per lo sviluppo spirituale dell’uomo
di Hans KÜng
La fiducia di fondo è la pietra angolare di una personalità sana: un
atteggiamento verso se stessi e il mondo risalente alle esperienze del primo
anno di vita. La pietra angolare
di una personalità sana La fiducia nella
vita non «esiste» di per sé, si apprende. Erik Erikson e altri psicologi dello sviluppo hanno fatto
ricerche al riguardo stabilendo che il bambino impara letteralmente al seno
della madre ad avere fiducia nella vita. L’acquisizione della fiducia di fondo ha un’importanza vitale per un sano sviluppo
psicofisico del bambino durante l’infanzia. Se un bambino subisce dei danni -
causati da disturbi psicologici, dalla sottrazione della persona di
riferimento o da deficit emozionali provocati dal fatto che chi lo accudisce
non ha interesse nei suoi confronti o è troppo occupato (è il fenomeno dell’ospitalismo) - gia durante l’allattamento, la fiducia di fondo può addirittura non nascere. Per Erik Erikson il primo stadio dello
sviluppo del bambino (più o meno il primo anno di
vita) corrisponde esattamente allo stadio della fiducia di fondo. Ricerche ulteriori hanno
dimostrato che la madre (o una figura sostitutiva corrispondente) costituisce
addirittura la base di fiducia che permette al bambino di esplorare tutte gli
altri aspetti e situazioni del mondo circostante. Non è necessario avere cinque
sorelle e un fratello minori, com’è capitato a me, per poter osservare che un
bambino, quando e in grado di esplorare il mondo a gattoni
ed entrare in relazione con altre persone, cerca sempre il contatto visivo
con la madre e comincia a piangere non appena lo perde. E come, nel corso del
secondo anno di vita, quando è ormai in grado di muoversi al di fuori del
campo visivo della madre, torni sempre e comunque da
lei e, se questo non accade, mostri l’angoscia della separazione. Il bambino,
quindi, aprendosi fiduciosamente alla madre - mediante un lento distacco da
lei - si apre anche alle altre persone, alle cose, al mondo. Le nuove ricerche
sottolineano ancora l’importanza di questo primo
legame per lo sviluppo di un Io forte. Quanto più un bambino ha un legame
insicuro con la madre tanto più è bloccato nel
costruire relazioni con gli altri, perché è completamente impegnato a
stabilire almeno un rapporto sicuro con la madre. E
al contrario: dalla fiducia verso la madre (o una
figura sostitutiva), attraverso un processo complesso - non mi addentro qui
ad analizzare il ruolo del padre né in altri aspetti e entrano in gioco -, si
forma la fiducia di fondo del bambino, quella fiducia ingenua e senza
riserve, che gli permette di avere un equilibrio nella vita, un equilibrio
che tuttavia è sempre minacciato e costantemente messo alla prova. E io? La fiducia nella
vita sul banco di prova Io faccio parte
della folta schiera di persone che, grazie a un rapporto
sano, anche se per nulla privo di problemi, con la madre, il padre e le altre
figure di riferimento, hanno sviluppato una forte fiducia nella vita. Anche la mia fiducia tuttavia è stata costantemente messa
alla prova dalla vita stessa. Fin dall’inizio noi esseri umani non impariamo
solo attraverso l’educazione, bensì anche dall’esperienza e spesso dalla sofferenza
personale. «Il bambino che si è scottato ha paura del fuoco» dice un vecchio
proverbio della mia terra. Nel mio caso,
quella che probabilmente è la prima esperienza relativa al
corpo è legata a un ricordo ben preciso: a tre o quattro anni infilai
l’indice sinistro in un’affettatrice per togliere una briciola di pane rimasta
incastrata. Nel farlo girai con la mano destra la manovella e la lama mi tranciò di netto unghia e punta del dito. Un eccellente
medico di famiglia riuscì già allora, prelevando un pezzetto di pelle dalla
gamba di mio padre, a riattaccarmi la punta del dito, tanto che oggi non si nota quasi la differenza. Anche il primo morto è rimasto
impresso per sempre nella mia memoria. Fu mia nonna, deceduta in un tragico
incidente d’auto (al volante c’era mio nonno) quando
avevo sei anni. Giaceva là, pallida, immobile e bella; solo un puntino rosso
sulla fronte ricordava l’incidente. Mi dissero che
era «in cielo»... Ma queste e altre esperienze non hanno lasciato alcun segno
di trauma psichico in me e non riuscirono a scuotere la mia fiducia nella
vita. A causa di molte
esperienze personali sono quindi cauto - pur attribuendo grande
valore alla psicoterapia - rispetto a quegli psicanalisti che vogliono
ricondurre a tutti costi a un trauma infantile i troppi problemi della vita
adulta. Naturalmente so che si può andare incontro a gravi crisi di fiducia
già in età precoce e che le probabilità di viverne una aumentano
con il trascorrere del tempo: per via degli insuccessi a scuola, nel prosieguo
degli studi e nelle relazioni personali. Poi di fronte a
un futuro senza prospettive, alla disoccupazione, a un’amicizia tradita e
alla prima grande delusione d’amore. Infine per il
fallimento nella professione, la perdita della salute, il peso spesso
insopportabile dell’esistenza... Così, per chi
prima per chi poi, dalla fiducia senza riserve, incondizionata
e istintiva del bambino all’inizio totalmente dipendente dalla madre,
attraverso le crisi dell’esistenza, deve formarsi una fiducia di fondo matura
e responsabile: la fiducia critica e ponderata dell’adulto, divenuto
indipendente, nei confronti della realtà del mondo e degli uomini, realtà che
è difficile da comprendere. Un’autentica fiducia in se
stessi e il presupposto di una personalità forte ed empatica.
E con il passare del tempo è sempre meno possibile
evitare una consapevole e fondamentale decisione sul modo in cui porsi di
fronte alla vita, ai propri simili, al mondo, alla realtà. Senza una fiducia di fondo matura, senza una fiducia nella vita, difficilmente
si riescono a superare le crisi esistenziali. Una base
filosofica apparentemente sicura Vent’anni prima di leggere per la
prima volta Erik Erikson,
quando studiavo teologia a Roma al Pontificium Collegium Germanicum diretto
dai gesuiti, mi preoccupavo già della questione di arrivare a un punto fermo, di conquistare una prospettiva sicura e
una solida base di conoscenze. Seguii per sei semestri il corso di filosofia
con una storia della filosofia che includeva un’eccellente introduzione al pensiero
di Kant e Hegel, concludendo i miei studi con una tesi sull’esistenzialismo
di Jean-Paul Sartre
inteso come umanesimo, un tema alla moda negli anni Cinquanta. A Roma ho
imparato quello a cui non rinuncerei mai ancora
oggi: la chiarezza latina, la precisione terminologica, l’argomentazione coerente
in se stessa e soprattutto la severa disciplina nel lavoro. Cosi, trascorsi
tre anni, ero convintissimo di aver raggiunto un
punto fermo, una prospettiva per guardare alla vita, una base scientifica assolutamente
certa su cui intraprendere il mio percorso esistenziale, che potevo sempre giustificare
razionalmente. Mi ricordo
ancora bene che, dopo la tesi, dal Pontificium Collegium Germanicum sali a fare una passeggiata fino al Pincio, il più grande parco di Roma, insieme a un amico
svizzero. Ci sembrava straordinario esserci guadagnati, abbastanza
faticosamente, un fondamento filosofico chiaro e del tutto razionale per la
teologia: una base naturale di evidenti principi
dell’essere e di deduzioni derivate con rigore sistematico. Su questa base
naturale fatta di ragione e filosofia dovevamo ora
costruire, con la stessa accuratezza, la sovrastruttura della fede e della
teologia. Così avremmo avuto la preparazione necessaria per affrontare la
vita: per avere rapporti con noi e con gli altri, per il lavoro, per comprendere
il mondo, per organizzare il nostro tempo. Lo pensavamo. Ma
proprio questo razionali. Questa «philosophia perennis» neoscolastica, mi chiedevo sempre più in preda
al dubbio, era davvero un supporto sicuro, una base portante? I miei dubbi Non ero mai
arrivato a chiarire bene un ultimo dubbio, un dubbio che in un primo tempo
non avevo preso nemmeno seriamente in considerazione.
I dubbi fanno parte del ragionamento. Ce ne sono di stupidi o superficiali,
che si risolvono facilmente mformandosi. Ma ci sono dubbi intelligenti, che s’insinuano nel profondo
della mente e si assestano dentro di noi. Già quando studiavo a Roma mi
divenne chiaro che non sarei mai potuto diventare mite ed «equilibrato» come
un nostro esemplare compagno, il prefetto della classe, destinato, proprio
grazie a queste qualità, a diventare il vescovo di vedute assai limitate di
una grossa diocesi tedesca. Sul piano
intellettuale tutto mi appariva di una chiarezza cristallina, ma su quello esistenziale resta va in me un’incertezza
repressa, che si manifestò con insistenza anche durante il primo semestre di
teologia, facendomi dubitare del fatto che in fondo tutto fosse evidente,
valutabile e dimostrabile: è davvero così chiaro, così evidente che la mia
vita ha un senso? Perché io sono così come sono? Ho
debolezze e commetto errori che non posso semplicemente desiderare che non ci
siano. Perché mi devo accettare così come, il sono,
con i miei lati positivi e negativi? Avevo difficoltà ad accettare me stesso sulla base di argomenti razionali. E che cosa voglio davvero? Che senso ha la mia libertà? Perché
non è indirizzata verso il bene e basta? Che cosa
muove le mie azioni? Perché è possibile la colpa? E
la possibilità di fallire, di sbagliare, di rendersi colpevole, non ricadono
su colui che ha voluto gli uomini così, in modo che
io sia libero da questo peso? Anche affermare la mia libertà e la sua estrema
ambivalenza mi sembrava impossibile sulla base di
una visione puramente razionale. Di fronte a
queste domande assillanti, di fronte a un metodico
esame di coscienza, anche quotidiano, i principi dell’essere della metafisica
greco-tomistica, e la loro apparente evidenza, mi
erano di scarso aiuto: l’Essere è Essere e non Non-Essere. Ma l’Essere è davvero non
Non-Essere? Ogni ente in quanto tale ha come proprietà
l’identità, la verità e la bontà. Ma l’ente
non è spesso contraddittorio, non vero, non buono? Come si giudica il male
presente nel mondo? Nell’epoca del
nichilismo e dell’esistenzialismo, i principi classici dell’Essere potevano
anche essere contestati rimandando al dualismo, alla caducità, alla
decadenza, all’abbandono, alla nullità dell’esistenza umana. Jean-Paul Sartre, che
comprendeva il proprio esistenzialismo come un umanesimo, non ha forse descritto
l’uomo come un trou d’etre, un
«buco d’essere» che deve progettarsi da sé? E Nietzsche non ha insistito sul «sospetto», la diffidenza,
la sfiducia verso tutto ciò che è e dovrebbe essere
vero e buono, e, soprattutto, verso ogni forma di metafisica? Crisi
esistenziali Io, comunque, mi sono sempre sentito una persona piena di
contrasti e contraddizioni sotto molti aspetti, molto lontana dalla
perfezione desiderata. Non l’uomo ideale, ma un uomo con i suoi alti e bassi,
i lati positivi e negativi, con tutto quello che Carl Gustav Jung
chiama «ombra» della persona, quello appunto che l’uomo invece di elaborare
allontana da sè, reprime, rimuove. E molti, in cuor loro, non vorrebbero essere diversi? Un
po’ meno intelligenti, ricchi, belli? Spesso si accetta più facilmente il
mondo che se stessi, come si è o ci hanno fatto diventare gli altri. «Ma le cose semplici sono sempre le più difficili» dice Jung. «L’arte di essere semplici
è la più elevata, così come accettare sé stessi è l’essenza del problema
morale e il nocciolo di un’intera Weltanschauung». Non sono un
rappresentante del pessimismo esistenziale, uno che presuppone che ogni
azione sia destinata al fallimento; nella vita ci sono anche i successi, i
progressi, i doni, la fortuna. Ma perfino alle persone di maggior successo
non vengono risparmiate le crisi esistenziali, che
mettono m dubbio ogni cosa. Può capitare da giovani. O in piena crisi di
mezza età; di fronte a una malattia mortale, da cui
si può essere colpiti in ogni momento, di fronte a un insuccesso
professionale, a una depressione che insorge al momento del pensionamento o
ancora più avanti negli anni. Che cosa succede quando
una persona ha raggiunto tutto ciò che poteva raggiungere e non ha più traguardi
da conseguire? Quello che provai quando ero ancora studente lo vidi descritto con
precisione dieci anni più tardi da un teologo cattolico che insegnava a Tubinga un buon decennio prima che ci arrivassi io, pure
lui al di fuori di una facoltà teologica. Si trattava di Romano Guardini, nel libro Accettare
se stessi, pubblicato nel 1960, l’anno in cui io venni
chiamato a Tubinga: «Il compito può diventare molto
pesante. C’è la ribellione contro il dover essere se stessi: perchè mai
dovrei esserlo? Ho forse chiesto io di esserlo?...
Si ha la sensazione che non valga più la pena di essere se stessi: che cosa infatti
ne ricavo? Sono noioso a me stesso. Sono antipatico a me stesso. Non riesco
più a sopportarmi... Si ha la sensazione di essere ingannati sul proprio
conto, di essere prigionieri di se stessi: Io sono
soltanto questo, invece vorrei essere di più. Ho soltanto queste qualità, e
invece vorrei averne di maggiori, di più brillanti.
Devo fare sempre le stesse cose. Mi scontro sempre con i
miei ben noti limiti. Commetto continuamente gli stessi sbagli e
sperimento gli stessi fallimenti... Da tutto ciò non
può che nascere un’infinita monotonia; una nausea terribile». Ma il grande
interrogativo a cui dovevo rispondere era: come
posso giungere a un atteggiamento di fondo positivo, di fronte alla realtà
incerta e ambivalente del mondo e di me stesso, senza cadere
nell’irrazionalità? Una decisione
esistenziale rimandata Ci sono persone
che si portano dietro un dubbio esistenziale, un dubbio
che riguarda la loro esistenza umana, per anni, senza poterlo o volerlo
risolvere Sono anch’io così. A questo proposito mi viene in mente Martin Walser, mio coetaneo
come Gunter Grass, uno
degli scrittori più intensi ed eloquenti del presente. Ho parlato con lui una
sola volta, una breve e amichevole conversazione durante una pausa di uno
spettacolo al Festival di Bayreuth. Gli chiesi se
non era ora di riprendere il tema della religione in
un romanzo. Mi rispose che in realtà ci stava pensando, ma non era ancora giunto il momento di affrontarlo. Adesso
abbiamo ottant’anni. E Martin
Walser nel suo ultimo romanzo racconta di Goethe che a settantaquattro anni viene
preso da una violenta passione per una donna molto più giovane, passione che
naufraga ai confini con il ridicolo. E una storia in
cui Martin Walser si
rispecchia? Che abbia rimandato in via definitiva Il mio
interrogativo di fondo allora non riguardava la
religione bensì il mio atteggiamento verso la vita. Come posso arrivare ad
assumere un atteggiamento costruttivo nei confronti della vita, che comprenda tutta l’esperienza, il comportamento, l’agire
dell’essere umano, se la realtà piena di incertezze del mondo e di me stesso
non s’impone, nella sua conformità al senso e ai valori, necessariamente e
con evidenza per quello che è? Come posso arrivare a
un punto fermo, a una prospettiva certa e far sì che la mia vita abbia un
buon esito? E’ evidente che
questa domanda fondamentale riguarda la mia presa di
posizione libera e proprio per questo responsabile. Io non sono né del
tutto programmato in anticipo dal mio patrimonio genetico o dal mio inconscio né completamente condizionato dal mio
ambiente. Sono, pur entro certi limiti, libero. Malgrado tutti gli argomenti addotti dagli esperti in
fisiologia cerebrale, io non sono né un animale e un robot. Nei limiti dei caratteri
ereditari e dei condizionamenti ambientali sono libero
nel senso dell’auto determinazione e dell’autoresponsabilità.
Tale liberta di scelta e di decisione, lo ammetto, non la posso dimostrare su
basi teoriche. Ma ne posso fare continuamente esperienza
nella pratica, quando voglio: adesso posso tacere - no, voglio parlare -, o
sarebbe meglio tacere? Potrei fare anche altro. Adesso faccio altro. Un’esperienza che non riguarda solo l’azione, ma anche il non fare,
il lasciare che le cose accadano. Purtroppo non solo i traguardi
raggiunti, ma anche i fallimenti. Posso prendere
decisioni diverse già nelle piccole questioni della realtà quotidiana. Ma
posso farlo anche quando sono in gioco gli interrogativi fondamentali
dell’esistenza, in particolare quello del mio atteggiamento nei confronti
della vita. E vero che posso sottrarmi a tale interrogativo,
rinviarlo, rimuoverlo, che posso vivere alla giornata, evitare determinate conseguenze.
Psicologicamente, ci sono molte possibilità, ma dal punto di vista filosofico
esiste solo l’alternativa di fondo tra una opzione
positiva e una negativa. E io ho sperimentato sulla mia persona come sia utile riflettere con attenzione su queste due
possibilità di porsi nei confronti della vita, che si presentano con
assillante insistenza nelle crisi esistenziali. E possibile optare per una sostanziale sfiducia nella vita: posso, in
modo più o meno consapevole, dire di no alla presenza di un senso nella mia
vita, alla realtà in generale. L’alternativa
nichilista, nella sua forma filosofica di riduzione a nulla di ogni significato
o nel suo aspetto pratico del «non fa nessuna differenza» (per evitare termini
scurrili), trova sempre e comunque sufficienti elementi negativi per dedurre
l’assurdità, il travaglio interiore, il vuoto, la mancanza di senso e di
valori dell’esistenza. Le persone che provano questa sfiducia di fondo non sono mai soddisfatte e propagano un’atmosfera
di scontentezza, lamentele, cinismo, anche intorno a sè. E possibile però anche
scegliere una sostanziale fiducia nella vita: posso dire consapevolmente di
sì alla presenza di un senso nella mia vita nonostante tutta l’insensatezza
che la caratterizza; posso dire di sì alla realtà in generale, nonostante le
sue incertezze, la sua bassezza, la sua nullità. È vero che, di fronte al pericolo
evidente di una delusione, alla possibilità, sempre in agguato, di un fallimento,
questo sì è un rischio. Naturalmente voglio che la mia vita abbia un buon
esito, voglio vedere chiaro in me stesso, essere contento di me malgrado le mie debolezze e i miei errori. Non voglio una
vita sbagliata, ma una vita riuscita: ma che cosa mi aiuta a
ottenerla? Una teologia di
scarso aiuto Già da studente
esigevo dunque una risposta chiara: perché devo dire fondamentalmente di sì
alla vita, senza riserve? I miei docenti romani mi aiutarono a mettere a
fuoco il problema, ma la soluzione dovevo trovarla io. Mi ricordo benissimo
di aver messo in imbarazzo anche il mio primo maestro di esercizi
spirituali con questa domanda. Mi rimandò a Dio. Ma gli interrogativi riguardanti la mia prospettiva, il senso della mia vita,
la mia libertà, la realtà in generale mi sembravano più fondamentali, più urgenti
della questione di Dio, su cui a logica sarebbe da riflettere in seconda
battuta. Rispose con la
classica frase che non lascia scampo: un’insistenza
simile è in fondo e una ribellione contro Dio. Cosa
dovevo dire? Presi commiato in silenzio, insoddisfatto: come facevo a credere
in Dio se non riuscivo nemmeno ad accettare me stesso? Dovevo
appunto «credere», mi sentivo dire. Ma
d’altra parte, “credere”, s insegna alla Pontificia Universita
Gregoriana, riguarda solo il livello «più alto», quello delle verità della rivelazione
cristiana ( Durante i miei
ultimi anni romani feci anche un’altra esperienza: anche la teologia
protestante, che parai a conoscere e ammirare allora attraverso la
monumentale opera di Karl Barth,
si trovava in imbarazzo al riguardo. Per dare una risposta a questo interrogativo fondamentale mi devo fidare fin
dall’inizio di Dio? Basta solo leggere Se lo chiedono anche molti
cristiani protestanti: davvero tutti questi non cristiani non possono trovare
un punto fermo nella loro vita, una prospettiva certa, non possono arrivare
ad avere fiducia nella vita? La fede nel Dio cristiano non è il presupposto di ogni sì alla vita e di ogni etica costruita su di esso?
Sono interrogativi d’importanza cruciale sui quali anche la teologia
evangelica si dibatte ancora oggi. Il destino dei
«non credenti» Mentre all’Università Pontificia
studiavo con diligenza, trattato su trattato, la teologia neoscolastica,
tutte tesi che quarant’anni dopo sono confluite in
maniera sostanziale nel Catechismo universale della Chiesa cattolica, ero
sempre più affascinato dal problema di dare una motivazione razionale
all’esistenza e alla «salvezza dei non credenti». Seguii un seminario, dal
titolo De salute infidelium
(Sulla salvezza dei non credenti), che mi offrì cospicuo materiale
sull’argomento, tutto derivante dalla tradizione cristiana. Alla fine tuttavia la mia insoddisfazione rimase: il seminario
non indicava alcuna soluzione convincente riguardo alla salvezza dei non
cristiani e il raggiungimento da parte loro di un punto fermo, di una prospettiva
di vita. Inoltre ci sono ancora oggi cristiani che - come monito ad assumersi
responsabilità chiamano in causa l’inferno. Un
inferno, ovvio, che vale esclusivamente per gli altri, quelli che stanno
«fuori», extra ecclesiam,
che credono in qualcos’altro o non credono affatto. Le religioni del
mondo erano solo un aspetto del problema dei «non credenti». Già nel 1933
feci un viaggio nel Nordafrica segnato
dall’impronta dell’Islam, e pochi anni dopo ne feci uno intorno al mondo. Incontrai
innumerevoli persone dal colore della pelle, cultura e religione più
disparate. Tutte escluse dalla salvezza, tutte destinate
all’inferno? Ma nella prima lettera a Timoteo si
legge che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (2,4). C’è poi un
altro aspetto del problema dei «non credenti»: il numero crescente dei non
cristiani in Europa, anche nel mio ambiente, all’università, Mi sembra inaccettabile
che gli appartenenti ad altre religioni, oltre in primo ad atei e agnostici,
non abbiano alcun punto di vista fermo nella loro
vita, alcuna prospettiva esistenziale, che non possano arrivare ad avere
fiducia nella vita. Che la fede nel Dio cristiano sia il presupposto di ogni alla realtà e di ogni etica. Dell’ateismo e
dell’agnosticismo sentivamo parlare parecchio nel corso delle lezioni romane,
ma sempre in forma molto astratta. Anche dei filosofi moderni si parlava in modo staccato dai loro toccanti destini. Come
se un sistema spirituale ne avesse generato un altro
e questo, a sua volta, un terzo! Dietro gli interrogativi intellettuali dei
precursori dei filosofi laici moderni non c’erano forse questioni che riguardavano
la vita, anzi destini di vita? Ma il mio interrogativo sulla
motivazione consapevole e razionale dell’esistenza umana rimaneva ancora irrisolto.
Ebbi l’esperienza conclusiva a riguardo - un’altra volta negativa, in verità
-, durante la mia seconda e ultima vacanza nei sette anni trascorsi a Roma.
Fu una lunga conversazione avvenuta nel 1953. Stavo facendo un tirocinio di
qualche settimana a Berlino, nel quartiere Moabit,
parrocchia di St. Laurentius,
e discutevo spesso con un giovane artista che aveva più o
meno le stesse mie difficoltà a dare un senso alla vita. Ma tutta la mia formazione filosofica e i due anni di
teologia che nel frattempo avevo alle spalle, non mi mettevano in grado di
fornire una risposta convincente al mio interlocutore. Anche
le puntate nel campo dell’estetica servirono a poco. Di nuovo la domanda: come
arrivare a un punto fermo, come conquistare una
prospettiva? Alla fine presi una decisione: non mi
sarei più sottratto a questa domanda né l’avrei repressa; l’avrei affrontata
di petto. Un’esperienza
spirituale All’interno del Pontificium Collegium Germanicum c’era un «maestro spirituale» tenuto alla
stretta riservatezza: l’”assistente spirituale”. Io ebbi la fortuna di
imbattermi in una persona straordinaria:. Wilhelm Klein, un gesuita navigato che aveva viaggiato molto, con
una formazione filosofico-teologica di stampo
hegeliano. È morto nel 1998 all’età di centodue anni. Una delle sue
battute tipiche era che le tesi della Gregoriana sulla ragione e la
rivelazione erano «chiare come l’acqua», ma erano,
appunto, «solo acqua». Al mio ritorno dal Nord andai a cercare questo homo spiritualis. Ricevetti
naturalmente la risposta a cui ero preparato, quella a cui ero
diventato allergico da un pezzo e che avevo stabilito di attaccare con
diversi argomenti per estorcere finalmente una risposta che risolvesse il conflitto:
si doveva credere! Credere? Ma non era una risposta.
Io volevo sapere! All’improvviso
tuttavia - nel bel mezzo della conversazione - compresi. Come colpito da un
fulmine. Parlo malvolentieri di un’«illuminazione», preferisco definirla
un’esperienza spirituale; in ogni caso questa intuizione
non venne soio dal mio interlocutore e non fu
nemmeno il risultato del mio sforzo intellettuale. Forse venne da fuori,
dall’alto? «Credere»? E evidente che questo interrogativo fondamentale non
riguarda la fede nel sensp tradizionale cattolico,
ovvero l’accettazione intellettuale di verita di
fede soprannaturali, per la maggior parte sotto forma di dogmi. Ma non si tratta nemmeno della fede nel senso evangelico,
dell’accettazione (che giustifica) della grazia di Dio in Cristo. Forse c en trava la mia visione personale, ma questa domanda è più semplice, più
elementare, più basilare. Quando si parla di trovare consapevolmente una
motivazione dell’esistenza umana, la domanda s’impone ai cristiani e non
ancora «prima» di ogni lettura della Bibbia: come
posso arrivare a un punto fermo, conquistare una prospettiva certa? Come
posso accettare me stesso con tutti i miei lati oscuri? Come posso accettare
la mia libertà anche di fare il male? Come dire di sì alla presenza di un
senso nella vita nonostante tutte le sue insensatezze? Come dire di sì alla
realtà del mondo e dell’uomo, così com’è, nella sua enigmaticità e
contraddittorietà? Cos’è che mi si
chiarì all’improvviso? Che con questo interrogativo esistenziale
mi si chiedeva di assumermi un rischio elementare: il rischio di avere
fiducia. Che sfida: rischiare un sì! Invece della
diffidenza profonda del nichilismo o del cinismo, mi
si chiedeva di rischiare la fiducia di fondo in questa vita, in questa
realtà. Anziché provare una sfiducia profonda nella vita, rischia la fiducia:
una fiducia di fondo nei confronti di te stesso,
degli altri, del mondo, della realtà in genere e di tutte le sue incertezze. Molti anni più
tardi ritrovai questo pensiero nel diario dell’allora segretario generale
delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjild.
Il giorno di Pentecoste del 1961, quattro mesi prima della sua morte durante
una missione di pace ai confini del Congo, annotava:
«Io non so chi - o che cosa - abbia posto la domanda.
Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure
se le ho dato una risposta. Ma
una volta ho risposto sì a qualcuno - o a qualcosa. Da quel momento è nata la
certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia
vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo che cosa significhi “non guardare
dietro di sé”, “non preoccuparsi del giorno seguente”» (Tracce di cammino,
1965), Nessuna paura
delle acque profonde Questa singolare
esperienza mi riempì di una gioia incommensurabile. Dire davvero di sì, osare
una fiducia di fondo, rischiare una fiducia nella
vita: cosi e solo così posso continuare il mio percorso nella vita, assumere
un atteggiamento di fondo positivo e andare avanti dritto. Quella fiducia
di base che avevo ricevuto da bambino, conservato durante la pubertà e
l’adolescenza e a cui non avevo mai rinunciato da studente, ora la facevo
consapevolmente mia. E la gioia incommensurabile che sentivo era simile a
quella che avevo provato da bambino quando,
nuotando, mi ero reso conto per la prima volta che l’acqua sosteneva davvero
il mio corpo, anche mio, che potevo fidarmi dell’acqua - senza assistenza e
sussidi - e che potevo abbandonarmi a essa completamente solo. Nessuna
teoria, nessuna osservazione fatta dalla riva,
nessun corso preparatorio fuori dall’acqua mi hanno mai trasmesso una tale
sensazione. Ora dovevo essere io a rischiare e lo avevo fatto: una fiducia
nella vita ben ponderata, quella di un uomo adulto e maturo. Si tratta, è ovvio, di una fiducia assolutamente critica. Mi
era chiaro già allora: questa fiducia non ha niente a che vedere con la
fiducia cieca nella vita o con l’ottimismo a buon mercato. La realtà, spesso
tanto triste, del mondo e di me stesso non era affatto
cambiata. Era cambiato solo il mio atteggiamento di fondo
nei suoi confronti.Il mondo non era «risanato», ma restava segnato come prima dalla contraddizione
e dal caos, minacciato dall’assurdità. E anche il mio io non
aveva affatto perduto i suoi lati oscuri, restava impenetrabile,
affidabile, minacciato dalla colpa, mortale. La mia libertà era come prima
capace di tutto, e anche quella dei miei simili. Posso capire
tuttavia che molti, pur capaci di nuotare, non riescano a superare la paura
dell’acqua: andare sotto, infatti, e sempre possibile. Gli insegnanti di
nuoto avvertono i genitori che danno lezioni ai figli piccoli di stare attenti: i bambini da uno a quattro anni non sanno ancora
valutare i pericoli. Devo ammettere che anch’io da ragazzino mi sentivo a disagio quando nuotavo da solo al largo nel lago
del mio paese, ancora di più quando il cielo era coperto: profondo quasi
novanta metri, nessuno poteva venire fin lì ad aiutarmi. Quando
si nuota in un bacino naturale, se non si vuole andare sotto, non ci si deve
fermare, ma bisogna muoversi, senza smettere, senza stancarsi, e raggiungere
l’altra sponda. E se si finisce in mezzo alla
nebbia, bisogna cercare di individuare il più presto possibile gli alberi
sulla riva e prenderli come punto di riferimento. La vita nel mondò non è come nuotare in una piscina ben protetta, dove
si può sempre toccare il fondo con i piedi e riposarsi. La vita ha i suoi
abissi e, specialmente in politica e in economia, è spesso simile a una vasca di pescecani. Anche chi aspira a una vita senza intoppi, una vita sicura sotto tutti i
punti di vista, prima o poi dovrà rendersi conto di persona che anche la sua
esistenza resta sempre insicura, fatta di alti e bassi, di opportunità e di
pericoli. Non bisogna strafare né essere pavidi. E bene farsi
un quadro realistico di se stessi e rinunciare a idealizzare la propria
persona pretendendo troppo da sé. Ma non è
irrazionale affidarsi all’acqua senza dimostrazioni, anche se si e sostenuti da molti esempi? No, io mi rendo conto
della razionalità di ciò che faccio proprio mentre
nuoto. Anche la mia fiducia nella vita non è affatto
irrazionale, non è affatto incontrollabile. Certo, la mia
prospettiva positiva per principio, il mio atteggiamento di fondo
antinichilista e costruttivo nei confronti della vita e della realtà in
generale, non si può dimostrare dall’esterno, «in maniera obiettiva». Non si
può dimostrare dapprima come evidente o razionale qualcosa che poi potrebbe
garantire la fondatezza della mia fiducia di fondo.
Un simile «punto archimedeo» del pensiero non esiste.
Perfino un pensatore critico come Karl Popper, il filosofo ed epistemologo austriaco naturalizzato
britannico, non può far altrimenti che porre la razionalità della ragione almeno
a presupposto del suo razionalismo critico: una «fede nella ragione», come
dice espressamente in Rivoluzione o riforme? (1971). I filosofi
razionalisti potranno ritenere irrazionale una simile fiducia nella ragione;
lo stesso Popper parla di una «decisione
irrazionale». Ma in questo modo rendono palese la
base irrazionale del loro razionalismo. Io non definirei affatto
irrazionale questo fidarsi della ragione, questa fiducia di fondo nei suoi
confronti. La fiducia nella ragione infatti non si
può dimostrare dall’inizio, ma diventa comprensibile nel suo esercizio:
mentre si usa la ragione, aprendosi alla realtà, dicendo di sì alla presenza
di un senso nella vita. Come altre esperienze fondamentali, per esempio
l’amore o la speranza, anche quella della fiducia di fondo
nella realtà non si può dimostrare a priori con una serie di ragionamenti
logici né solo dopo averne fatto esperienza. Non è né una premessa alla mia
decisione né sua conseguenza. Piuttosto, tale fiducia nella vita si rende
comprensibile attraverso l’esercizio della mia decisione nella vita di tutti
i giorni, si comprende che ha senso ed è ragionevole averla presa nel momento
esso in cui la si mette in atto. E vero che il no
nichilista, la cinica sfiducia originaria non vengono
scossi da argomenti di carattere razionale. Finiscono però per irretirsi in
contraddizioni sempre più profonde; l’opera, la vita e la decadenza
spirituale di Friedrich Nietzsche
lo hanno dimostrato in maniera toccante. Il sì fondamentale, invece, può
essere mantenuto con coerenza fino alla fine, malgrado
le difficoltà e gli impedimenti. L’ho compreso di persona. Può continuare a vivere
nonostante tutte le insidie e le delusioni, può conservarsi rimanendo fedeli
con costanza alla decisione presa. Una fiducia originaria
che si trasforma in una salda speranza contro la continua minaccia delle
ombre della frustrazione e della disperazione. Così si può esercitare
la virtù della perseveranza, della resistenza, della costanza, della tenacia. Fiducia nella
vita e fede religiosa La fiducia di fondo si può forse già chiamare «fede»? Io rispondo: si
può, ma non si dovrebbe. Ci sono stati filosofi, come il benemerito Karl Jaspers, che parlavano di
una «fede filosofica», senza fare però una distinzione chiara tra fede e
fiducia di fondo. Altri, al
contrario, hanno interpretato troppo in fretta la fiducia di fondo come
«fiducia originaria», caricandola di un significato teologico-mistico
(come per esempio lo psichiatra svizzero Balthasar Staehlin), a volte anche in chiave polemica antiliberale. Per amor di
chiarezza, fin dagli anni dell’università mi è sembrato importante distinguere
la fiducia di fondo dalla fede nel senso della fede
religiosa o di quella in Dio. Non volevo interpretare gli uomini dal punto di
vista teologico diversamente da come loro pensano di
essere: non volevo, come altri teologi, fare di Nietzsche
un credente in Dio e degli atei o degli agnostici dei cristiani nascosti,
«impliciti» o, come disse a suo tempo il teologo Karl
Rahner, «cristiani anonimi». Mi era chiaro fin
dall’inizio che soprattutto ebrei e musulmani non avrebbero
apprezzato questo tipo di «anonimizzazione
teologica» considerandolo un tentativo di monopolizzazione cristiana. Detto questo, il
rapporto tra fiducia di fondo e fede in Dio può essere
molto complesso. In base alle mie esperienze, confermate da Erik Erikson, si possono
distinguere tre gruppi di persone: - le persone che
mutuano la fiducia di fondo da una fede religiosa.
La motivazione religiosa le rende capaci di straordinario impegno, ma anche
di sopportare i rovesci della fortuna e di tenere duro nei momenti di crisi.
Sono credenti convinti e convincenti; - le persone che
si definiscono credenti ma non hanno alcuna fiducia
nella vita, negli altri, in se stesse. Tali persone si trovano in una situazione
precaria. Arrivano a toccare il cielo ma non trovano
nessun autentico appoggio stabile su questa terra. Sono
fuori della realtà, visionari religiosi ed entusiasti, non hanno i
piedi per terra; - le persone, infine, che hanno fiducia nella vita pur non
possedendo una fede religiosa. Non si può contestare
che queste persone, legate alla terra, sono potenzialmente in grado di
sopravvivere perfino meglio di determinati credenti. Attingono la loro fiducia
di fondo dalle relazioni umane, dal lavoro,
dall’attività politica o scientifica, da un’etica umana. Ed ecco la mia
conclusione: anche gli atei e gli agnostici sulla base della loro fiducia di fondo possono condurre una vita autenticamente umana,
cioè una vita degna dell’uomo e in questo senso morale. In altre parole
l’ateismo non sfocia necessariamente nel nichilismo questo punto devo
contraddire Dostoevskij: non è vero che se Dio non
esiste, tutto è permesso. La fiducia anche come base della scienza, della politica e
dell’economia Divenni sempre
più consapevole del fatto che la fiducia di fondo
non determina solo la prima fase dello sviluppo della persona, ma rimane per
tutta la vita pietra angolare di una personalità sana dal punto vista psichico,
a cui fa da contrappunto, essa pure per l’intera durata dell’esistenza, la
sfiducia di fondo. Si tratta sempre e ovunque, per riprendere le parole dello
psicanalista e psicoterapeuta Horst-Eberhard Richter, di «resistere» invece di «fuggire», e questo
vale in particolare in una società altamente complessa
come la nostra. La fiducia di fondo è di conseguenza
fondamento del senso di identità, che deve tuttavia affermarsi in modi sempre
nuovi attraverso tutti i conflitti sociali e psicologici. La fiducia di fondo resta pertanto il compito di una vita, bisogna
continuamente riceverla in dono. La fiducia di fondo non è importante solo per la vita del singolo individuo,
ma anche per quella della società. Trent’anni fa
nel mio libro Dio esiste? scrissi un lungo capitolo sulla «fiducia di fondo», senza
destare grande interesse nella cricca di teologi e filosofi: già allora
parlavo della fiducia di fondo come base dell’etica e della scienza. In
seguito mi sono reso conto sempre più di come la fiducia abbia un importanza incalcolabile per la vita dell’intera
società, perfino per la politica e l’economia mondiali. Ci è voluta la crisi dell’economia
mondiale del 2008-2009, tuttavia, perché le persone provassero sulla propria
pelle che cosa può significare una carenza di fiducia. Ora possono valutare
anche la dimensione sociale della fiducia di fondo.
Il nucleo della crisi è la sfiducia tra le grandi banche, una sfiducia di cui
esse stesse hanno colpa, con tutte le conseguenze fatali che ne sono derivate
per le imprese in tutto il mondo, per i proprietari di abitazioni
e gli innumerevoli clienti privati. Oggi più che mai l’importanza fondamentale
della fiducia anche nell’ambito dell’attività economica è riconosciuta a
livello mondiale, anzi, in conseguenza della crisi economica si dice
all’improvviso che la fiducia è la valuta più importante dei mercati
finanziari sani, che è necessario avere «fiducia nel
sistema» nonostante le delusioni subite. Non esagero
assolutamente, quindi, se definisco la fiducia la base della convivenza
umana. Nelle imprese, oggi si sollecita una maggiore fiducia tra dirigenti e
collaboratori, tra colleghi e soci. I controlli non possono assolutamente
sostituire la fiducia; la competenza professionale e l’efficienza non possono
prendere il posto rispettivamente della forza di
carattere e del carattere stesso. Si cercano dirigenti capaci di creare fiducia:
solo questi sono in grado, in tempi difficili, di
legare all’azienda e motivare le persone che rivestono ruoli chiave, di
rafforzare la fiducia dei collaboratori nell’impresa e comunicare
l’orientamento aziendale per il presente e il futuro. Visto il dilagare della
carenza di fiducia, nel settore finanziario anche
consiglieri, rappresentanti, venditori e analisti devono darsi da fare per
riconquistare la fiducia perduta e coltivare la sincerità, il coraggio e la
moderazione. Nello stesso tempo, proprio nel sistema finanziario, la fiducia
esercitata in maniera ragionevole include un certo scetticismo e richiede una
valutazione razionale del rischio. La fiducia quindi non esclude il giudizio
del singolo individuo e non può nemmeno rendere superflue le norme nazionali
e sovranazionali stabilite per regolare i mercati
finanziari. Malgrado ciò è
sempre importantissimo essere consapevoli che nessuna istanza,
né statale né ecclesiastica, né un uomo di Stato né un papa hanno il diritto
di pretendere una fiducia incondizionata e completamente acritica. Vi faccio
un breve esempio: il 2 dicembre 1965, alla fine del concilio Vaticano II, quando
ero un giovane teologo, papa Paolo VI in udienza privata mi disse: «Deve
avere fiducia in me». Si poteva dire di no? «Io ho fiducia in lei, Santità,» risposi «ma non in tutti quelli che sono intorno a
lei». Una schiettezza inusuale all’interno della
curia, che fece trasalire il pontefice. Se, nello
spirito conciliare, avesse chiesto il mio servizio per una seria riforma
della curia, senz’altro non gli avrei rifiutato la mia fiducia. Ma l’assolutismo
del sistema romano, che ha origini nel Medioevo e a cui
Paolo VI, evidentemente in accordo con lo zoccolo duro della curia, non
voleva rinunciare, non meritò e non merita nemmeno oggi tale fiducia. Ora, quasi
cinque decenni dopo, volgendo indietro lo sguardo sono in grado di riconoscere
quale spiritualità ha importanza oggi. Malgrado la
fiducia nella vita si richiede anche la prudenza, una delle quattro virtù
cardinali: usare giudizio, un misto di fiducia e fondata riserva, nel caso
singolo anche scetticismo e sfiducia. Negare la fiducia in una situazione
specifica può essere decisivo per un percorso di vita. Viceversa bisogna
sempre dare una possibilità alle persone, alle cose, nella speranza di
ricevere la forza di sopportare i contraccolpi del destino e mantenere la
testa alta. Sul percorso di vita, sul senso e sul modello della vita varrà la
pena di riflettere ancora. Ma dovremo prima parlare
della gioia di vivere. (da Ciò che credo, pp, 13-38) |
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