I FASANO DI SOLOFRA

 

 

 

1. L’impianto a Solofra. Il ceppo dei Fasano di Solofra1 fu una di quelle famiglie coinvolte nel vasto movimento migratorio proveniente dal Cilento, iniziato con i saccheggi avvenuti in molte borgate della baronia di Fasanella al tempo di Manfredi e continuato durante la guerra del Vespro, quando perseguitati e ribelli si sparpagliarono in tutta l’area collinare alle spalle di Salerno raggiungendo la stessa città2.

A Salerno i Fasano si introdussero nelle attività mercantili della città che avevano avuto una forte spinta dall’istituzione della fiera3, altri si insediarono in possedimenti tra Giffoni e Contursi4 e tra Montoro e Solofra, dove si unirono alla colonia cilentana esistente fin dal periodo longobardo-normanno con attività legate a Salerno5.

In questa zona si individuano alla fine del XIII secolo i primi possessores con incartamento su due territori, e cioè Giovanni e Guglielmo de Fasana6, quest’ultimo fondachiere del sale di Principato Ultra7, che potrebbero aver ottenuto il suffeudo dal Principe di Salerno per assicurarsi la loro fedeltà, ma anche dallo stesso Carlo I quando li integrò nei loro possedimenti nella prospettiva di avvalersi del loro sostegno8.

Sul ceppo solofrano si incentrò l’evoluzione della società solofrana, che si giovò in modo sostanzioso della vicenda della famiglia, i cui membri trovarono la propria forza non solo nel possesso fondiario quanto nell’industria armentizia e nella mercatura con un raggio di azione che giungeva alla Puglia9.

I Fasano di Solofra, che godettero fin dall’inizio del titolo di "nobile" e la facoltà di "possedere feudi con la recognezione al solo re"10, furono in stretti rapporti con i re angioini dei quali sostennero la politica di sviluppo dei territori interni e di trasformazione di Napoli in un grande centro mercantile e culturale. Ebbero importanti privilegi di natura economica, che li trasformarono in elementi di collegamento tra la nuova capitale e le terre dell’interno e che valorizzarono le attività mercantili solofrane. Queste, che avevano gravitato fin dal periodo longobardo su Salerno, per merito di questi attivi mercanti cominciarono ad aprirsi al ricco ed emergente nuovo centro mercantile, dove si era prodotto, proveniente da Firenze, un aumento della domanda del prodotto di tutto l’hinterland economico salernitano, la lana, in un momento particolarmente delicato quando - si è nel 1343 - un terribile terremoto sconvolse il golfo di Salerno e distrusse il porto di Amalfi riducendone drasticamente la capienza mercantile. Da questo momento anche la produzione solofrana seguì il percorso del suo enclave economico verso il mercato di Napoli, su cui Solofra cominciò gravitare col trasferimento di famiglie e di attività a Napoli tanto da divenirne una specie di succursale11.

Solofra ebbe inoltre esenzioni su molte altre piazze mercantili, che contribuirono a dare una spinta alla specializzazione produttiva - lana e pelli - che si stava realizzando in loco.

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1. Cfr. O. Beltrano, Breve descrittione del Regno Napoli, Napoli, 1644, p. 202. Il Beltrano parla di "molte scritture" che fanno discendere il ceppo solofrano dai conti di S. Angelo a Fasanella.

2. Cfr. B. Capasso, Liber inquisitionum Caroli I pro feudatariis Regni, in Historia diplomatica Regni Siciliae ab anno 1250 ad annum 1266, Napoli, 1874, pp. 344 e sgg. Il re angioino, per una congiura che aveva coinvolto Capaccio e Fasanella, tolse la baronia a Pandolfo di Fasanella.

3. Cfr. Codice Diplomatico Salernitano a cura di A. Carucci, Subiaco, 1934-1954, I, p. 105; da ora CDS. A Salerno si trova Bartolomeo Fasano, che nella seconda metà del XIII secolo possedeva i diritti della Chiesa di S. Lorenzo a strada, la chiesa che controllava la fiera, e che nel 1269, nel periodo della congiura contro Carlo I, è detto "proditore" (CDS, III, 338); e c'è Rinaldo Fasano citato tra i ribelli di Salerno (cfr. Registri Angioini, a cura di J. Mazzoleni, Napoli, 1967, VI, p. 164).

4. Cfr. CDS, III, 413 e Registri Angioini, a cura di J. Mazzoleni..., cit., II, pp. 86 e 268.

5. Cfr. M. De Maio, Alle radici di Solofra. Dal tratturo transumantico all'autonomia territoriale, Avellino, 1977, pp. 88-89 e 126. Per questa famiglia v. pure Id., Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000, pp. 48, 54-57, 65, 161, 165, 184, 186-187.

6. Registri Angioini, 1300-1301, n. 106, f. 24t, in A. Colombo, Memorie di Montoro di Principato Ultra, Napoli, 1883, pp. 92-93. Guglielmo de Fasana ebbe l’incartamento su una terra a lu planu de fontana e Giovanni su un castagneto detto a li piangarole, che sono territori tra Solofra e Montoro.

7. Cfr. Registri angioini, a cura di J. Mazzoleni, cit., XXV, p. 54.

8. Il re angioino oltre a restituire a Pandolfo di Fasanella i beni tolti da Manfredi gli concesse anche delle terre tra Giffoni e Contursi (cfr. CDS, I, 224 e II infra).

9. Cfr. M. Popovic-Radenkovoc, Le relazioni commerciali fra Dubrovnik (Ragusa) e la Puglia nel periodo angioino, in "Archivio Storico delle Province Napoletane" (da ora ASPN), 1958, p. 156.

10. O. Beltrano, op. cit., p. 202. Altre prerogative furono "d’esser servuti nelle compre di cose commestibili immediatamente dopo il barone, d’andare armati senza licenza". B. Candida Gonzaga (Memoria delle Famiglie nobili delle Provincie meridionali d’Italia, Napoli, 1875, v. V-VI, p. 85) dice: "Ha goduto nobiltà in Sicilia, in Solofra, in Somma vesuviana", ne descrive lo stemma: "un albero in fiore e due ragazzi affrontati che colgono dall’albero" "di azzurro al fagiano fermo del suo colore" e infine: "godeva il privilegio di portare la mazza del Pallio nella festa del Corpus Domini". Il Gonzaga cita altri autori che parlano di questa famiglia (Majone, Capitelli, Capecelatro, Cappelletti, Mauro, Pacichelli, Sassone, De Stefano). V. pure Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle Famiglie nobili e notabili, I, Bologna, 1886, s. v.

11. Per questo argomento e per il concetto di Solofra come succursale di Napoli v. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, cit., pp. 56-58 e 181 e sgg.

 

 

 

2. I medici del Trecento. I membri di questa famiglia, che dettero meriti al ceppo e fama al luogo di origine lungo tutto il XIV secolo, furono i medici Riccardo, Andrea e Niccolò - rispettivamente figlio e nipote del primo - che fecero parte della corte angioina ricoprendo importanti ruoli nella vita napoletana e sostenendo quei re anche economicamente.

Riccardo Fasano, figlio di Pietro e nipote di Oliviero "huomo non meno eccellente in lettere, che prode, e famoso per l’armi"1, studiò a Salerno dove fu medico di Carlo II fin da quando il re angioino era principe della città e che seguì a Napoli. Fu collaboratore e medico anche di re Roberto, membro del suo Consiglio in Calabria e suo sostenitore nella spedizione in Provenza dove lo accompagnò2.

Importante fu il contributo di Riccardo nello sviluppo dello Studio napoletano e nel trasferimento nella nuova capitale, da Salerno, degli studi di medicina, opera che lo pose al centro di inevitabili contrasti negli ambienti salernitani ma che egli sostenne con forza, avvalendosi del completo favore di entrambi i re angioini. Fu reggente del nuovo centro di studi nel 1313 e insegnante così noto da essere chiamato "medicinalis scientia professor" anche dopo aver lasciato questo status, per quello di Protomedico del Regno, sotto Roberto. Questa carica, che egli svolse senza tralasciare di seguire le vicende del regno, gli permise di completare la riforma napoletana della professione medica e di regolarne l’esercizio. I registri angioini danno la possibilità di seguire l’attività del "medico Riccardo", come era semplicemente chiamato, data la sua fama, parlando delle solenni proclamazioni di dottorato fatte da lui in qualità di Protomedico del Regno, tra cui quella del celebre medico Niccolò da Reggio, definito "sufficiens abtrusque ad catedram et ad apicem doctoratus"3.

A Riccardo, che morì nel 1333 e che a Napoli possedeva una terra "in casali Carpignani", i re angioini concessero benemerenze e privilegi nel commercio della lana e del grano in Puglia, che egli continuò a seguire riuscendo a coniugare mercanzia e cultura4. Con lui può dirsi iniziata una modalità seguita da tutte le famiglie solofrane impiantate a Napoli, il cui trasferimento nella capitale portò sempre questa cifra.

Il figlio Andrea e il nipote Niccolò furono anch’essi esperti nell’arte medica, tenuti in alta considerazione alla corte angioina e Protomedici del regno. Entrambi prestarono la loro opera a re Ladislao seguendolo nei suoi spostamenti ed entrambi ebbero la conferma dei privilegi personali, tra cui l’esenzione sui beni posseduti in "Sicilia, Solofra e Montella", mentre Nicolò in due momenti diversi - nel 1409 e nel 1413 - ebbe confermato l’incartamento sui beni solofrani5.

Anche le attività solofrane continuarono ad avere importanti immunità - sono documentate nel 1392 - che si rivelarono particolarmente preziose per il commercio che potette liberamente usare il passaggio su alcuni passi senza gravami tributari6. E se si pensa che nel periodo in cui fu presente Niccolò Fasano a corte, chiamato dal re "Fidelis nobilis, et circumspectus", Ladislao pose nel demanio reale le terre del feudo dei Filangieri rimasti senza erede, quindi anche Solofra che godette delle prerogative economiche legate a questo status, si trovano ampie motivazioni che spiegano perché l’Universitas esonerò la famiglia dalle tasse con pubblico atto di "notar Antonio" facendola immune "da qualsivoglia pagamento con pena di 160 once d’oro in caso di inosservanza, con facoltà di poter in tal’evento defendersi e mantenersi in possessione"7. Ancora all’inizio del XVI secolo la comunità solofrana nella stesura degli Statuta noviter facta concessi da Ercole Zurlo - si è nel 1522 - conservò in un articolo - l’82 - una traccia del particolare rapporto con la famiglia8.

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1. Cfr. O. Beltrano, op. cit., pp. 202-203. Parlano di lui M. Camera, Annali delle Due Sicilie, Napoli, 1841-1860, II, p. 70; R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze, 1922, II, p. 414 e n. 3; R. Trifone, L’Università degli studi di Napoli dalla fondazione ai giorni nostri, Napoli, 1936, p. 19.

2. G. M. Monti, Da Carlo I a Roberto d’Angiò, in ASPN, VII, 1934, p. 471.

3. Registri angioini, n. 223, 3, 10 marzo 1319 e n. 217, c 109, 8 giugno 1319. Il fatto che fosse chiamato semplicemente "il medico Riccardo" ha reso facile la confusione del Riccardo medico "salernitano" o "napoletano" con il Fasano solofrano.

4. Cfr. M. Popovic-Radenkovoc, op. cit., p. 156 n. 1.

5. Cfr. O. Beltrano, op. cit. Il Beltrano parla del "feudo di S. Agata" nel 1403 e di quello "di arco" nel 1416, che in effetti sono il medesimo possedimento, denominato più precisamente "arco" in quanto "S. Agata" era un toponimo che si estendeva a tutta la zona pianeggiante di Solofra al confine con Montoro, comprendendo il galdo e l’arco, per cui le date devono considerarsi riferite solo alle riconferme dei privilegi.

6. B. Candida Gonzaga, op. cit., p. 85.

7. S. De Renzi, Elogio storico di Lionardo Santoro, Napoli, 1853, p. 5 n. 1.

8. Cfr. C. Castellani, Statuta Universitatis Terre Solofre, Galatina, 1989, p. 55. L’articolo, che regolava il jus gradante, sul fondo dei Fasano al galdo ("deli galdi") conservava una parte della tassa perché potesse essere goduta dalla famiglia, la quale inoltre nell’uso di quel fondo non pagava alcun censo.

 

 

 

3. I Fasano nel XV e nel XVI secolo. Nel secolo XV, mentre continua la tradizione medica della famiglia con i diretti discendenti di Niccolò - il figlio Biagio e il nipote Valerio1 - si evolve il rapporto mercantile con Napoli iniziato con i Fasano, nel senso che divenne più ampio il trasferimento di membri delle famiglie locali a Napoli - dai Maffei, ai Murena, ai Guarino, ai Giliberti, ai de Parisio - per sostenere con le agevolazioni legate alla residenza nella capitale, le attività economiche locali. Sintomatico fu il caso del battiloro, detto allora oropelle, su cui la città di Napoli godeva il jus prohibendi e che, per poter essere esercitato a Solofra, dove c’era la materia prima - la pelle - e dove si diffonderà in modo esponenziale raggiungendo una perfezione superiore alla stessa capitale, era necessario che ci fosse un legame con la famiglia "napoletana"2. I Fasano continuarono ad avere la residenza a Napoli facendo parte del Seggio di Porto3 e come molti altri si nominavano con l’appellativo "napoletano" solo raramente aggiungendo la precisazione "di Solofra", cosa che contribuì a far dimenticare l’originaria provenienza della famiglia4.

Ancora in questo secolo si ha la possibilità di precisare il ruolo della famiglia nella economia locale attraverso la figura del "viri nobilis Pietro Angelo", "Capitaneo" di Solofra5, una carica importante poiché il Capitano, come capo della curia e rappresentante del feudatario, controllava i rapporti soprattutto economici della comunità sia col feudatario che con la corona. Poiché tale carica doveva essere ricoperta da persone abitanti lontane dal luogo almeno quindici miglia, si può arguire che tale Pietro Angelo possa essere originario di luoghi limitrofi, poi stabilitosi a Solofra, visto che tale onomastica legata alla famiglia Fasano continuò in loco; comunque ciò dimostra, data l’importanza della carica, che i legami con altre diramazioni del ceppo continuarono e furono di natura economica. Poiché però tale carica è documentata nel 1458, quando il feudo era da poco passato ad un ramo collaterale della famiglia Zurlo di Montoro, la quale per altro non risiedeva ancora sul posto e visto che il rappresentante era scelto dalla famiglia feudale e solo in occasioni eccezionali poteva essere elusa la clausola della residenza, si può ancora arguire, qualora Pietro Angelo fosse stato di Solofra, che la famiglia Fasano ne avesse beneficiato data proprio la sua preminenza nella società locale.

La valenza della famiglia solofrana in questo secolo è dimostrata anche dal fatto che era ben introdotta nel clero locale, il quale per le attività mercantili poggiate sul prestito svolgeva nella comunità un importante ruolo economico. I Fasano furono tra le famiglie compatrone della chiesa "ricettizia" dell’Angelo, anch’essa essenziale sostegno dell’economia locale e per di più ebbero ben due membri a dirigerla, gli archipresbiteri "venerabili" Pietro Angelo, che non è il precedente, e Andrea; in essa inoltre gestivano la cappella con jus patronale dei santi Filippo e Giacomo6. Infine furono fin da questo periodo erari dei feudatari, gli Zurlo, ed ebbero in particolare la committenza dei beni ecclesiastici solofrani dell’abate Giovanni Zurlo, fratello di Ettore ed Ercole, "con la facoltà di disporre a loro arbitrio, di alienare, difendere, fare utile reddito, di rispondere a contraddetti e ribelli"7.

La conoscenza di questa famiglia si fa più precisa nel XVI secolo quando i Fasano appaiono una famiglia non molto ampia appartenente alla borghesia artigiano-mercantile, tra le più rappresentative dell’economia locale con beni in varie zone ed abitazione nel centro commerciale della "platea". Si individuano bene gli interessi economici che vanno da un’attività legata all’allevamento, che la poneva in contatto con le zone del sanseverinese e con quelle interne del Principato Ultra e della Puglia, al possesso di una conceria, di una "calcara" per la produzione della calce, importante prodotto conciante, di una macina per la mortella e per il sommacco, alle attività commerciali con un ampio spettro di prodotti che comprendevano tutta la gamma della produzione locale, con particolare riguardo alla lana, che, proveniente dalla Puglia, aveva come base Giffoni, e alla carne salata8.

La famiglia continuò ad avere ruoli di primo piano nella vita locale sia nelle attività curiali, con due notai, che ecclesiali, con chierici impegnati nel governo della cappella di famiglia ed in altre chiese, sia nel governo della Universitas, svolgendo una funzione finanziaria di grande interesse nella particolare realtà economica locale9.

In questo ambito è da segnalare l’importante missione portata a termine da Giovanni Tommaso Fasano, figlio di Valerio, "persona non solo di lettere, ma di gran valore, che per mantenere la Patria in possesso de’ suoi privilegi e beni demaniali non li fu disaggio l’andar ’a Spagna per servitio di quella". Il Fasano infatti, quando Ercole Zurlo per aver parteggiato per il Lautrek - si è nel 1528 - perdette il feudo che era stato comprato da Ludovico della Tolfa, si recò a Pamplona, dove perorò, presso l’imperatore Carlo V, la causa dell’autonomia demaniale, che fu accolta permettendo a Solofra di vivere il periodo più fiorente della sua storia10.

La tradizione medica venne portata avanti da un altro Valerio, dottore fisico, che fece parte della Commissione per la stesura degli Statuti insieme a Lanzaleo, e poi da Giovanni Battista e da Paolo. Questa attività si poggiava sempre su una "spezeria", tenuta da famiglie con un membro esperto nell’arte medica, un "fisico" come si diceva, e che, oltre ad esse il centro dell’arte di Esculapio, era anche al servizio della concia delle pelli per i prodotti concianti, cioè per tutte quelle materie vegetali contenenti tannino, quali il sommacco, il mirto, il visco, l’amindolis, che fermavano il processo di decomposizione del tessuto animale trasformandolo in "corio" e che venivano fornite dalle spezerie sminuzzate alle concerie locali.

A metà Cinquecento, quando la famiglia Fasano era all’apice nella società locale, un figlio di Alberico, Agiasio, sposò - si è nel 1544 - Adriana la figlia del nobile amalfitano Giovanni Brangia11 e più tardi il fratello Galieno impalmò un’amalfitana12, cosa che permise l’instaurarsi di un legame tra la famiglia solofrana e l’ambiente dell’aristocrazia della costiera sorrentino-amalfitana. L’insediamento del ceppo sulla costiera fu consolidato, qualche decennio dopo, quando gli Orsini, che avevano preso il possesso del feudo e avevano iniziato la costruzione del palazzo locale - si è nella seconda metà del XVI secolo -, divennero debitori dei Fasano che ricevettero in cambio il dominio dell’Abbazia di S. Maria di Vietri. Hortensio, i fratelli Valerio, Vincenzo, Camillo e Antonio e i figli Gabriele, Tommaso e Basilio si impegnarono con Flaminio Orsini nell’uso dell’Abbazia con il diritto, per gli eredi, dell’usufrutto e l’obbligo della cura dei beni, con "il conto privilegi" e dei bisogni religiosi della chiesa. Questi furono affidati, all’inizio, ad un Valerio e ad un Gabriele13, predecessori del più cospicuo rappresentante della famiglia dopo Riccardo - appunto Gabriele Fasano - autore, nel secolo successivo, de Lo Tasso napoletano14 e che morì proprio a Vietri15.

Sicuramente l’impianto della famiglia solofrana nella valle metelliana fu determinato da più ampi motivi di natura economica che il possesso della chiesa permetteva e sosteneva. Bisogna infatti considerare i più forti e antichi legami di natura essenzialmente economica di tutta l’area solofrano-motorese con Cava, che risalgono al primo periodo normanno quando l’Abbazia si introdusse nella pianura a nord-nord est di Salerno assorbendo i beni delle due chiese palatine dei principi longobardi, S. Massimo e S. Maria de Dommo, e quando Sarracena, balia e reggente di Roberto II di Caserta-Tricarico nel feudo di Serino, sottomise al dominio del grande centro economico-religioso terre e uomini del vico di Solofra. A queste donazioni risale il possesso da parte dell’Abbazia di diversi appezzamenti nei territori di Solofra, documentato ancora nel 145416.

Cava costituì un punto importante di riferimento per le attività artigiano-mercantili solofrane non solo per i porti di Vietri e di Cetara, che furono importanti punti di smercio dei prodotti solofrani, ma perché raccoglieva la produzione agricola e artigiana di queste terre. Inoltre attraverso la valle metelliana passava la strada che da Salerno portava Napoli e che interessava il commercio solofrano. Ancora da Vietri e da Cava veniva la maggior parte del sommacco, proveniente dalla Sicilia, e della mortella, raccolta sui monti della costiera, altra voce sostanziosa del commercio solofrano17. Cava infine forniva a Solofra i suoi artigiani e i suoi artisti18 mentre molti altri motivi di contatto si possono individuare tra i due centri che riguardano proprio la famiglia Fasano, come quando nel 1565 fu sindaco di Solofra Tommaso Fasano, mentre ne era Capitano il cavese Geromino Angrisano19.

Alla fine del XVI secolo la famiglia solofrana, che aveva legami anche con l’aristocrazia napoletana tra cui i conti di Laurenzano che saranno protettori di Gabriele20, era ben impianta a Napoli mentre da Solofra e da Cava-Vietri, centri dell’immediato hinterland napoletano, il ceppo traeva la fonte della propria sussistenza.

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1. Il notaio Vit’Antonio Grassi nella sua Genealogia e Ragguagli istorici di Solofra e sua Universita, inedito del 1722 ha lasciato documentate tracce di questa discendenza.

2. Vale la pena ricordare che il possesso di beni nella città o nelle pertinenze di Napoli e i matrimoni contratti con cittadine napoletane davano la possibilità di usufruire di non pochi benefici soprattutto di carattere mercantile. Per questo argomento v. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 186 e sgg. et infra.

3. La partecipazione dei Fasano al Seggio di Porto è citata dal Candida Gonzaga (op. cit., p. 393), mentre C. Celano (Notizie del Bello dell’Antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1692), amico di Gabriele Fasano, parla della residenza della famiglia al vico Severini o dei Garofali (poi vico Summonte). Si conosce anche un’abitazione dei Fasano al vico S. Onofrio.

4. Nei documenti notarili dei secoli XVI e XVII si trova spesso la dicitura, riferita anche ad altri solofrani, di "napoletano di Solofra". La stessa cosa avviene nel Catasto onciario del 1754, dove sono censite anche famiglie solofrane residenti a Napoli, i cui membri si definiscono "privilegiato napolitano" o "causidico napolitano" e via dicendo (Archivio di Stato di Napoli, Catasto 1754, vol. 4743-4746).

5. Cfr, Archivio della Badia di Cava, Inventarium reditum et censum prioratuys Sancti Bernardini de Montorio sistentem in terra Solofre, XII, 79, in M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 212-214.

6. Cfr. Archivio Diocesano di Salerno, Benefici e cappelle. Solofra, Y, 89, 1, II; da ora ADS. Tra i gestori dei beni ecclesiastici ci sono Agiasio e Ladislao.

7. ADS, Benefici..., cit., IV, in M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 216 e 237 e sgg.

8. Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., Appendice documentaria, III A e B.

9. Cfr. Archivio di Stato di Avellino (da ora ASA), Notai, B6522 e sgg.

10. V. Grassi, Genealogia..., cit.

11. Cfr. ASA, B6532, f. 60. Era il 20 dicembre del 1544.

12. Cfr. ASA, B6540, f. 216. Da questo matrimonio nasceranno Tommaso, Ortensio e Agiasio.

13. ASA, Notai, B6540, f. 221e B7093 ff. 13, 18 e 32. Gli agenti degli atti di stipula e di conferma del contratto sono i procuratori di Flaminio Orsini, Paolo Liongello di Spoleto e Carlo Antonio Miraballo di Napoli.

14. L’opera, pubblicata a Napoli nel 1689, è stata studiata in M. De Maio, Gabriele Fasano e Lo Tasso napoletano, in "Riscontri", anno XXI, n. 3-4(1999), pp. 31-51, da cui si attingono alcuni elementi nella seconda parte di questo articolo.

15. Archivio Parrocchiale di S. Pietro in Dragonea, Libro dei morti, a. 1689.

16. Cfr. Archivio di Cava, arm. II, O,.14, 15. X, 9 e Id Inventarium reditum...., cit. V. pure M. De Maio, Alle radici di Solofra...., cit., pp. 62 e sgg., 119-124.

17. Gli atti notarili dimostrano il legame Solofra-Cava per il commercio del sommacco anche con mercanti cavesi come Camillo Ambrosio (ASA, B 6532, f. 32), Troiano e Costanzo di Cimitella (B6545, f. 18).

18. Cavesi furono i costruttori della Collegiata, del Palazzo degli Orsini, del Convento di S. Domenico, i fratelli Jovine (cfr. ASA, B6655, f. 109r, B6656 e sgg.), e cavesi furono i carpentieri e i lavoratori del legno responsabili dei lavori di molte strutture dell’interno del maggiore tempio solofrano.

19. ASA, B6547, f. 80. Cavesi furono tanti altri individui con attività a Solofra: Ottavio e Marco Rentino (B7093 , ff 34-35), Iacopo Cafaro (B7093, f. 82), Federico de Curtis (B6539, f. 148), Francesco Orsilio (B 6543, f. 62), Donato Palumbo che sposò una solofrana (B6530, f. 59); o della costiera: di Maiori, Antonio Brandice (B7093, f. 402) e Pasquale de Amato (B6534, f, 120), di Sorrento, G. Battista Bonopede (B6533). Anche dei solofrani ebbero rapporti con la costiera come Cittadino Giliberi e Altobello e Carlo Garzillo che gestirono un Ginnasio a Maiori (ASA, B 6531, f. 4). Non si contano i rapporti commerciali con la piazza di Vietri.

20. Nell’opera di Gabriele Fasano è chiaro il legame della famiglia con l’aristocrazia napoletana. V. ultra.

 

 

 

4. Gabriele Fasano autore de Lo Tasso Napoletano. Al triangolo Solofra-Napoli-Cava e alla costiera è legato Gabriele Fasano, che nacque a Solofra il 7 luglio del 1645 da Alessandro e Livia Murena1, ma risiedette essenzialmente a Napoli definendosi "napolitano", aggettivazione da lui stesso apposta sul frontespizio della sua opera che fa pensare ad una volontà di volersi distinguere dalla famiglia originaria2. Questo fatto, che entra nella mentalità del secolo, non favorì un serio approfondimento sulla sua origine e determinò le carenze della sua biografia riscontrate in tutti gli studiosi della sua opera3. Si è giunti persino ad attribuirgli come luogo di nascita Vietri, che invece fu solo quello della sua morte. L’errore è in uno studio di Salvatore Milano, che ha dimostrato il legame tra i Fasano cavesi e i Fasano napoletani, e che invece ignora quello che sia gli uni sia gli altri avevano coll’originario ceppo solofrano4.

Le carenze biografiche hanno inciso sulla stessa lettura dell’opera del Fasano, le cui caratteristiche, quelle proprie di una traduzione in dialetto napoletano, sarebbero state meglio esaltate se si fosse potuto cogliere quel denso sottofondo popolano che permette di gustare più a fondo tutta la genuina e vivace napoletanità propria delle zone meno cittadine, di una provincia però molto napoletanizzata, come quella cui apparteneva Solofra5.

La famiglia Fasano all’epoca di Gabriele era al centro di una fiorente attività mercantile sostenuta da una bottega per la concia delle pelli, a cui erano legate le macine per la preparazione della mortella e del sommacco e da forni per la produzione della calce, da una bottega di battiloro, attività che il padre Alessandro svolgeva insieme ai figli Giovanni Battista, Bartolomeo, Filippo e ai nipoti Giuseppe ed Emilio6.

La tradizione medica continuava nella "spezeria" di famiglia, guidata da Giovanni Camillo, "speziale singolare nella medicina"7 e fratello di Gabriele, la cui amicizia con Francesco Redi, medico e grande conoscitore e studioso delle virtù delle piante, esprime proprio questa comune unione di interessi e di conoscenze. Anche nell’opera fasaniana ci sono ampi richiami all’arte medica, frequenti citazioni di medici del tempo e passi in cui è presente persino la "spezeria" di famiglia8.

Gabriele, dopo i primi studi seguiti nelle scuole private locali che avevano una tradizione antica perché legata ai bisogni della mercatura, aveva abbracciato lo stato clericale9 e si era trasferito a Napoli nella residenza di famiglia, mentre l’incombenza della cura dell’Abbazia di S. Maria di Vietri lo fece risiedere anche nella cittadina metelliana.

Negli ambienti della costiera Gabriele Fasano, che fu un uomo colto ed erudito, conobbe lo speciale rapporto che questi avevano avuto con Torquato Tasso per gli anni vissuti dal poeta a Sorrento e per i legami con l’aristocrazia locale10. C’era un orgoglio ed un trasporto diffuso che avevano creato un’accesa atmosfera in cui la vicenda letteraria del poeta riceveva un riflesso tutto particolare con strascichi che erano ancora vivi ai tempi del giovane Gabriele e che emergono nelle pagine introduttive dell’opera fasaniana11.

Intorno al Tasso si cementò anche l’amicizia con Francesco D’Andrea, giureconsulto nativo della costiera, animatore di Accademie ed eminente uomo di cultura, col quale il Fasano partecipò alla vita culturale napoletana12. E fu il D’Andrea a fargli conoscere Lorenzo Magalotti e Francesco Redi13, con i quali si creò un fecondo sodalizio testimoniato da un importante carteggio, che fa parte dei "vivaci scambi culturali e letterari fra Firenze e Napoli nel secondo seicento"14 e che chiarisce il contributo che i letterati fiorentini, esperti e interessati a problemi linguistici, dettero al poeta solofrano-napoletano nel momento più ricco della sua attività culturale. Essi sostennero e seguirono la traduzione della Gerusalemme liberata in dialetto napoletano, che fu una vera e propria operazione linguistica espressione della querelle tra la lingua toscana e il vernacolo napoletano.

I rapporti del Fasano con i due rappresentanti della corte medicea ebbero aspetti più amicali se si pensa che il Redi citò scherzosamente il Fasano nel Bacco in Toscana accanto al D’Andrea quando disse che "Egli a Napoli sen bea / del superbo Fasano in compagnia", riferendo, nelle annotazioni, un episodio che esprime la familiarità di questa amicizia e cioè che l’amico, mostrandosi in collera perché nel Ditirambo non erano stati lodati i vini di Napoli, disse: "Voglio fa venì Bacco a Posileco, e le voglio fa vedè, che differenza ’nc’ è tra li vini nuosti, e li Pisciazzelle de Toscana"15. Il Fasano infatti aveva intenzione di aprire col Redi un confronto letterario scrivendo un Bacco a Posileco ad imitazione dell’opera rediana parlando dei vini antichi e moderni del Meridione, opera che però non vide la luce forse per la precoce morte dell’autore. Così pure si deve pensare per una traduzione del Bacco rediano in lingua napoletana che avrebbe dovuto fare il Fasano, come proposto dal D’Andrea16.

I rapporti continuarono poiché nel gennaio del 1686 il Fasano mandò ai due amici la traduzione del XVI canto della Gerusalemme, chiedendone un giudizio, cosa che il Redi fece con espressioni entusiasticamente positive17, mentre il Magalotti gli inviò "un vero e proprio commento con consigli e giudizi lusinghieri"18. Ancora il Fasano mandò all’amico aretino in omaggio un suo sonetto di argomento enologico ancora scherzando sulla diatriba sui vini e poi ricambiò la cortesia citando il Redi nel canto XIV della sua opera19. L’amicizia tra i due rimase se il Redi nella edizione definitiva della sua opera aggiunse altri versi che parlano dell’amico20.

Ci furono altre persone, che seguirono l’opera del Fasano prima della stampa quando brani de Lo Tasso erano letti nelle case dell’aristocrazia napoletana21 dove si dibattette anche lo spinoso e controverso problema della scrittura della lingua che accompagnò l’intera traduzione.

La lunga gestazione dell’opera e soprattutto il citato carteggio con gli intellettuali fiorentini, ancora il fatto che lo stesso Fasano fu consulente di operazioni letterarie dialettali22, lo mostrano come un accademico impegnato in polemiche e problemi linguistici e letterari, in grado di disporre di molto tempo da dedicare alla sua opera, alle sue amicizie e alla vita del letterato gaudente, cosa che concorda benissimo anche col suo stato clericale23.

Gabriele Fasano, che fu autore di sonetti in napoletano24 ed ebbe anche un imitatore25, morì a Vietri nella frazione Dragonea, a cui apparteneva la chiesa di S. Maria di Vietri, nel 1689 a pochi mesi dalla pubblicazione della sua opera26.

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1. Archivio della Collegiata di S. Michele Arcangelo, Libro dei battezzati. Anno 1645. Dall’atto, che fu stipulato dallo zio Hortensio Fasano canonico della Collegiata, si apprende che al piccolo furono imposti i nomi di "Gabriel Michael Angelus" e che fu "levato" da Giovanna Positale.

2. Questo fatto, che non impedì al Fasano di continuare ad avere rapporti con la famiglia di origine, fu comune ad un suo contemporaneo e conterraneo, l’artista Francesco Guarini (1611-1651), importante esponente della rivoluzione operata nella pittura napoletana del Seicento dalla scuola del Caravaggio, che volle distinguersi dalla bottega solofrana del molto più modesto padre Tommaso, cambiando il proprio cognome in Guarini. Naturalmente ci fu chi notò la cosa, come lo studioso Antonio Giliberti che nel suo Pantheon Solophranum (Avellino, 1886, p. 50 n. 1) precisò: "Si vuole per errore, Napolitano e non Solofrano, secondo l’epigrafe posta a fronte dell’opera suddetta. Si, era Napoletano di domicilio, non di nascita per essersi trasferito colà a stanziare".

3. Pietro Martorana disse nel 1874 (Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli, pp. 189-190): "Di questo poeta ignoriamo completamente la vita". Né gli altri studiosi del Fasano hanno mostrato migliore conoscenza dei dati biografici.

4. Cfr. S. Milano, Cavese l’autore de Lo Tasso napoletano, "Rivista storica salernitana", 1991. Nello studio è chiaro un errore di omonimia tra il Gabriele solofrano (nato nel 1645) ed un omonimo e coevo Gabriele cavese, figlio di Filippo e Angela Garofaro, nato per altro nel 1638, mentre il fatto che vi siano nella chiesa di S. Pietro in Dragonea due atti di morte a nome "Gabriele Fasano" in uno dei quali si legge "iste est qui composuit Tassi lungua neapolitana" (corsivo nostro) non ha indotto l’autore a pensare che vi fossero due "Gabriele" e che con quell’"iste" l’estensore dell’atto avesse voluto proprio sottolineare la distinzione. La conoscenza di questo atto definitivamente corregge l’incertezza sulla data della morte del Fasano riportata dal Martorana (op. cit.) e dal Marotta (Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1994, v. 45, pp. 211-213) che nasce da una errata lettura del Celano (Notizie del Bello dell’Antico e del Curioso della città di Napoli, cit., v. IV, p. 70).

5. In tal senso si è mosso lo studio M. De Maio, Gabriele Fasano..., cit., nel quale per la prima volta sono stati individuati tutti gli "elementi solofrani" presenti nell’opera. V. ultra.

6. Cfr. ASA, B6681, infra.

7. V. Grassi, Genealogia..., cit., p. 141.

8. G. Fasano, op. cit., infra.

9. Lo stato clericale del Fasano è citato dal Giliberti (op. cit.) e dal Caputo (Sacerdoti salernitani, Salerno, 1981, pp. 96-97.

10. La madre del Tasso, Porzia de’ Rossi, apparteneva per via materna ai marchesi di Celenza e Gambacorta, e la zia era entrata a far parte dei conti Curiale di Terranova (cfr. G. B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, 1621) mentre la sorella era entrata nel casato sorrentino dei Sersale, legati ai D’Ammone (cfr. dedica di B. Castiello all’edizione del 1720 de Lo Tasso napoletano).

11. Cfr. G. Fasano, op. cit., Introduzione.

12. Cfr. N. Cortese, F. D’Andrea e la rinascenza filosofica in Napoli nella seconda metà del secolo XVII, Napoli, 1923. Gli studiosi parlano di vari viaggi fatti dal D’Andrea col Fasano (cfr. P. Martorana, op. cit., M. G. Marotta, op. cit., B. Croce, Nuovi saggi sulla Letteratura italiana del Seicento, Bari, 1931, pp. 89 e sgg.).

13. Sia il Croce (op. cit.), sia il Nicolini (F. Galiani, Il dialetto napoletano, Napoli, 1923), come pure il Marotta (cit.), danno versioni diverse circa l’occasione di questo incontro.

14. Cfr. A. Dardi, Fra Napoli e Firenze: Magalotti e Redi consulenti di Gabriele Fasano, in "Lingua nostra", 1987, pp. 67-76 e sgg.

15. F. Redi, Bacco in Toscana in Opere, Napoli, 1778, III, pp. 4-5. e 45. Dice il Redi del Fasano: "Poeta celebre, ha tradotto con galanteria spiritosissima la Gerusalemme Liberata del Tasso in lingua napolitana".

16. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 68 e nn. 21 e 22; G. Tellini, Tre corrispondenti di Francesco Redi. Lettere inedite di G. Montanari, F, D’Andrea, P. Boccone, in "Filologia e critica", I, 1976, p. 429.

17. Il Redi disse: "Questo poeta mi fa troppo di onore, e gli resto obbligatissimo" e ancora "Ho avuto fortuna d’intenderlo, e mi piace molto e molto [...] vi è più vivezza, naturalezza di lingua, e proprietà" (F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 143, 181-182).

18. A. Dardi, op. cit., pp. 70-76.

19. Alla strofa 31 della sua opera il Fasano dice "Chisto è no Rede nquanto a lo sapere / e ne parlaiemo assaie de sto viaggio / na vota nziemme" chiarendo in nota: "si allude all’eruditissimo e gran filosofo signor Francesco Redi, mio parzialissimo padrone, [...] di cui basta solamente accennare il nome già che la chiara fama da lui tutta la terra ingombra".

20. Cfr. F. Redi, Opere, cit., vv. 114-139, pp. 4-5.

21. Cfr. A. Dardi, op. cit. pp. 66-67 e n. 12. Nella casa del principe di Ottaviano, nel 1682, ne ascoltarono degli "stralci" sia il Magalotti che il Valletta, che ne parlarono, entusiasticamente e separatamente, in due lettere Il Magalotti disse al Valletta, l’undici agosto dello stesso anno: "Viva V. S. Illustrissima mille anni per la buona nuova che mi porta di aver presto a godere del bellissimo poema del Tasso trasportato, del quale il mio Sig. principe d’Ottaiano, ebbe la bontà di farmi sentire alcuni squarci, la mattina, che mi favorì in sua Casa", mentre il Valletta ne aveva parlato al Magliabechi il 28 luglio: "Qui è comparso un Poema napoletano trasportando quello del Tasso, ed è mirabilmente riuscito, e fu composto dall’Autore in due anni, e già s’incomincierà la stampa fra breve e credo inviarnele più d’un esemplare".

22. Antonio Parrino nella prefazione alla traduzione dell’Eneide in napoletano dello Stigliola dice che alcune ottave erano state fatte vedere a "Gabriele Fasano di eterna ed immortale memoria" (cfr. M. G. Marotta, op. cit., p. 213).

23. Meno aderente gli è la figura del mercante di seta, notizia riportata dal Marotta (op. cit.) e dal Milano (op. cit.) che, come si è detto, lo confonde con un suo omonimo mercante cavese.

24. Cfr. P. Martorana, op. cit., p 434. Vari biografi parlano di sonetti fasaniani come quello dedicato in lode di Giovanni Battista Palo e pubblicato nella sua opera (Descrizione della terra di Palo, Napoli, 1681).

25. Una imitazione può considerarsi la tragicommedia sacra in dialetto napoletano, La Gerusalemme liberata di Pietro Pascale che fu giudice e governatore a Solofra (del Pascale parla G. Passaro, Saggio di Biografiia montellese, Lioni, 1976, p. 3).

26. Archivio Parrocchiale di S. Pietro a Dragonea, cit.

 

 

 

 

 

5. Solofra ne Lo Tasso napoletano. Vale a questo punto citare i riferimenti all’ambiente solofrano contenuti ne Lo Tasso napoletano che sono molto più precisi delle citazioni di luoghi napoletani e cavesi, senz’altro presenti nell’opera1 e molto più circostanziati e riscontrabili. Al di là di qualche elemento del paesaggio2, il primo riferimento e il più caratterizzante è quello che riguarda la concia delle pelli, della quale sono usati termini tecnici, che solo chi ne aveva diretta dimestichezza poteva conoscere.

Si considerino i versi: "E cco lo scuto suio c’havea fi a sette / sole una ncoppa ll’autra de mezina", dove il termine "mezina" traduce l’espressione tassiana: "dure cuoia di tauro", con in nota la spiegazione che le "mezine" erano i "cuoi da solar scarpe", e con l’aggiunta che "suolo di mezina" era "la parte più doppia del cuoio"3. Ancora il verso, in cui Armida, visto che il suo strale non aveva colpito Rinaldo, pensa che le sue membra siano coperte di diaspro ("Vestirebbe mai forse i membri suoi / di quel diaspro ondei l’alma ha si dura"), è tradotto: "Besogna che lo cuorio ll’haggia muollo", attingendo alle conoscenze sul comportamento del cuoio, che, solo "molle", cioè bagnato, può essere trapassato più facilmente.

Altro riferimento molto preciso si trova nell’invettiva di Argante che si prepara al duello contro i cristiani:

 

Po dice: "Hann’a bedè sti pisciavine

mo mmo che dde Tancrede nne fa Argante.

E boglio spestellà ss’autre assassine,

justo comme se fanno fave frante,

voglio fa de le ccoiera marrocchine

e cordovane, e dde le ddoppie addante:

la carne a ccane e l’ossamma ch’avanza

nfarinole la voglio mannà nFranza"4. (VII, 54).

 

Qui il Fasano, allontanandosi completamente dal testo, dice tra l’altro che vuole fare dei cristiani "ccoiera marrocchine e ccordovane" e "ddoppie addante", dove, ai termini, che indicano tecniche precise di concia - "marocchini" e "cordovani" - , si aggiunge l’uso che ne fa l’autore, e che corrisponde esattamente ad un’invettiva solofrana: "fare la pelle" (nel senso di "conciare la pelle"), riferita in modo minaccioso a quella di persone nemiche.

In altro luogo lo stesso traduce il tassiano "barbaro è di costume" così: "de le ccoire farria sole de scarpe" (XV, 28), dove c’è un chiaro riferimento non solo alla concia e alla confezione delle scarpe - altra attività solofrana5 - ma alla rozzezza del conciapelle, che solo uno del posto poteva usare spontaneamente ed per celia6.

Ci sono ancora altri precisi riferimenti a questa attività e ai suoi prodotti, per esempio tutte le volte che il Fasano usa il vocabolo "cuoiere", che era un preciso termine locale7, o "correa" (VII, 107), con cui si indicava una cinta di cuoio, o "scardosa" (XV, 48), che non è aggettivo di scarda ma un sostantivo indicante un preciso tipo di pelle ruvida, come lo stesso spiega in nota; quando cita la mortella (VI, 51), l’erba conciante venduta dalle spezerie solofrane8; quando parla della lana - prodotto principe dell’allevamento e della concia - nelle espressioni: "de lana no ballone", o "a la balla ch’ammassa lana" (XI, 40), e poi: "si nne cardaste lana" (XII, 38), "e saie cardà la lana" (I, 47), riguardanti, le prime due, una modalità di conservare e vendere la lana, le altre, una delle operazioni elementari su questo prodotto, la cardatura; quando menziona le "carcare" ("ma fa la notte peo de sei carcare", "so ddoie carcare ll’uocchie"), cioè le fornaci per la calce - addirittura sei - , il che dimostra che l’autore conosceva quest’attività e questo prodotto essenziale in conceria9; e infine quando nomina il "cantaro", una tinozza per la concia (X, 56).

Altra attività solofrana presente nei versi del Lo Tasso napoletano è la salatura delle carni, specie quelle di maiale, produzione molto diffusa a Solofra e che richiedeva la presenza di diverse botteghe per la macellazione delle carni. La espressione: "e dde nnemmice fecemo salate" [dei nemici facemmo una strage] (VIII, 13), ed altre simili richiamano, nella loro significazione, proprio la grande quantità di animali uccisi per questa attività; mentre la frase: "nè a lo mercato fanno strille tale / ciento mmorre de puorce a ccarnevale" (XV, 51), si riferisce al fatto che per Carnevale, essendo il maiale pronto per la macellazione, ne cominciava la vendita, tanto che questo era anche un tempo di scadenza dei contratti di compravendita; né mancano riferimenti al lardo, un prodotto usato essenzialmente nella concia10.

Si trova l’ambiente solofrano nei richiami alle attività pastorali e alla lavorazione del latte11; quando si parla del visco, prodotto usato nell’uccellagione e nella concia; quando ci si riferisce al rapporto dell’artigiano col garzone ("fare lo masto"), e persino all’emancipazione, quell’atto legale col quale il padre liberava dalla patria potestas il figlio per renderlo autonomo nella contrattazione mercantile (XV, 8). Infine come non vedere il mulino, che i Fasano avevano nelle loro terre, nella citazione di un particolare, cioè del "taccariello", un legno che stava sulla ruota e che, girando, faceva un rumore stridulo (V, 25)? E si trova Solofra in tutta una serie di citazioni, di proverbi, di paragoni che costituiscono un habitat dominante, e che, se potevano benissimo essere anche napoletani, erano sicuramente presenti anche a Solofra12.

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1. Nell’opera fasaniana è presente Napoli, la costiera amalfitana oltre che Cava-Vietri (cfr. M. De Maio, Gabriele Fasano..., cit., p. 50).

2. Nella espressione: "nce puoi vedè cose galante de pagliara e cciardine ch’è no spasso" (XVI, 41) c’è un caratteristico paesaggio solofrano, dove i giardini, anche quelli detti "di delizie", si alternavano ai pascoli in cui il pagliaio era un elemento dominante.

3. Con questo vocabolo si indicava a Solofra esattamente questo tipo di cuoio (ASA, B6533 e sgg).

4. Il corsivo evidenzia i termini che interessano. Anche in altro luogo è citato il cordovano (VI, 52).

5. La confezione delle scarpe era strettamente legata a quella della concia, infatti le concerie non di rado avevano locali adibiti a questa attività artigianale, la quale nell’opera ha un altro richiamo nel termine "chiantaruole" (I, 60), che sono i chiodi con la testa piatta usati per le scarpe, dette "chiantarelle".

6. Tra i detti proverbiali solofrani ce ne sono alcuni che sentenziano questa caratteristica (cfr. S. Giliberti, Proverbi e detti dell’Irpinia: Solofra, Atripalda, 1988).

7. "Cuoiere" è il referente solofrano di pelle conciata dura (I, 22) ed è usato dal Fasano non solo con questa accezione ma anche per tradurre il generico termine "pelle". In altro luogo dice "ncoppa ssi cuoiere vuoste" (X, 68) che traduce il tassiano "sopra voi l’Imperio ho pieno".

8. La spezeria, che a Solofra vendeva anche prodotti per la concia, e l’arte dello speziale sono ricorrenti nella traduzione fasaniana.

9. Rispettivamente per i versi citati: XV, 28; IV, 7. La famiglia Fasano a Solofra possedeva una "carcara". Più avanti il Fasano parla anche di "cauce forte" (IV, 31), caratteristica espressione locale che significa "calce viva" non ancora idratata che a contatto dell’acqua sviluppa calore e "bolle", infatti il sintagma fasaniano è riferito all’amante che brucia di amore (IV, 31).

10. Di questa attività, documentata fin dall’XI secolo, negli Statuti solofrani, del XVI secolo, ne è regolata l’igiene proprio per il gran numero di tali botteghe. Tra gli altri riferimenti si citano quelli relativi all’attività delle "chianche" che preparavano e salavano la carne e che erano luoghi sporchi di sangue: "cchiù se chiancheava", "ch’è na sanguenacciaria" (XX, 92), "guerra n’è cchesta è cchianca sì, è scafaccio / ca llà è la carne e ccà lo coltellaccio" (XX, 56), "facea macello" (XX, 95); alla salatura delle carni: "a ccomprì la salata" [a terminare la salata, cioè la strage] (X, 59), "Via su corrimmo mo a Gierosalemme / a fare na salata de Salemme") (I, 27); all’uso del lardo: "scotenata" (con questo termine si indicava a Solofra il togliere la cotenna dalla pancia del maiale con cui si ungeva la pelle) (I, 68), "comme lardo a ssole" (XIII, 61), "e fa tanto de lardo" (I, 86).

11. Si citano il dispregiativo: "guarda vuoje" ("guarda buoi", così erano indicati gli armentieri) (V,19), il proverbio: "ca la vacca è la nosta" (III,70) e le espressioni: "janca cchiù de joncata" (il Fasano spiega che "joncata" è "latte rappreso senza salare" e aggiunge che è detta così perché si pone tra i giunchi mentre se è posta tra le felci è detta "felciata", che sono attività, anche nei termini, caratteristiche solofrane) (IV, 24), "po comm’a ccrapie dero duie sbalanze / quanno vanno nnammore a pprimmavera" (VI, 40).

12. Vale citarne alcune espressioni: "llà nterra", "Michelasso" (XV, 63), "lassa fa a Cola" (II,46), "vale na rapesta" (II, 74), "chisto a cchiù dd’uno romparrà li cuorne" (III, 60) "a ffa li marcanciuni" (II, 79); e i proverbi: "o maccherone mio saltami in ganna", "ncagno de fico, haverraie molegnane" (II,69) "De casa e ppoteca se nce mette" (VI, 27), "Vanno a la spaccatrammola le ccose" (I, 31).

 

 

6. La decadenza della famiglia. Gabriele Fasano può considerarsi l’ultimo rappresentante di questa famiglia, che dopo di lui sarà insignita da Ignazio Fasano, Abate in Andria e poi a Montecassino e da Filippo che prese parte attiva nella lotta condotta dall’intera comunità, tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII contro il potere feudale.

Dice una testimonianza coeva che la famiglia Fasano patì "molti travagli nelle liti avute contro il comune Padrone del feudo Don Domenico Orsino Padre dell’odierno Principe Don Filippo" e cadde in disgrazia "per il che li Maggiori del Reggimento della Universita di detta terra in ossequio della sua fedele attenzione hobbligorno la medesima Universita a contribuire ai suoi figli [di Filippo], per 10 anni, ducati 36 l’anno di provvisione in vigore di pubblica conclusione fatta nel solito Archivio dalli Maggiori del Regimento e Consiglio delli Trenta della medesima Universita". Da questo momento la famiglia cadde in "bassissimo stato rispetto alli tempi passati" visse di pochi beni e dell’arte del battiloro, nè potette più avvalersi dei privilegi poiché si "bruggiò lo studio di Paulo Fasano", restando in possesso solo del beneficio di S. Filippo e Giacomo con sepoltura nella Collegiata1.

I Fasano nel 1722, secondo la testimonianza coeva a cui si è attinto, erano solo 20 persone distribuite in 4 fuochi impegnati nell’attività del battiloro, mentre il Catasto onciario del 1754 censisce un solo fuoco con nove membri impegnati nella medesima attività.

Continuò di questa famiglia il ramo napoletano, che però non riconobbe più l’origine solofrana del ceppo forse proprio per la cattiva sorte toccata alla famiglia solofrana e del quale si conosce Tommaso Fasano, professore all’Università di Napoli.

 

1. V. Grassi, Notamenti..., p. 142. La testimonianza è coeva ai fatti narrati.

 

 

 

 

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