se nce mette" (VI, 27), "Vanno a la spaccatrammola le ccose" (I, 31). |
6. La decadenza
della famiglia. Gabriele Fasano può considerarsi l’ultimo rappresentante
di questa famiglia, che dopo di lui sarà insignita da Ignazio Fasano, Abate
in Andria e poi a Montecassino e da Filippo che prese parte attiva nella
lotta condotta dall’intera comunità, tra la fine del XVII secolo e l’inizio
del XVIII contro il potere feudale. Dice una
testimonianza coeva che la famiglia Fasano patì "molti travagli nelle
liti avute contro il comune Padrone del feudo Don Domenico Orsino Padre
dell’odierno Principe Don Filippo" e cadde in disgrazia "per il che
li Maggiori del Reggimento della Universita di detta terra in ossequio della
sua fedele attenzione hobbligorno la medesima Universita a contribuire ai
suoi figli [di Filippo], per 10 anni, ducati 36 l’anno di provvisione in
vigore di pubblica conclusione fatta nel solito Archivio dalli Maggiori del
Regimento e Consiglio delli Trenta della medesima Universita". Da questo
momento la famiglia cadde in "bassissimo stato rispetto alli tempi
passati" visse di pochi beni e dell’arte del battiloro, nè potette più
avvalersi dei privilegi poiché si "bruggiò lo studio di Paulo
Fasano", restando in possesso solo del beneficio di S. Filippo e Giacomo
con sepoltura nella Collegiata1. I Fasano nel 1722,
secondo la testimonianza coeva a cui si è attinto, erano solo 20 persone
distribuite in 4 fuochi impegnati nell’attività del battiloro, mentre il
Catasto onciario del 1754 censisce un solo fuoco con nove membri impegnati
nella medesima attività. Continuò di questa
famiglia il ramo napoletano, che però non riconobbe più l’origine solofrana
del ceppo forse proprio per la cattiva sorte toccata alla famiglia solofrana
e del quale si conosce Tommaso Fasano, professore all’Università di Napoli. |
1.
V. Grassi, Notamenti..., p. 142. La testimonianza è coeva ai fatti
narrati. |