La gioia di vivere

 

da Ciò che credo di Hans Kung

 

 

Non vado mai a dormire senza pensare che, per quanto io sia giovane, il giorno dopo potrei non esserci più - e di tutte le persone che mi conoscono nessuno potrà dire che io abbia un modo di fare imbronciato o triste - e ringrazio tutti i giorni il Signore per questa beatitudine, che auguro di cuore a tutti gli uomini. (Mozart)

 

 

 

 

Avere fiducia nella vita è bene, amare la vita è meglio. Questa è la vera gioia e non quella che si prova per le disgrazie altrui, che secondo un detto sarebbe la gioia più bella.

Nel 2009 qualcuno si è chiesto che rosa era preso agli inglesi, popolo notoriamente sobrio: su più di ottocento autobus comparve la scritta: «There’s probably no God», probabilmente non esiste nessun Dio. È facile comprender questa campagna se si conoscono gli antefatti: si trattava di una risposta a un precedente messaggio propagandistico, diffuso sugli stessi autobus da fondamentalisti religiosi, messaggio che prometteva ai non credenti la dannazione eterna tra le fiamme dell’inferno. La minaccia di una fine sgradevole, non priva di un certo piacere maligno, aveva lo scopo di guastare ai non credenti la gioia di vivere. E questo il motivo per cui quegli atei dichiarati hanno aggiunto alla loro negazione dell’esistenza di Dio la frase ironica: «Now stop worrying and enjoy your life», adesso smettetela di preoccuparvi e godetevi la vita.

Questa iniziativa di propaganda atea, estesasi poi anche ad altri Paesi, è sostenuta finanziariamente da uno dei protagonisti del «nuovo ateismo», il neurofisiologo britannico Richard Dawkins. Dopo aver condotto studi seri nel suo campo, nel 2006 Dawkins ha pubblicato un libro dal titolo L’illusione di Dio. La sua critica della religione, condotta in maniera poco seria, parziale e presuntuosa, che lascia molti punti non chiariti, avrebbe fatto sorridere colui che per primo, alla fine del XIX secolo, ha annunciato la «morte di Dio», Friedrich Nietzsche. I «nostri naturalisti e fisiologi» aveva ironizzato il filosofo «mancano di passione per tali argomenti, mancano di sofferenza» (L’Anticristo, VIII). Non possono capire che cosa significa aver perduto Dio. Al grido dell’«uomo folle» Cerco Dio! Cerco Dio! - prorompono in «grandi risate».

 

 

La «gaia scienza»

 

La parabola di Nietzsche che ha come protagonista l’«uomo folle» si trova nel suo libro La gaia scienza (III, n. 125). Il titolo si rifà a quella «gaia scienza» provenzale, quell’unità di cantore, cavaliere e spirito libero con la quale si danza al di sopra della morale (le Canzoni del principe Vogeifrei). Per Nietzsche è il passo decisivo verso una «guarigione» interiore ed esteriore, verso una nuova gioia di vivere, la gioia di vivere senza Dio.

Nel 2009, in occasione di una conferenza in Engadma, la valle svizzera a duemila metri di altezza, avevo una camera d’albergo che si affacciava sul lago di Sils. Guardando dalla finestra non potei fare a meno di pensare: qui, nel 1882, Nietzsche ha scritto quel lavoro in uno stato di euforia perché nel corso del suo primo soggiorno a Sils-Maria le sue condizioni di salute erano visibilmente migliorate. Come avrei potuto dimenticare la parabola dell’«uomo folle», che si apre proprio con tre potenti immagini di Dio, quando l’uomo folle grida: «Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi?». E poi, in seguito alla morte di Dio una cascata di domande: «Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!»?

Eppure, con la sua «gaia scienza» Nietzsche vuole solo rendere evidente che per il futuro degli uomini la morte di Dio significa una nuova sorta di luce e di felicità, di sollievo, di diletto, d’incoraggiamento, di aurora. L’orizzonte è di nuovo libero. Le nostre navi possono prendere il largo affrontando ogni pericolo, ogni impresa rischiosa per arrivare alla conoscenza è ancora permessa: il mare si stende ancora libero davanti a noi, forse più libero che mai.

Maggiore gioia di vivere senza Dio, quindi? Le conseguenze estreme della morte di Dio, tuttavia, si mostrano più come sgomento e offuscamento, proprio come si palesano nel destino personale di Nietzsche. Alla fine della vita, prima del crollo del 1889, chiese a Dio di ritornare, Dio che era per lui felicità e sofferenza nel contempo:

 

No! torna indietro!

Con tutte le tue torture!

Tutte le lacrime mie

corrono a te

e l’ultima fiamma del mio cuore

s’accende per te.

Oh torna indietro,

mio dio sconosciuto! dolore mio!

felicità mia ultima!.

(Ditirambi di Dioniso: Il lamento di Arianna)

 

Felicità - l’eterno anelito dell’uomo .- è la parola magica per eccellenza. Felicità: è questa l’autentica formula magica?

 

 

Un punto essenziale: sono felice?

 

With a littie bit of luck - per citare un famoso ritornello di My Fair Lady, ancor oggi uno dei miei musical preferiti: con un po’ di fortuna e di allegria si vive senza dubbio meglio che non sposando la cultura del pessimismo. Oggi, non dovremmo coltivare un po’ di più l’«ottimismo anglosassone» invece dell’Angst, «angoscia tedesca»? (Angst, una parola tipicamente tedesca, è passata tale e quale nell’inglese).

Si tratta tuttavia di due espressioni generalizzanti. Pérché «dacci oggi il nostro fallimento quotidiano» è una sorta di Padre Nostro presente anche nei mezzi di comunicazione statunitensi e inglesi. Viceversa, chi scrive sulle pagine d’intrattenimento dei giornali tedeschi diffonde benessere culturale. In realtà, una cosa mi ha sempre impressionato: il diritto alla ricerca della felicità (happiness) era già sancito a livello programmatico nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776. E non fu un tedesco, bensì un filosofo inglese, il riformatore sociale Jeremy Bentham, che già nel 1789 fondò il suo sistema morale e giuridico utilitarista, destinato ad avere una grande influenza, sul principio della «massima felicità per il massimo numero di persone». L’inglese (come già il latino) fa una distinzione netta fra la felicità (happiness, beatitudo) e la fortuna (luck,fortuna). Mentre in tedesco si usa la parola Gluck in entrambi i casi. Forse che da una serie di circostanze fortunate può derivare una vita felice?

Anche per me la felicità legata al momento è importante: un mattino che il sole illumina il paesaggio candido di neve, o se qualcuno mi ha detto una buona parola, ha avuto un gesto di amicizia nei miei confronti, oppure sono riuscito a procurare gioia a qualcuno. Una piccola felicità quotidiana. Ma nessuno può rendere duratura la grande felicità che scaturisce da un’esperienza eccezionale legata a una particolare circostanza: l’estasi della musica, uno spettacolo naturale sconvolgente, l’estasi amorosa. Gia il Faust di Goethe desiderava inutilmente che l’«attimo» si fermasse. «Resta, sei bello!» voleva dirgli. Ci vuole molto per essere felici e poco per fare esperienza dell’infelicità: «Bonum ex integra causa, malum ex quolibet defectu», «il bene procede solo da una causa perfetta, il male invece da qualunque difetto» imparai quand’ero studente a Roma. La neurobiologia della felicità m’insegna che nel mio cervello le informazioni più disparate possono produrre endorfine euforizzanti, ormoni della felicità, e suscitare sensazioni di gioia. Ma mi ammonisce nel contempo che l’abitudine provoca assuefazione e il nostro sistema di felicità biologico non è programmato sulla durata.

Per questo sono sempre scettico di fronte ai tentativi di procurarsi la felicità in maniera artificiale. Troppo spesso, e a torto, la ricerca della felicità prende una direzione politica, troppo spesso la si sfrutta a fini commerciali. Ma non si può giungere alla felicità dando retta alla pubblicità. Chi non è in grado di controllare i propri sensi non trova un appagamento che lo accompagni per tutta la vita. Il consumo di droghe - e cosa non può servire da droga oggigiorno! - produce certamente sensazioni di felicita momentanee, ma alla lunga fa sentire più tristi. Non esiste una droga per una vita felice e una gioia di vivere duratura.

Anche lo stipendio non accresce la felicità. È indubbio che avere milioni a disposizione tranquillizza, ma non rende automaticamente felici. L’avidità, il volere sempre di più - lo ha messo in evidenza la crisi economica - genera la febbre speculativa e porta a catastrofi personali, a perdite di miliardi e all’infelicità di massa.

Per ottenere una felicità che duri tutta la vita non è determinante la situazione finanziaria, ma lo sono l’atteggiamento e l’attività spirituale. Una vita - relativamente - felice in realtà esiste: è la felicita intesa non come euforia, bensì come stato d’animo di fondo, quella che passa indenne anche attraverso le circostanze sfortunate. E accettare ciò che riserva la vita senza tuttavia rassegnarsi sempre. Io non mi stanco di ammirare le persone costrette su una sedia a rotelle, che spesso mi sembrano più felici di quelle sane. Ammiro i genitori che trasmettono coraggio e gioia di vivere nonostante abbiano figli gravemente handicappati. Ammiro quelle donne e quegli uomini valorosi (cristiani e non) che ho avuto l’opportunità di conoscere negli slums di Nairobi, San Salvador e Chicago, dediti al servizio dei più poveri di questo mondo.

Sono felici tutti gli uomini in pace con se stessi malgrado le fatiche della vita di tutti i giorni, quelli contenti della loro esistenza, che non hanno perduto la serenità di cuore nelle angosce. Il motto della nostra società fissata sull’esperienza, «l’importante è essere felici», non e la mia massima di vita. Il godimento edonistico dei piaceri della vita è troppo spesso deludente, e anche il gaudente più scaltro finisce prima o poi in una situazione in cui il «divertimento» cessa e ogni piacere termina. La gioia di vivere duratura non si esprime nella frase «Sono felice», ma piuttosto in quella: «Sono in armonia, in pace con me stesso, sono contento». Questo atteggiamento non esclude gli alti e i bassi del nostro stato d’animo.

 

 

Una convivenza lieta

 

«Qual è stato il giorno più bello della sua vita? La sua felicità più grande?» Sono domande che mi fanno nelle interviste e a cui non rispondo mai. Dipende troppo dalla prospettiva, dalle circostanze, anche dall’età. Ho vissuto molti giorni felici. Ma per me le continue gioie della vita quotidiana sono altrettanto importanti dei giorni felici che passano in fretta.

Per il mio ottantesimo compleanno una delle mie corrispondenti mi comunicò cosa aveva notato di me quando era venuta a farmi visita: «Non mi era ancora capitato di incontrare una persona che riesce a essere contenta di tante cose come lei». Con tutta la buona volontà non riesco a ricordarmi che cosa mi ha reso felice nel corso di quella visita. Ma sono sicuro che è dipeso anche dalla mia interlocutrice: da come si comportava e da quello che mi raccontava. In realtà sono molte le cose che riescono a farmi contento. di tutto indubbiamente le persone, le donne e gli uomini, con cui vivo e senza le quali non potrei vivere e operare. Alcune di loro le ho citate per nome nei miei due volumi di memorie (e nel libro La donna nel cristianesimo) o spero di citarle espressamente nel terzo volume. Una convivenza lieta, nel complesso. Non sono nato per fare l’eremita. Naturalmente non posso avere lo stesso atteggiamento di amicizia con tutti quelli che incontro. Alcune persone ci piacciono, altre no, altre ancora ci lasciano indifferenti. Ma io non ho mai smesso di provare di persona quanto faccia bene a volte l’amicizia offerta da perfetti sconosciuti, quanto coraggio infonda la benevolenza e la gratitudine espressa nelle lettere. Così come un bambino ha bisogno della madre o di una persona sostituiva di riferimento per conquistare la fiducia in se stesso e nel mondo che non conosce, anche l’uomo adulto ha bisogno di altre figure per conservare e dimostrare la sua fiducia in un ambiente che non sempre è amichevole. Un’educazione basata sulla fiducia, che insegni il rispetto verso se stessi e la tolleranza, può essere importante per l’intera esistenza.

Per essere ancora più chiari: per trovarmi a mio agio nella realtà, ho bisogno di un Tu. Non solo un Es, un’altra cosa, un non-Io, ma un altro Io, capace di libertà, aiuto, bontà e comprensione, e che nel rapporto personale diventa un tu: che accetta e insieme dona fiducia. Senza la fiducia, la gioia della convivenza e della collaborazione non è possibile. Ciò vale, come illustrato nel capitolo precedente, per una vita professionale di successo e una politica efficiente, per l’operato di autorità, organizzazioni e istituzioni, e vale ancora di più in ambito personale: senza la fiducia non c’è amicizia, amore, cooperazione, matrimonio, non c e nemmeno la psicoterapia. Il calo di fiducia che si osserva molto frequentemente oggi non solo nei confronti di politici e di giornalisti, ma anche di manager, medici e sacerdoti - spesso provocato dal fallimento morale e dalla colpa dei singoli individui - ha effetti molto gravi. Di fronte alla fiducia delusa sono autorizzati i giudizi critici, ma non le condanne generalizzanti e quelle preventive. Proprio in Europa, la convivenza lieta di persone di diversa origine, nazione o religione è sempre più turbata e disturbata da giudizi sommari negativi, ripresi e diffusi da alcuni mezzi d’informazione. Quelli fra cattolici e protestanti, per fortuna, sono ormai superati. Ma così come un tempo molti pensavano: «Non mi fido degli ebrei», oggi si sente dire - ed è un’affermazione altrettanto insostenibile - «non mi fido affatto dei musulmani». Alcuni ebrei e musulmani pensano la stessa cosa dei cristiani. In India pensano cose simili alcuni indù dei musulmani, o nello Sri Lanka i buddhisti nazionalisti dei tamil, ma vale sempre anche l’opposto. I «credenti» di diversa provenienza appiccicano etichette spregiative ai «non credenti» o ai «credenti di fede diversa», agli atei, agli scettici e a chi è nel dubbio, e anche qui l’atteggiamento è reciproco, per non parlare delle note generalizzazioni politiche: «i» tedeschi, «gli» svizzeri, «gli» americani. L’esperienza mi ha insegnato invece che è vero il contrario: in tutte le nazioni, le religioni e le culture ho incontrato uomini e donne di cui fidarmi e con cui ho sempre potuto lavorare sulla base di un rapporto di fiducia.

 

 

Non ci si può fidare di tutti

 

Naturalmente non ci si può fidare di tutti. Di solito io sono pronto a concedere un certo anticipo di fiducia alla persone che incontro. Ma ci sono sempre quelle che forniscono un serio motivo per nutrire sfiducia nei loro confronti. Oltre a ciò, esiste un genere sgradevole di individui, presenti anche nel mondo della politica, della cultura e della scienza, anche se non sono sempre riconoscibili come tali. Ma il loro profumo «Egoiste» li tradisce. Nel migliore dei casi credono in se stessi e altrimenti letteralmente a niente (dal latino nihil). Non riconoscono alcun valore, norma, verità, ideale e vengono definiti «nichiisti» in riferimento al romanzo di Turgenev Padri e figli (1862) e a Friedrich Nietzsche.

Ora, io mi sono occupato molto del nichilismo di fondo e dei suoi riflessi filosofici e non, come si può leggere nel mio libro Dio esiste?. Friedrich Nietzsche ha visto il suo sorgere e affermarsi nel nostro tempo, ha visto questo specifico tipo umano con più chiaroveggenza di altri. Per il nichilista l’orizzonte dei sensi viene cancellato da un colpo di spugna, egli non conosce più valori assoluti, norme vincolanti, modelli attendibili. A ciò non ha trovato rimedio nemmeno la filosofia. Resto convinto che non esista argomento razionale in grado di costringere a cambiare modo di pensare chi crede che questa vita sia senza senso, che il mondo sarebbe governato dal caso, da un destino cieco, dal caos, dall’assurdità e dall’illusione, in breve che tutto sia, in fondo, privo di valore. Uno così non si può confutare con la teoria. Tuttavia, questa concezione nichilista non è nemmeno dimostrabile con la ragione. Potrebbe essere benissimo che questa vita umana non sia priva di senso, di valore, inutile, infelice. In altre parole: la scelta spetta all’individuo.

Nelle elezioni politiche, raramente si esprimerebbe la propria fiducia per un politico o una persona pubblica che si dichiarasse a favore di un fondamentale nichilismo con il pathos dello Zarathustra di Nietzsche. Piuttosto, oggi è molto più diffuso un nichilismo banale, pratico: vivere secondo la realtà, come se «niente» importasse, come se anything goes fintanto che a vivere ci si «diverte». Una «gaia scienza» o stile di vita superficiale.

Screditare o diffamare gli altri sono azioni molto lontane dal mio modo di essere. Ma non è necessario essere moralisti presuntuosi per preferire tenere le distanze dai rappresentanti di tale atteggiamento, e in particolare proprio quando questi si considerano cinici (dal greco kynikòs = da cane, senza vergogna). Non ho niente contro il cabaret politico spiritoso e divertente o la buona comicità e la sua sferzante ironia, la sua satira. Ma m’indigno di fronte a un cinismo che, proprio nell’ambito della lotta di potere politica ed economica, sottopone con malvagità intenzionale a una critica sprezzante, offensiva, anzi distruttiva chi la pensa diversamente, piegando ogni verità, valore e norma al proprio scopo. M’indigno con chi usa il sarcasmo (e ciò avviene soprattutto sulla stampa) come mezzo stilistico di discredito e diffamazione sistematici.

Nichilismo, cinismo, discredito e diffamazione sono atteggiamenti distruttivi nei confronti della vita e possono rovinare l’autentica gioia di vivere a se stessi e agli altri. Ci sono tuttavia esemplari sgradevoli della specie umana - penso alle mie esperienze in riunioni di docenti universitari - la cui presenza o meno cambia l’intera atmosfera della riunione. Si dovrebbe almeno augurare a questi nostri contemporanei per lo più lunatici e scontenti cronici, che rendono difficile la vita a sé e ai loro simili, di ricevere in dono un po’ più di autentica gioia di vivere.

 

 

La gioia di fronte alla natura

 

«Essere felici di molte cose» nel mio caso significa anche provare gioia di fronte alla natura: è un’attitudine che ho preso da mia madre; sento ancora il suono della sua voce: «Guarda, che bello...». Possono essere cose molto semplici. Non sono di certo in grado, come pretendono molti, di parlare con le piante («Stupidaggini» mi disse una volta un mio collega, noto botanico). Ma posso gioire davanti all’unica rosa del mio studio: quante varietà ne esistono, quanti colori e forme di petali! E osservo sempre con uguale meraviglia il ciliegio del Giappone rosa intenso che sboccia, fiorisce e appassisce davanti alla mia finestra.

In natura si trovano migliaia e migliaia di cose che possono procurare gioia alle persone, se queste lo vogliono. Ce ne sono di quelle, infatti, anche molto colte, che non sanno gioire della natura. Questi individui sono privi di un profondo senso della natura, come altri lo sono di un profondo senso per la musica o l’arte. Ci sono studiosi di letteratura che, indipendentemente da dove si trovino, vivono completamente immersi nei loro libri. O naturalisti che vedono il mondo solo attraverso le lenti della fisica, della chimica o della biologia, senza percepirne la bellezza e lo splendore. O persone che vivono immerse nel mondo dei propri affari. Altri ancora la cui vita gira esclusivamente intorno a moda, cosmesi e salute. Per tutti loro la natura, nel migliore dei casi, è un elemento al margine dell’esistenza. Non notano affatto tutto quello che succede nel suo ambito e quale inestimabile fonte d’arricchimento esistenziale sfugge loro.

Ho vissuto spesso nelle grandi città, dove la gente tutt’al più si può permettere qualche pianta d’appartamento, e la natura mi mancava molto. La natura e come il sole: una forza vitale per il benessere fisico e psichico. Dai tempi della mia gioventù lavoro il più possibile all’aria aperta. Capisco benissimo le persone che, se non hanno un giardino, ne coltivano uno sul balcone, e quelle che s’innamorano di un pezzetto di terra o di un paesaggio. Ogni giorno gioisco del panorama toccanti di cui godo qui a Tubinga, sebbene cambi a secondo delle condizioni atmosferiche, delle stagioni e dell’ora del giorno: l’Osterberg nel bel mezzo della città e il Giura svevo sullo sfondo. Lo stesso nella mia patria, la Svizzera: lo sguardo sulle Alpi e davanti, tra dolci colline, il lago di Sempach, la cui superficie obbedisce al più flebile alito di vento e rispecchia il cielo sovrastante mutando costantemente volto e atmosfere.

Ognuno ha, se le cerca, le proprie esperienze legate alla natura, che s’imprimono nel profondo della memoria. Ricorderò per tutta la vita la prima volta che, sciando sul monte Weissfluhjoch, a Davos, in una splendida e limpida giornata invernale, fui sopraffatto dalla vista che si apre a trecentossessanta gradi sulle innumerevoli vette alpine innevate e illuminate dal sole. «Bevete, oh occhi, quello che le ciglia trattengono dell’abbondanza dorata del mondo». Non sono certo l’unico a cui verrà in mente questo verso tratto dall’Abendlied di Gottfried Keller, il poeta nazionale svizzero.

Fui preso dalla stessa emozione anche quando m’immersi per la prima volta con le bombole di ossigeno, di fronte all’fle des Pins, nel Pacifico, per una lunga passeggiata sul fondo marino e, circondato da una luce innaturale verde-azzurra nuotai sulla barriera corallina, tra le sue gole, circondato dai pesci e da altri animali dalle forme bizzarre. So che molti possono dimenticare il tempo anche solo facendo snorkeling vicino a una scogliera.

Ma, vi prego, pur con tutta la gioia del contatto con la natura, niente esagerazioni. In determinate circostanze lo stesso paesaggio può incutere paura. Quando sull’oceano infuria l’uragano o il fohn soffia rombando sulle vette delle Alpi, quando la tempesta di neve ci fischia gelida sul viso o la nebbia ci avvolge durante la discesa sugli sci o finisce l’ossigeno durante un’immersione, la natura mostra il suo altro volto, quello minaccioso, anzi talvolta spaventoso. La natura, nelle sue piccole come nelle sue grandi manifestazioni, si può rivelare amica dell’uomo ma anche sua nemica. Per secoli e stata percepita come un nemico, dalle montagne fino al mare.

Chi parla della natura, tuttavia, non parla solo del paesaggio e della vegetazione, ma soprattutto degli animali.

 

 

E gli animali?

 

Purtroppo ci sono ancora oggi dei teologi che pensano che gli animali non abbiano nulla a che vedere con la fede; che basti ricordarli brevemente nella teologia della creazione. Già Albert Schweitzer, in Kultur und Ethik (Cultura ed etica), osservò che, come la casalinga che ha pulito la stanza si preoccupa che la porta sia chiusa affinché il cane non entri a rovinare il lavoro fatto lasciando dappertutto le impronte delle zampe, così i pensatori europei stanno attenti che nessun animale gironzoli nella loro etica.

Ma i tempi sono cambiati. Non penso solo alle eccellenti serie tv sugli animali selvaggi. Sono soprattutto due linee di pensiero ad aver contribuito in modo decisivo all’affermazione del movimento per la protezione degli animali, che nasce gia nel XIX secolo e oggi è presente a livello internazionale:

- la teoria dell’evoluzione, nel frattempo confermata dalla microbiologia, che ha studiato a fondo la parentela dell’uomo con gli animali, in particolare con i primati avanzati, sulla base del patrimonio genetico. I geni degli esseri umani si distinguono da quelli degli scimpanzè solo in circa l’un per cento degli elementi della catena del DNA (sono sempre trenta milioni dei tre miliardi di elementi costituivi del genoma);

- il principio della sostenibilità, che impone di avere un buon rapporto con la flora e la fauna e di non pensare solo alle proprie esigenze, ma di tener conto anche di quelle delle generazioni future. Oggi gode di crescente considerazione pure in ambito politico ed economico.

Ad alcune persone non piacciono gli animali. Io li amo, ma - per ragioni sia di tempo sia di spazio - non posso e non voglio permettermi animali domestici, a parte formiche, vespe e ragni occasionali. Conosco tuttavia non poche persone a cui un cane o un gatto, nonostante tutti i disagi, procurano una gioia quotidiana. Il cane: il migliore amico dell’uomo? Per le persone che sono sole, da ogni punto di vista, gli animali possono essere compagni di vita. E perché le persone non dovrebbero attribuire agli animali qualità personali, come affetto, fedeltà, sentimenti di simpatia, gioia e dolore? Le nuove ricerche lo confermano: gli animali evoluti possono effettivamente mostrare sentimenti in modo umano. Proprio così riescono a dare più qualità di vita agli uomini. E pedagoghi esperti fanno notare che gli animali domestici, che devono essere curati e assistiti, procurano alcuni vantaggi allo sviluppo dei bambini.

Io gioisco soprattutto nel guardare gli uccelli che volano e fischiettano liberi nei nostri dintorni, dove gli alberi abbondano. L’area protetta del lago del mio paese natio è un paradiso ornitologico. E quando nuoto osservo sempre con attenzione tutte le specie di animali acquatici, dal cigno allo svasso maggiore.

Gli amanti degli animali mi chiedono spesso se magari non proprio gli uccelli, ma i cani e i gatti, al termine della loro vita terrena non finiscano in una sorta di «paradiso degli animali». Non oso rispondere di sì, anzi ho dei dubbi sul fatto che, in un’epoca in cui, per ragioni di spazio, ci si batte a favore della cremazione a scapito della sepoltura, vengano creati sempre più cimiteri per animali. Ma ho delle riserve anche quando si contrappone l’animale, quale essere naturale in apparenza in contaminato, all’uomo, apparentemente falso m tutte le sue espressioni ed egoista. Gli animali sono davvero meglio degli uomini? Gli animali non sono uomini, in ogni caso.

D’altra parte, gli animali non sono semplici cose o una merce. L’uomo non può farne l’uso che vuole. Non sono affatto «macchine senz’anima» come dedusse all’inizio dell’età moderna il filosofo razionalista Cartesio, che separò il soggetto pensante dalla natura oggettiva. Una concezione i cui effetti nefasti si fanno sentire ancora. L’odierno allevamento intensivo, dove tutto è pianificato a partire dal macello, trasforma di fatto gli animali in macchine da produzione e fornitori di materia prima.

Diversamente da quanto credeva ancora Immanuel Kant, l’uomo ha delle responsabilità anche nei confronti degli animali, responsabilità che gli vietano di maltrattarli. Ma estendere la proibizione di uccidere anche al mondo degli animali e costringere l’umanità intera a nutrirsi solo di vegetali non credo abbia fondamento, e soprattutto sarebbe impossibile da realizzare nella pratica. Comunque è giusto che gli uomini, dove è possibile e necessario, proteggano e si prendano cura degli animali. Già ai bambini bisognerebbe insegnare a non far soffrire gli animali, soprattutto, a non maltrattare quelli domestici che sono loro affidati. Nell’era della protezione degli animali, noi pensiamo anche, molto diversamente da prima, al benessere di quelli domestici e del bestiame in genere, e desideriamo che l’allevamento tenga conto del benessere degli animali in riferimento a spazio vitale, cura, nutrizione e trasporto. Se un animale è destinato comunque a essere ucciso, che questo avvenga almeno nel modo più indolore e rapido possibile. Purtroppo nell’ambito dell’allevamento del bestiame siamo ancora molto lontani da uno stato definibile come soddisfacente.

In considerazione dei «limiti dello sviluppo» e della minaccia che incombe sulla sopravvivenza della specie umana, oggi è necessario non solo conoscere le scienze naturali, ma anche proteggere e prendersi cura della natura. Il versetto della Genesi (1,28), oggi molto spesso citato a sproposito, «Riempite la terra; soggiogatela» non si deve intendere come un’esortazione allo sfruttamento messo in atto con i moderni strumenti della scienza e della tecnica, ma va interpretato nello spirito della coltivazione dell’originario giardino dell’Eden. Invece dello sfruttamento dispotico della natura bisogna coltivare la comunione dell’uomo con essa.

L’economia di mercato eco-sociale richiede oggi una compensazione di economia ed ecologia. Le conoscenze in campo ambientale, che hanno avuto grande diffusione e popolarità nel corso della nostra generazione, non bastano. Da esse deve scaturire una responsabilità ambientale: un rapporto consapevole e responsabile con le risorse e le tecniche, a livello locale, nazionale e globale. Il tutto sostenuto da un’etica del «rispetto per ogni vita» secondo la definizione coniata dal già citato medico e teologo Albert Schweitzer e accolta nella Dichiarazione per un’etica mondiale del Parlamento delle religioni mondiali a Chicago nel 1993 . La Dichiarazione pone anche l’accento sulla particolare responsabilità nei confronti del pianeta terra e del cosmo, dell’aria, dell’acqua e del suolo.

Da allora la crisi dovuta al cambiamento climatico globale si rivela ogni anno che passa sempre più come una minaccia per l’umanità intera, soprattutto per i più poveri fra i poveri. Catastrofi naturali con conseguenze devastanti su milioni di persone: desertificazione e alluvioni, ghiacciai e poli che si sciolgono, isole e regioni costiere sommerse dalle acque... È necessario attivare con urgenza una politica climatica costruttiva e azioni dirette soprattutto per impedire l’aumento del riscaldamento della terra, come chiede tra l’altro il Global Humanitarian Forum di Ginevra, fondato dall’ex segretario generale dell’ONu Kofi Annan, di cui anch’io faccio parte.

In riferimento al nostro atteggiamento nei confronti della natura bisogna tuttavia fare un’ulteriore precisazione.

 

 

Non mistica della natura ma vicinanza alla natura

 

Nonostante tutta la gioia che provo per la natura, non posso avere un atteggiamento mistico nei suoi confronti. L’esperienza della natura non sostituisce quella di Dio. Io osservo, contemplo, rispetto e ammiro la natura, ma non credo in essa, conosco anche il suo lato oscuro. Non la trasformo in Dio, non voglio divinizzare tutte le cose, non sono un panteista.

Convinto dalle scienze naturali moderne, non perdo mai la consapevolezza che l’intera natura soggiace alle spietate leggi dell’evoluzione: la «sopravvivenza del più adatto» vale dalle molecole ai predatori. Le teorie fondamentali di Darwin hanno ricevuto conferma dalla microbiologia: ma non il darwinismo sociale, che non deriva affatto da Darwin e cerca di giustificare il capitalismo sfrenato che minaccia le nostre vite. «Divorare ed essere divorati» mi fa venire in mente la frase ironica che usava spesso uno dei miei insegnanti romani riferendosi alla vita sociale:

«Pisces maiores manducant pisces minores», i pesci grossi mangiano quelli piccoli. Una «legge» della natura e della storia dell’umanità difficile da conciliare con una convivenza lieta, ma anche con un «disegno intelligente» divino.

Non esiste, purtroppo, il mondo perfetto della pace tra animale e animale, tra uomo e animale. Non viviamo nel regno di Dio della fine dei tempi, quello che il profeta Isaia ha descritto nella Bibbia (11,6), dove il lupo dimora insieme con l’agnello e la pantera si sdraia accanto al capretto, dove il vitello, il giovane leone e il bestiame da ingrasso pascolano insieme sotto la guida di un fanciullo.

Pertanto non mi faccio illusioni: gli esseri viventi, sempre e ovunque, possono sopravvivere solo se nuocciono ad altri esseri viventi, anzi, solo se li distruggono. Da parte nostra, noi uomini non possiamo far altro che limitare i danni. Per quanto possibile. Niente di più e niente di meno. Non possiamo cambiare il corso del tempo. Già quando chiediamo uova o galline a buon mercato sosteniamo l’allevamento intensivo moderno.

Se, e fino a che punto, la morale permetta gli esperimenti sugli animali è oggi oggetto di una violenta polemica che non dovrebbe però degenerare, nei limiti del possibile, in una battaglia ideologica tra estremisti. Per quanto ne so io, nessun animalista ragionevole pretende che vengano aboliti esperimenti importanti, e purtroppo necessari, sugli animali e sia trasferita all’estero la ricerca di base nell’ambito delle neuroscienze. E, viceversa, nessun neuroscienziato ragionevole sostiene che si debba continuare a condurre esperimenti che fanno soffrire gli animali evoluti, come per esempio, i macachi Rhesus. Come mi ha confidato il professor Mathias Jucker, specialista di Tubinga nello studio dell’Alzhejmer, in Germania la ricerca su questa malattia ha rinunciato agli esperimenti sulle scimmie optando per quelli su mosche, vermi, pesci e topi.

Si dovrebbe dunque poter trovare un punto d’incontro, sulla base di una valutazione etica sensibile, che permetta di non perdere di vista il traguardo della guarigione e della riduzione della sofferenza umana e nel contempo di infliggere sempre meno sofferenze agli animali, e dove è possibile di evitarle del tutto. Nella ricerca delle cause di gravi malattie cerebrali ci conforti la consapevolezza che l’animale non sente la morte come l’uomo, se questa non viene differita in maniera crudele. I piu recenti studi sugli animali confermano anche che l’animale vive nel presente: solo l’uomo possiede un’autentica coscienza di sé, del tempo, della storia, della fine. Solo l’uomo riflette sulla morte. Solo lui ha a disposizione una lingua con complesse strutture di frasi, possiede la capacità di pensare in modo strategico, di valutare le alternative d’azione e di riflettere su di sé: tutti presupposti del pensiero astratto e degli stati mentali - rivolti verso una persona o un oggetto - quali l’amore e l’odio, le convinzioni e i desideri, le paure e le speranze. Già Charles Darwin aveva definito l’uomo un «essere morale»: l’animale è guidato dagli istinti e per sua stessa natura non può assumersi alcuna responsabilità. In base alle nostre attuali conoscenze, è l’uomo l’unico soggetto dell’intero cosmo idoneo a essere titolare di diritti e doveri.

Ma il cosmo, in cui vivono gli uomini e gli animali, nasconde un mistero. Ed e su questo mistero che rifletteremo ora.

 

 

Religiosità cosmica.

 

Nonostante tutti i dubbi che nutro nei confronti di una concezione mistica della natura, riesco comunque a trovare qualcosa di buono nella «religiosità cosmica» di Albert Einstein che «si distingue da quella dell’uomo semplice»: «Quale gioia profonda a cospetto dell’edificio del mondo e quale ardente desiderio di conoscere sia pure limitato a qualche debole raggio dello splendore rivelato dall’ordine mirabile dell’universo dovevano possedere Keplero e Newton per aver potuto in un solitario lavoro di lunghi anni svelare il meccanismo celeste» (Religion und Wissenschaft, Religione e scienza, 1930). Fede nella razionalità dell’universo, dunque, desiderio di conoscere. «Soltanto colui che ha consacrato la propria vita a propositi analoghi» continua Einstein «può formarsi una immagine viva di ciò che ha animato questi uomini e di ciò che ha dato loro la forza di restare fedeli al loro obiettivo nonostante gli insuccessi innumerevoli. E la religiosità cosmica che prodiga simili forze.» Posso aggiungere quanto m’impressioni, ogni volta che mi accosto alla ricerca sperimentale, il fatto che siano necessari anni e anni di forza, pazienza e costanza per arrivare a un importante risultato lavorando su un verme, un pesce o una mosca.

A ogni modo oggi prendiamo sul serio quello che Einstein a causa delle tendenze panteistiche aveva ancora difficoltà ad accettare: che ordine («Cosmo») e necessità sono solo un lato dell’universo. L’altro è il disordine («Chaos»), l’indistinto, l’indefinito, il casuale, come evidenzia l’intero sviluppo del cosmo, ma soprattutto la meccanica quantistica che Einstein rifiutò proprio per questo.

Chiunque abbia presente i fantastici progressi delle scienze naturali negli ultimi due secoli, a partire da Kant, non può far altro che stupirsi. Ma sono stati proprio i progressi nella conoscenza della natura a mettere in luce anche i suoi limiti, nel micro come nel macrocosmo. Questi limiti devono indurci a riflettere, ma non turbare la nostra gioia di vivere, al contrario.

Con lo stesso timore reverenziale di Immanuel Kant, filosofo e scienziato naturale, che osservava il cielo stellato sopra di sé, anch’io, prima di coricarmi, guardo spesso l’infinita vastità del cielo notturno, stellato o coperto di nubi sempre diverse. Che calma e che magnificenza diffonde il cielo stellato quando non è illuminato dalla luce artificiale. E così non smetto di riflettere sui grandi interrogativi che il cosmo pone all’uomo, in quella che Hegel chiama «meditazione del pensiero». E so che se un astronauta riuscisse a raggiungere il centro della Via Lattea sopra di me e ritrovare poi la strada per la terra, troverebbe un’umanità invecchiata di sessantamila anni. Ma cosa sono di fronte ai 13,7 miliardi di anni trascorsi dal momento del Big Bang a oggi, che gli astrofisici hanno calcolato con straordinaria precisione?

Di fronte al silenzio dello spazio infinito e oscuro non provo il terrore espresso agli albori della scienza moderna dal matematico, fisico e filosofo Blaise Pascal. E nemmeno di fronte agli abissi del mondo dell’infinitamente piccolo. In quest’ambito la fisica delle particelle elementari ha appurato i esistenza di processi incredibilmente minuscoli, nell’ordine di grandezza un bimiliardesimo di cm (1 biliardo = i milione di miliardi) e periodi fino a un triliardesimo di secondo (i triliardo = 1 milione di bilioni). Non provo terrore dunque, ma piuttosto una inestinguibile sete di sapere, un «desiderio di conoscere» come diceva Einstein. Che cos’e di fatto la nostra realtà? Che cos’è davvero reale, realtà, quando perfino parole come «parte» o «estensione spaziale» per le particelle subatomiche hanno perso il loro significato? Quando il modo della realtà degli elementi fondanti - protoni, elettroni e soprattutto quark - rimane completamente inspiegabile per i fisici?

Per un teologo è una magra consolazione sapere che anche i fisici se ne stanno lì sulla loro isola del sapere e hanno un’immagine limitatissima del cosmo. In effetti, dopo tutti i successi delle loro ricerche si conosce sempre solo il quattro per cento dell’universo, vale a dire la materia abituale, visibile, le stelle, i pianeti e le lune. Il restante novantasei per cento, nonostante le costose ricerche condotte nello spazio, resta letteralmente nel buio anche per i fisici. Per questo hanno coniato il concetto di «materia oscura» e di «energia oscura». Si tratta di grandezze del tutto sconosciute.

«Quello che conosciamo è una goccia d’acqua. Quello che non conosciamo è l’oceano» disse il fondatore della fisica classica, Isaac Newton, e questo varrà certo ancora per molto tempo. In un futuro vicino o lontano la scienza farà ancora un po’ di luce in questa oscurità, potrà fare molta più chiarezza sulla realtà che si nasconde dietro le immagini, le cifre, i paragoni obbligati dei fisici, su tutti i loro concetti, modelli e formule matematiche. Ma, mi chiedo io, qualche fisico o scienziato naturale arriverà a porsi in maniera più chiara quelle domande fondamentali che sembrano palesare i limiti invalicabili del loro sapere? Motivi per porsele ce ne sono a sufficienza.

 

 

Approccio a un segreto impenetrabile

 

Oggi infuria la controversia sull’evoluzione: «Lei crede alla teoria dell’evoluzione?» mi chiedono spesso i cristiani fondamentalisti, soprattutto negli Stati Uniti. Molti vorrebbero che la storia della creazione così com’è narrata nella Bibbia si insegnasse, alla lettera, nelle scuole, almeno a pari livello della teoria dell’evoluzione. Io rispondo: «Alla teoria dell’evoluzione non credo perché, per quanto mi riguarda, è dimostrata scientificamente». Sulla base di un’abbondanza schiacciante di materiale fisico-chimico, paleontologico, embriologico e morfologico io so, nonostante tutte le lacune del sapere, che l’umanità è il prodotto di miliardi di anni di evoluzione. L’hanno confermato i risultati recenti della biologia molecolare, secondo la quale tutti gli organismi viventi del nostro pianeta contengono due forme di una particolare molecola (DNA e RNA), che fissano il progetto di costruzione di tutti gli esseri viventi.

Ma so anche che la teoria dell’evoluzione non risolve tutte le domande che ci pone la natura. Ho discusso degli interrogativi fondamentali delle scienze naturali con molti fisici, chimici e biologi. Chi di loro s’interroga non si limita al suo campo di lavoro specifico. Di fronte alle dimensioni inimmaginabili del nostro universo, alla complessità del mondo subatomico e allo sviluppo imprevedibile della vita sul nostro pianeta, perfino di quella intellettuale, anche loro conoscono sentimenti quali lo stupore, il timore reverenziale, la gioia. E non chiudono gli occhi di fronte alle grandi domande della vita umana che sembrano andare oltre la loro scienza. Anche se non si condivide il terrore di Blaise Pascal di fronte allo spazio infinito, si dovrebbe riflettere sullo sguardo profondo che egli ha saputo gettare nella «grandeur et misère de l’homme». L’uomo, un nulla rispetto al tutto, un tutto rispetto al nulla: «Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile» (Pensieri, n. 223).

«Un secret impénétrable»: ma lo è per davvero? In effetti, le scienze naturali, dall’epoca di Pascal e Cartesio, vantano più di trecento anni di successi, eppure non sono ancora riuscite a dare una risposta soddisfacente alle domande fondamentali che riguardano il processo di sviluppo oggetto della loro analisi, a partire dal Big Bang di 13,7 miliardi di anni fa: da dove ha avuto origine e perché? Dove conduce e a che scopo? Come la maggior parte dei fisici, sono anch’io convinto che gli avvenimenti che hanno avuto luogo nell’istante t = O della fisica restino fondamentalmente celati all’uomo. E anche i metodi empirici di crescente portata e raffinatezza (per esempio gli esperimenti condotti al CERN di Ginevra, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, il più grande laboratorio europeo di fisica delle particelle), non permetteranno di scoprire che cosa c’era prima di quel momento: Il grande segreto evidentemente «impenetrabile» per le scienze naturali: perché c’è qualcosa invece che il nulla (e che secondo il geniale matematico, filosofo ed ecumenista Leibniz è l’interrogativo fondamentale della filosofia)? In concreto, in base alle nostre conoscenze attuali, la domanda diventa: da dove hanno origine lo spazio e il tempo, l’energia e la materia generate dal Big Bang? In particolare, dove hanno origine le costanti naturali universali già date dal punto zero: carica dell’elettrone e, quanto d’azione di Plank h, costante di Boltzmann k, velocità della luce c...?

Mi sembra che il cosmo e gli interrogativi risultanti dalla sua esplorazione mettano l’uomo di fronte alla sua modestia: ogni affermazione del desiderio di esplorare e della sete di sapere mette in luce la limitatezza del sapere e la finitezza dell’umanità. Cos’è l’uomo in questo universo? Chi vorrebbe darsi troppa importanza in abito scientifico, economico o politico e ignora le grandi domande della vita farebbe bene a riflettere sulla sua «posizione nell’universo». E chi, in ambito privato o pubblico, pensa solo a se stesso invece di preoccuparsi di tutto quello che lo circonda, rifletta un po’ sulla sua finitezza e transitorietà, quella che si esprime non da ultimo nella rotazione cosmica - che fortunatamente non percepiamo - di tutti gli abitanti della terra: giriamo sul nostro asse terrestre a circa mille chilometri all’ora. E contemporaneamente la terra ruota intorno al sole a più di centomila chilometri all’ora. E di nuovo il nostro intero sistema solare ruota intorno al centro della Via Lattea a ottocentomila chilometri all’ora. Una rotazione che non provoca nessun capogiro, se l’uomo non continua a girare su stesso. Cosa che alla lunga rovina la gioia di vivere.

 

 

Gioia di vivere fino alla fine

 

Sono forse diventato troppo serio? Veramente questo capitolo sulla gioia di vivere doveva essere più una riflessione su ciò che mi gioia, su ciò che può costituire il fondamento della gioia di vivere, che un esercizio di gaiezza, arguzia e allegria. Mi interessavano più le fonti della gioia di vivere che non le forme in cui si esprimono. Si capisce da : che cosa sarebbe la nostra vita senza l’humor, che è in grado di mitigare tanti dolori dell’anima e del corpo, di aver ragione di molte situazioni difficili, di abbellire la nostra vita quotidiana? E che cosa sarebbe la vita senza il riso, che secondo il serissimo filosofo Immanuel Kant e una delle tre cose, insieme alla speranza e al sonno, che il cielo ha donato all’uomo per compensarlo degli affanni della vita? Se ne parlerà molto più avanti, nei capitoli sul senso e sul fondamento della vita. Noi proseguiamo la nostra scalata spirituale, l’ho detto all’inizio, un passo alla volta: ora siamo ancora in collina e proprio la Gottesfrage, la questione di Dio, deve essere affrontata più avanti con cautela e a fondo. Tuttavia desidero parlare già ora di un’ultima minaccia alla gioia di vivere.

Ogni volta che guardo il cielo notturno con stupore e ammirazione, ogni volta che mi soffermo a riflettere di fronte a quello spettacolo, c’è una cosa che non trovo: consolazione. Per chi ha perduto una persona cara, chi è stato tradito dal proprio partner o da un amico o non ha più il posto di lavoro, non brilla nessuna stella. E di fronte all’avvicinarsi della morte non ci si può affatto aspettare conforto o incoraggiamento dal cielo buio.

Pensando alla transitorietà e alla mortalità dell’uomo, allora, si può mantenere la gioia di vivere come sentimento di fondo, conservarla fino alla fine? Non sarebbe più adatto all’uomo un pessimismo di principio? La risposta che vi do qui non è affrettata ma solo provvisoria: forse si riesce meglio a mantenere la gioia di vivere se si tiene costantemente presente la propria transitorietà e il fatto che la morte può giungere in ogni momento, invece che scacciarne il pensiero. Con questo non intendo, naturalmente, avere il chiodo fisso della morte e meno ancora dell’inferno e del diavolo, ma piuttosto mantenere una calma serena, che tiene conto del fatto che la mia vita prima o poi finirà: una fine che non significa - io confido - morire, ma raggiungere la compiutezza dell’esistenza. E questo il motivo per cui ho scelto di mettere all’inizio di questo capitolo le parole della lettera di Wolfgang Amadeus Mozart al padre, in cui scrive che non va mai a dormire la notte senza pensare che potrebbe non vedere l’indomani, ma che per questo non si mostra triste o imbronciato con i suoi simili.

Di quella che Mozart definisce una profonda «beatitudine» interiore ho discusso anni fa con lo scettico Wolfgang Hildesheimer, biografo di Mozart e probabilmente uno dei più sensibili scrittori di musica tedeschi del nostro tempo. Hildesheimer, di origini ebraiche, è comprensibilmente un pessimista, e voleva vedere nel Mozart degli ultimi mesi un infelice che, date le evidenti difficoltà professionali e finanziarie e le cattive condizioni di salute, aveva perso la speranza in Dio e negli uomini, uno che aveva «rinunciato».. Hildesheimer tuttavia ha trascurato il fatto che Mozart aveva lavorato instancabilmente fino all’ultimo. Tralascia del tutto l’ultima e più significativa sinfonia che

ci ha lasciato, la Jupiter, in un raggiante Do maggiore, cosi come anche la fine di altre grandi composizioni dell’anno della sua morte: le danze, il Flauto magico con la sua esultanza, l’opera per l’incoronazione di Leopoldo, La clemenza di Tito, il concerto per clarinetto e la sua ultimissima opera, rimasta incompiuta, il Requiem, che fece provare anche la sera prima della sua imprevista morte, dal suo letto di malato. No, non si trattò di autoconsolazione speculativa, come dice Hildesheimer, quando, in quella lettera al padre scrisse: «Dato che la morte, a ben guardare, è la vera meta della nostra vita, già da un paio di anni sono in buoni rapporti con questa vera, ottima amica dell’uomo, così che la sua immagine non solo non ha per me più niente di terribile, ma anzi molto di tranquillizzante e consolante! Ringrazio Dio per avermi concesso la fortuna e l’occasione - lei mi capisce - di riconoscere nella morte la chiave della nostra vera beatitudine».

Provare la gioia di vivere fino alla fine del percorso della nostra vita, dunque, è possibile. Sulle condizioni perché ciò si realizzi bisognerà riflettere. Più o meno negli stessi anni di Mozart, il giovane genio del Romanticismo, Novalis (al secolo Friedrich von Hardenberg), per il quale il «fiore azzurro» è il simbolo dell’unità di finito e infinito, di sogno e realtà, scrisse nel suo romanzo di formazione (rimasto incompiuto; Novalis morì quando aveva ventinove anni) Enrico di Ofterdingen: «Dove andiamo poi?» La risposta è: «Sempre a casa». Sempre a casa? Dov’è, ci si chiede, la casa dell’uomo? E qual è la strada che lo conduce fin là, il suo percorso di vita? Questa però e un altra questione. (pp. 39-68).

 

 

 

 

 

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