La
gioia di vivere
da Ciò che credo di Hans
Kung
Non vado mai a dormire senza pensare che, per quanto io sia
giovane, il giorno dopo potrei non esserci più - e di tutte le persone che mi conoscono
nessuno potrà dire che io abbia un modo di fare imbronciato
o triste - e ringrazio tutti i giorni il Signore per questa beatitudine, che
auguro di cuore a tutti gli uomini. (Mozart)
Avere
fiducia nella vita è bene, amare la vita è meglio.
Questa è la vera gioia e non quella che si prova per le disgrazie altrui, che
secondo un detto sarebbe la gioia più bella. Nel 2009 qualcuno si è chiesto che rosa era preso agli inglesi, popolo notoriamente sobrio:
su più di ottocento autobus comparve la scritta: «There’s probably no God», probabilmente non esiste nessun Dio. È facile
comprender questa campagna se si conoscono gli antefatti: si trattava di una
risposta a un precedente messaggio propagandistico,
diffuso sugli stessi autobus da fondamentalisti
religiosi, messaggio che prometteva ai non credenti la dannazione eterna tra
le fiamme dell’inferno. La minaccia di una fine sgradevole, non priva di un
certo piacere maligno, aveva lo scopo di guastare ai non credenti
la gioia di vivere. E questo il motivo per cui
quegli atei dichiarati hanno aggiunto alla loro negazione dell’esistenza di
Dio la frase ironica: «Now stop worrying
and enjoy your life», adesso smettetela di preoccuparvi e godetevi
la vita. Questa iniziativa di propaganda atea,
estesasi poi anche ad altri Paesi, è sostenuta finanziariamente da uno dei
protagonisti del «nuovo ateismo», il neurofisiologo
britannico Richard Dawkins.
Dopo aver condotto studi seri nel suo campo, nel 2006 Dawkins
ha pubblicato un libro dal titolo L’illusione di Dio. La sua critica della
religione, condotta in maniera poco seria, parziale e presuntuosa, che lascia
molti punti non chiariti, avrebbe fatto sorridere colui che
per primo, alla fine del XIX secolo, ha annunciato la «morte di Dio», Friedrich Nietzsche. I «nostri
naturalisti e fisiologi» aveva ironizzato il filosofo «mancano di passione
per tali argomenti, mancano di sofferenza» (L’Anticristo, VIII). Non possono
capire che cosa significa aver perduto Dio. Al grido dell’«uomo folle» Cerco
Dio! Cerco Dio! - prorompono in «grandi risate». La
«gaia scienza» La parabola di Nietzsche
che ha come protagonista l’«uomo folle» si trova nel suo libro La gaia scienza (III, n. 125). Il
titolo si rifà a quella «gaia scienza» provenzale, quell’unità
di cantore, cavaliere e spirito libero con la quale
si danza al di sopra della morale (le Canzoni
del principe Vogeifrei). Per Nietzsche è il passo decisivo verso una «guarigione»
interiore ed esteriore, verso una nuova gioia di vivere, la gioia di vivere senza Dio. Nel 2009, in occasione di una
conferenza in Engadma, la valle svizzera a duemila
metri di altezza, avevo una camera d’albergo che si
affacciava sul lago di Sils. Guardando dalla
finestra non potei fare a meno di pensare: qui, nel 1882, Nietzsche
ha scritto quel lavoro in uno stato di euforia
perché nel corso del suo primo soggiorno a Sils-Maria
le sue condizioni di salute erano visibilmente migliorate. Come avrei potuto
dimenticare la parabola dell’«uomo folle», che si apre proprio con tre
potenti immagini di Dio, quando l’uomo folle grida: «Come potemmo vuotare il
mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar
via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a
sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è
che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi?». E poi, in seguito alla morte di Dio una cascata di
domande: «Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati?
Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un
infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più
freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?
Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo
dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!»? Eppure, con la sua «gaia scienza» Nietzsche vuole solo rendere evidente che per il futuro
degli uomini la morte di Dio significa una nuova sorta di luce e di felicità,
di sollievo, di diletto, d’incoraggiamento, di aurora.
L’orizzonte è di nuovo libero. Le nostre navi possono prendere il largo affrontando
ogni pericolo, ogni impresa rischiosa per arrivare
alla conoscenza è ancora permessa: il mare si stende ancora libero davanti a
noi, forse più libero che mai. Maggiore gioia di vivere senza Dio,
quindi? Le conseguenze estreme della morte di Dio, tuttavia, si mostrano più
come sgomento e offuscamento, proprio come si palesano nel destino personale
di Nietzsche. Alla fine della vita, prima del
crollo del 1889, chiese a Dio di ritornare, Dio che era per lui felicità e
sofferenza nel contempo: No! torna indietro! Con tutte le tue torture! Tutte le lacrime mie corrono a te e l’ultima fiamma del mio cuore
s’accende per te. Oh torna indietro, mio dio sconosciuto! dolore mio! felicità mia ultima!. (Ditirambi di Dioniso: Il lamento di Arianna) Felicità - l’eterno anelito dell’uomo
.- è la parola magica per eccellenza. Felicità: è questa l’autentica formula
magica? Un
punto essenziale: sono felice? With a littie bit of luck - per citare
un famoso ritornello di My Fair Lady, ancor oggi
uno dei miei musical preferiti: con un po’ di fortuna e di allegria
si vive senza dubbio meglio che non sposando la cultura del pessimismo. Oggi,
non dovremmo coltivare un po’ di più l’«ottimismo anglosassone» invece dell’Angst, «angoscia tedesca»? (Angst, una parola tipicamente tedesca, è passata
tale e quale nell’inglese). Si tratta tuttavia di due espressioni
generalizzanti. Pérché «dacci oggi il nostro fallimento
quotidiano» è una sorta di Padre Nostro presente anche nei mezzi di comunicazione
statunitensi e inglesi. Viceversa, chi scrive sulle pagine
d’intrattenimento dei giornali tedeschi diffonde
benessere culturale. In realtà, una cosa mi ha sempre impressionato: il
diritto alla ricerca della felicità (happiness) era
già sancito a livello programmatico nella Dichiarazione d’Indipendenza degli
Stati Uniti del 1776. E non fu un tedesco, bensì un
filosofo inglese, il riformatore sociale Jeremy Bentham, che già nel 1789 fondò il suo sistema morale e
giuridico utilitarista, destinato ad avere una grande influenza, sul
principio della «massima felicità per il massimo numero di persone».
L’inglese (come già il latino) fa una distinzione netta fra la felicità (happiness, beatitudo) e la
fortuna (luck,fortuna). Mentre in tedesco si usa la parola Gluck
in entrambi i casi. Forse che da una serie di circostanze fortunate
può derivare una vita felice? Anche
per me la felicità legata al momento è importante: un mattino che il sole
illumina il paesaggio candido di neve, o se qualcuno mi ha detto una buona
parola, ha avuto un gesto di amicizia nei miei
confronti, oppure sono riuscito a procurare gioia a qualcuno. Una piccola felicità
quotidiana. Ma nessuno può rendere
duratura la grande felicità che scaturisce da
un’esperienza eccezionale legata a una particolare circostanza: l’estasi
della musica, uno spettacolo naturale sconvolgente, l’estasi amorosa. Gia
il Faust di Goethe desiderava
inutilmente che l’«attimo» si fermasse. «Resta, sei bello!» voleva dirgli. Ci
vuole molto per essere felici e poco per fare
esperienza dell’infelicità: «Bonum ex integra causa, malum ex quolibet
defectu», «il bene procede solo da una causa
perfetta, il male invece da qualunque difetto» imparai quand’ero studente a Roma.
La neurobiologia della felicità m’insegna che nel
mio cervello le informazioni più disparate possono produrre endorfine euforizzanti, ormoni della felicità, e suscitare
sensazioni di gioia. Ma mi ammonisce nel contempo
che l’abitudine provoca assuefazione e
il nostro sistema di felicità biologico non è programmato sulla durata. Per questo sono sempre scettico di
fronte ai tentativi di procurarsi la felicità in maniera artificiale. Troppo
spesso, e a torto, la ricerca della felicità prende una direzione politica,
troppo spesso la si sfrutta a fini commerciali. Ma non si può giungere alla felicità dando retta alla pubblicità.
Chi non è in grado di controllare i propri sensi non
trova un appagamento che lo accompagni per tutta la vita. Il consumo di
droghe - e cosa non può servire da droga oggigiorno! - produce certamente
sensazioni di felicita momentanee, ma alla lunga fa
sentire più tristi. Non esiste una droga per una vita felice e una gioia di
vivere duratura. Anche lo stipendio
non accresce la felicità. È indubbio che avere milioni a disposizione
tranquillizza, ma non rende automaticamente felici. L’avidità, il volere
sempre di più - lo ha messo in evidenza la crisi
economica - genera la febbre speculativa e porta a catastrofi personali, a
perdite di miliardi e all’infelicità di massa. Per
ottenere una felicità che duri tutta la vita non è determinante
la situazione finanziaria, ma lo sono l’atteggiamento e l’attività spirituale.
Una vita - relativamente - felice in realtà esiste: è la felicita intesa non
come euforia, bensì come stato d’animo di fondo,
quella che passa indenne anche attraverso le circostanze sfortunate. E accettare ciò che riserva la vita senza tuttavia rassegnarsi sempre. Io non mi
stanco di ammirare le persone costrette su una sedia a rotelle, che spesso mi
sembrano più felici di quelle sane. Ammiro i genitori che trasmettono coraggio
e gioia di vivere nonostante abbiano figli gravemente handicappati. Ammiro
quelle donne e quegli uomini valorosi (cristiani e non) che ho avuto l’opportunità
di conoscere negli slums di Nairobi, San Salvador e
Chicago, dediti al servizio dei più poveri di questo
mondo. Sono
felici tutti gli uomini in pace con se stessi malgrado
le fatiche della vita di tutti i giorni, quelli contenti della loro
esistenza, che non hanno perduto la serenità di cuore nelle angosce. Il motto
della nostra società fissata sull’esperienza, «l’importante è essere felici»,
non e la mia massima di vita. Il godimento edonistico dei piaceri della vita
è troppo spesso deludente, e anche il gaudente più scaltro finisce prima o poi in una situazione in cui il «divertimento»
cessa e ogni piacere termina. La gioia di vivere duratura non si esprime
nella frase «Sono felice», ma piuttosto in quella: «Sono in
armonia, in pace con me stesso, sono contento». Questo atteggiamento
non esclude gli alti e i bassi del nostro stato d’animo. Una
convivenza lieta «Qual è stato il giorno più bello
della sua vita? La sua felicità più grande?» Sono domande che mi fanno nelle
interviste e a cui non rispondo mai. Dipende troppo dalla prospettiva, dalle
circostanze, anche dall’età. Ho vissuto molti giorni felici. Ma per me le continue gioie della vita quotidiana sono altrettanto
importanti dei giorni felici che passano in fretta. Per il mio ottantesimo compleanno una
delle mie corrispondenti mi comunicò cosa aveva notato di me
quando era venuta a farmi visita: «Non mi era ancora capitato di incontrare
una persona che riesce a essere contenta di tante
cose come lei». Con tutta la buona volontà non riesco
a ricordarmi che cosa mi ha reso felice nel corso di quella visita. Ma sono sicuro
che è dipeso anche dalla mia interlocutrice: da come
si comportava e da quello che mi raccontava. In realtà sono molte le cose che
riescono a farmi contento. di tutto indubbiamente le
persone, le donne e gli uomini, con cui vivo e senza le quali non potrei
vivere e operare. Alcune di loro le ho citate per
nome nei miei due volumi di memorie (e nel libro La donna nel cristianesimo)
o spero di citarle espressamente nel terzo volume. Una convivenza lieta, nel
complesso. Non sono nato per fare l’eremita. Naturalmente non posso avere lo
stesso atteggiamento di amicizia con tutti quelli
che incontro. Alcune persone ci piacciono, altre no, altre
ancora ci lasciano indifferenti. Ma io non ho mai smesso di provare di
persona quanto faccia bene a volte l’amicizia offerta
da perfetti sconosciuti, quanto coraggio infonda la benevolenza e la
gratitudine espressa nelle lettere. Così come un bambino ha bisogno della
madre o di una persona sostituiva di riferimento per conquistare la fiducia
in se stesso e nel mondo che non conosce, anche l’uomo adulto ha bisogno di altre figure per conservare e dimostrare la sua fiducia
in un ambiente che non sempre è amichevole. Un’educazione basata sulla fiducia, che insegni il rispetto verso se
stessi e la tolleranza, può essere importante per l’intera esistenza. Per
essere ancora più chiari: per trovarmi a mio agio nella realtà, ho bisogno di
un Tu. Non solo un Es, un’altra
cosa, un non-Io, ma un altro Io, capace di libertà, aiuto, bontà e comprensione,
e che nel rapporto personale diventa un tu: che accetta e insieme dona fiducia.
Senza la fiducia, la gioia della convivenza e della collaborazione non è
possibile. Ciò vale, come illustrato nel capitolo precedente, per una vita professionale
di successo e una politica efficiente, per l’operato
di autorità, organizzazioni e istituzioni, e vale ancora di più in ambito
personale: senza la fiducia non c’è amicizia, amore, cooperazione,
matrimonio, non c e nemmeno la psicoterapia. Il calo di
fiducia che si osserva molto frequentemente oggi non solo nei confronti di
politici e di giornalisti, ma anche di manager, medici e sacerdoti - spesso
provocato dal fallimento morale e dalla colpa dei singoli individui - ha
effetti molto gravi. Di fronte alla fiducia delusa sono autorizzati i
giudizi critici, ma non le condanne generalizzanti e quelle preventive. Proprio
in Europa, la convivenza lieta di persone di diversa origine, nazione o
religione è sempre più turbata e disturbata da giudizi sommari negativi, ripresi
e diffusi da alcuni mezzi d’informazione. Quelli fra
cattolici e protestanti, per fortuna, sono ormai superati. Ma così come un tempo molti pensavano: «Non mi fido degli ebrei», oggi
si sente dire - ed è un’affermazione altrettanto insostenibile - «non mi fido affatto dei musulmani». Alcuni ebrei e
musulmani pensano la stessa cosa dei cristiani. In India pensano cose simili alcuni
indù dei musulmani, o nello Sri Lanka
i buddhisti nazionalisti dei tamil,
ma vale sempre anche l’opposto. I «credenti» di diversa provenienza
appiccicano etichette spregiative ai «non credenti» o ai «credenti
di fede diversa», agli atei, agli scettici e a chi è nel dubbio, e anche qui
l’atteggiamento è reciproco, per non parlare delle note generalizzazioni
politiche: «i» tedeschi, «gli» svizzeri, «gli» americani. L’esperienza mi ha
insegnato invece che è vero il contrario: in tutte le nazioni, le religioni e
le culture ho incontrato uomini e donne di cui
fidarmi e con cui ho sempre potuto lavorare sulla base di un rapporto di
fiducia. Non
ci si può fidare di tutti Naturalmente non ci si può fidare di
tutti. Di solito io sono pronto a concedere un certo anticipo di fiducia alla persone che incontro. Ma ci
sono sempre quelle che forniscono un serio motivo per nutrire sfiducia nei
loro confronti. Oltre a ciò, esiste un genere sgradevole di
individui, presenti anche nel mondo della politica, della cultura e
della scienza, anche se non sono sempre riconoscibili come tali. Ma il loro profumo «Egoiste» li tradisce. Nel migliore dei
casi credono in se stessi e altrimenti letteralmente a niente (dal latino nihil). Non riconoscono alcun valore, norma, verità, ideale
e vengono definiti «nichiisti»
in riferimento al romanzo di Turgenev Padri e figli (1862) e a Friedrich Nietzsche. Ora, io mi sono occupato molto del
nichilismo di fondo e dei suoi riflessi filosofici e
non, come si può leggere nel mio libro Dio
esiste?. Friedrich Nietzsche
ha visto il suo sorgere e affermarsi nel nostro tempo, ha visto questo
specifico tipo umano con più chiaroveggenza di altri. Per il nichilista l’orizzonte dei sensi viene cancellato da un
colpo di spugna, egli non conosce più valori assoluti, norme vincolanti, modelli
attendibili. A ciò non ha trovato rimedio nemmeno la filosofia. Resto convinto che non esista argomento razionale in grado di
costringere a cambiare modo di pensare chi crede che questa vita sia senza
senso, che il mondo sarebbe governato dal caso, da un destino cieco, dal caos,
dall’assurdità e dall’illusione, in breve che tutto sia, in fondo, privo di
valore. Uno così non si può confutare con la teoria. Tuttavia, questa
concezione nichilista non è nemmeno dimostrabile con la ragione. Potrebbe
essere benissimo che questa vita umana non sia priva di senso, di valore,
inutile, infelice. In altre parole: la scelta spetta all’individuo. Nelle elezioni politiche, raramente
si esprimerebbe la propria fiducia per un politico o una persona pubblica che
si dichiarasse a favore di un fondamentale nichilismo con il pathos dello Zarathustra
di Nietzsche. Piuttosto, oggi è molto più diffuso un
nichilismo banale, pratico: vivere secondo la realtà, come se «niente»
importasse, come se anything goes
fintanto che a vivere ci si «diverte». Una «gaia scienza» o stile di vita superficiale. Screditare o diffamare gli altri sono
azioni molto lontane dal mio modo di essere. Ma non
è necessario essere moralisti presuntuosi per preferire tenere le distanze
dai rappresentanti di tale atteggiamento, e in particolare proprio quando
questi si considerano cinici (dal greco kynikòs =
da cane, senza vergogna). Non ho niente contro il cabaret
politico spiritoso e divertente o la buona comicità e la sua sferzante ironia,
la sua satira. Ma m’indigno di fronte a un cinismo
che, proprio nell’ambito della lotta di potere politica ed economica,
sottopone con malvagità intenzionale a una critica sprezzante, offensiva,
anzi distruttiva chi la pensa diversamente, piegando ogni verità, valore e
norma al proprio scopo. M’indigno con chi usa il sarcasmo (e ciò avviene
soprattutto sulla stampa) come mezzo stilistico di discredito e diffamazione
sistematici. Nichilismo, cinismo, discredito e
diffamazione sono atteggiamenti distruttivi nei confronti della vita e
possono rovinare l’autentica gioia di vivere a se
stessi e agli altri. Ci sono tuttavia esemplari sgradevoli della specie umana
- penso alle mie esperienze in riunioni di docenti universitari - la cui
presenza o meno cambia l’intera atmosfera della riunione. Si dovrebbe almeno
augurare a questi nostri contemporanei per lo più lunatici e scontenti
cronici, che rendono difficile la vita a sé e ai loro simili, di ricevere in
dono un po’ più di autentica gioia di vivere. La
gioia di fronte alla natura «Essere felici
di molte cose» nel mio caso significa anche provare gioia di fronte alla
natura: è un’attitudine che ho preso da mia madre; sento ancora il suono
della sua voce: «Guarda, che bello...». Possono essere cose molto semplici.
Non sono di certo in grado, come pretendono molti, di parlare con le piante
(«Stupidaggini» mi disse una volta un mio collega, noto botanico). Ma posso
gioire davanti all’unica rosa del mio studio: quante varietà ne esistono, quanti colori e forme di petali! E osservo sempre con uguale meraviglia il ciliegio del
Giappone rosa intenso che sboccia, fiorisce e appassisce davanti alla mia
finestra. In natura si trovano migliaia e migliaia di cose che possono procurare gioia alle persone,
se queste lo vogliono. Ce ne sono di quelle, infatti, anche molto colte, che
non sanno gioire della natura. Questi individui sono privi
di un profondo senso della natura, come altri lo sono di un profondo
senso per la musica o l’arte. Ci sono studiosi di letteratura che, indipendentemente
da dove si trovino, vivono completamente immersi nei loro libri. O naturalisti che vedono il mondo solo attraverso le lenti della
fisica, della chimica o della biologia, senza percepirne la bellezza e lo
splendore. O persone che vivono immerse nel mondo
dei propri affari. Altri ancora la cui vita gira esclusivamente
intorno a moda, cosmesi e salute. Per tutti loro la natura, nel
migliore dei casi, è un elemento al margine dell’esistenza. Non notano affatto tutto quello che succede nel suo ambito
e quale inestimabile fonte d’arricchimento esistenziale sfugge loro. Ho vissuto spesso nelle grandi città,
dove la gente tutt’al più si può permettere qualche pianta d’appartamento, e
la natura mi mancava molto. La natura e come il sole: una
forza vitale per il benessere fisico e psichico. Dai tempi della mia
gioventù lavoro il più possibile all’aria aperta. Capisco benissimo le
persone che, se non hanno un giardino, ne coltivano uno sul balcone, e quelle
che s’innamorano di un pezzetto di terra o di un paesaggio. Ogni giorno gioisco
del panorama toccanti di cui godo qui a Tubinga, sebbene cambi a secondo delle condizioni
atmosferiche, delle stagioni e dell’ora del giorno: l’Osterberg
nel bel mezzo della città e il Giura svevo sullo
sfondo. Lo stesso nella mia patria, Ognuno ha, se le cerca, le proprie
esperienze legate alla natura, che s’imprimono nel
profondo della memoria. Ricorderò per tutta la vita la prima volta che,
sciando sul monte Weissfluhjoch, a Davos, in una splendida e limpida giornata invernale, fui sopraffatto dalla vista che si apre a trecentossessanta gradi sulle innumerevoli vette alpine
innevate e illuminate dal sole. «Bevete, oh occhi,
quello che le ciglia trattengono dell’abbondanza dorata del mondo». Non sono
certo l’unico a cui verrà in mente questo verso tratto
dall’Abendlied di Gottfried
Keller, il poeta nazionale svizzero. Fui preso dalla stessa emozione anche
quando m’immersi per la prima volta con le bombole di ossigeno,
di fronte all’fle des Pins, nel Pacifico, per una lunga passeggiata sul fondo
marino e, circondato da una luce innaturale verde-azzurra nuotai sulla
barriera corallina, tra le sue gole, circondato dai pesci e da altri animali
dalle forme bizzarre. So che molti possono dimenticare il tempo anche solo
facendo snorkeling vicino a
una scogliera. Ma, vi prego,
pur con tutta la gioia del contatto con la natura, niente esagerazioni. In
determinate circostanze lo stesso paesaggio può incutere paura. Quando sull’oceano infuria l’uragano o il fohn soffia
rombando sulle vette delle Alpi, quando la tempesta di neve ci fischia gelida
sul viso o la nebbia ci avvolge durante la discesa sugli sci o finisce
l’ossigeno durante un’immersione, la natura mostra il suo altro volto, quello
minaccioso, anzi talvolta spaventoso. La natura, nelle sue piccole come nelle
sue grandi manifestazioni, si può rivelare amica
dell’uomo ma anche sua nemica. Per secoli e stata percepita
come un nemico, dalle montagne fino al mare. Chi parla della natura, tuttavia, non
parla solo del paesaggio e della vegetazione, ma
soprattutto degli animali. E
gli animali? Purtroppo ci sono ancora oggi dei
teologi che pensano che gli animali non abbiano nulla a che vedere con la
fede; che basti ricordarli brevemente nella teologia della creazione. Già Albert Schweitzer,
in Kultur und Ethik
(Cultura ed etica), osservò che, come la casalinga che ha pulito la stanza si
preoccupa che la porta sia chiusa affinché il cane non entri a
rovinare il lavoro fatto lasciando dappertutto le impronte delle zampe, così
i pensatori europei stanno attenti che nessun animale gironzoli nella loro
etica. Ma i tempi sono
cambiati. Non penso solo alle eccellenti serie tv sugli animali selvaggi.
Sono soprattutto due linee di pensiero ad aver contribuito in modo decisivo
all’affermazione del movimento per la protezione degli animali, che nasce gia
nel XIX secolo e oggi è presente a livello internazionale: - la teoria dell’evoluzione, nel frattempo
confermata dalla microbiologia, che ha studiato a fondo la parentela
dell’uomo con gli animali, in particolare con i primati avanzati, sulla base
del patrimonio genetico. I geni
degli esseri umani si distinguono da quelli degli scimpanzè solo in circa
l’un per cento degli elementi della catena del DNA (sono sempre trenta
milioni dei tre miliardi di elementi costituivi del genoma); - il principio della sostenibilità, che impone di
avere un buon rapporto con la flora e la fauna e di non pensare solo alle
proprie esigenze, ma di tener conto anche di quelle delle generazioni future. Oggi gode di crescente
considerazione pure in ambito politico ed economico. Ad alcune persone non piacciono gli
animali. Io li amo, ma - per ragioni sia di tempo sia di spazio - non posso e
non voglio permettermi animali domestici, a parte formiche, vespe e ragni
occasionali. Conosco tuttavia non poche persone a cui un cane o un gatto,
nonostante tutti i disagi, procurano una gioia quotidiana. Il cane: il
migliore amico dell’uomo? Per le persone che sono sole, da ogni punto di
vista, gli animali possono essere compagni di vita. E perché le persone non
dovrebbero attribuire agli animali qualità personali,
come affetto, fedeltà, sentimenti di simpatia, gioia e dolore? Le nuove ricerche
lo confermano: gli animali evoluti possono effettivamente mostrare sentimenti
in modo umano. Proprio così riescono a dare più qualità di vita agli uomini. E pedagoghi esperti fanno notare che gli animali
domestici, che devono essere curati e assistiti, procurano alcuni vantaggi
allo sviluppo dei bambini. Io gioisco soprattutto nel guardare
gli uccelli che volano e fischiettano liberi nei nostri dintorni, dove gli
alberi abbondano. L’area protetta del lago del mio paese natio è un paradiso
ornitologico. E quando nuoto osservo sempre con attenzione
tutte le specie di animali acquatici, dal cigno allo svasso maggiore. Gli amanti degli animali mi chiedono
spesso se magari non proprio gli uccelli, ma i cani e i gatti, al termine
della loro vita terrena non finiscano in una sorta di «paradiso degli animali».
Non oso rispondere di sì, anzi ho dei dubbi sul fatto che, in un’epoca in
cui, per ragioni di spazio, ci si batte a favore della cremazione a scapito
della sepoltura, vengano creati sempre più cimiteri
per animali. Ma ho delle riserve anche quando si
contrappone l’animale, quale essere naturale in apparenza in contaminato,
all’uomo, apparentemente falso m tutte le sue espressioni ed egoista. Gli
animali sono davvero meglio degli uomini? Gli animali non sono uomini, in
ogni caso. D’altra parte, gli animali non sono
semplici cose o una merce. L’uomo non può farne l’uso che vuole. Non sono affatto «macchine senz’anima» come dedusse
all’inizio dell’età moderna il filosofo razionalista Cartesio, che separò il
soggetto pensante dalla natura oggettiva. Una concezione i
cui effetti nefasti si fanno sentire ancora. L’odierno allevamento
intensivo, dove tutto è pianificato a partire dal
macello, trasforma di fatto gli animali in macchine da produzione e fornitori
di materia prima. Diversamente da quanto credeva ancora
Immanuel Kant, l’uomo ha
delle responsabilità anche nei confronti degli animali, responsabilità che
gli vietano di maltrattarli. Ma
estendere la proibizione di uccidere anche al mondo degli animali e
costringere l’umanità intera a nutrirsi solo di vegetali non credo abbia
fondamento, e soprattutto sarebbe impossibile da realizzare nella pratica. Comunque è giusto che gli uomini, dove è possibile e
necessario, proteggano e si prendano cura degli animali. Già ai bambini
bisognerebbe insegnare a non far soffrire gli animali, soprattutto, a non
maltrattare quelli domestici che sono loro affidati. Nell’era della protezione
degli animali, noi pensiamo anche, molto diversamente da prima, al benessere
di quelli domestici e del bestiame in genere, e desideriamo che l’allevamento
tenga conto del benessere degli animali in
riferimento a spazio vitale, cura, nutrizione e trasporto. Se un animale è
destinato comunque a essere ucciso, che questo
avvenga almeno nel modo più indolore e rapido possibile. Purtroppo
nell’ambito dell’allevamento del bestiame siamo ancora molto lontani da uno
stato definibile come soddisfacente. In considerazione dei «limiti dello
sviluppo» e della minaccia che incombe sulla sopravvivenza della specie
umana, oggi è necessario non solo conoscere le scienze naturali, ma anche
proteggere e prendersi cura della natura. Il versetto della Genesi (1,28), oggi
molto spesso citato a sproposito, «Riempite la
terra; soggiogatela» non si deve intendere come un’esortazione allo sfruttamento
messo in atto con i moderni strumenti della scienza e della tecnica, ma va
interpretato nello spirito della coltivazione dell’originario giardino dell’Eden. Invece dello sfruttamento dispotico della
natura bisogna coltivare la comunione dell’uomo con essa. L’economia di mercato eco-sociale
richiede oggi una compensazione di economia ed ecologia.
Le conoscenze in campo ambientale, che hanno avuto grande
diffusione e popolarità nel corso della nostra generazione, non bastano. Da esse deve scaturire una responsabilità ambientale: un rapporto
consapevole e responsabile con le risorse e le tecniche, a livello locale,
nazionale e globale. Il tutto sostenuto da un’etica del «rispetto per ogni
vita» secondo la definizione coniata dal già citato medico e teologo Albert Schweitzer e accolta
nella Dichiarazione per un’etica mondiale del Parlamento delle religioni
mondiali a Chicago nel 1993 . Da allora la crisi dovuta al
cambiamento climatico globale si rivela ogni anno
che passa sempre più come una minaccia per l’umanità intera, soprattutto per
i più poveri fra i poveri. Catastrofi naturali con conseguenze devastanti su
milioni di persone: desertificazione e alluvioni, ghiacciai e poli che si
sciolgono, isole e regioni costiere sommerse dalle acque...
È necessario attivare con urgenza una politica climatica costruttiva e azioni
dirette soprattutto per impedire l’aumento del riscaldamento della terra,
come chiede tra l’altro il Global Humanitarian Forum di Ginevra, fondato dall’ex segretario
generale dell’ONu Kofi Annan, di cui anch’io faccio parte. In riferimento
al nostro atteggiamento nei confronti della natura bisogna tuttavia fare
un’ulteriore precisazione. Non
mistica della natura ma vicinanza alla natura Nonostante tutta la
gioia che provo per la natura, non posso avere un atteggiamento mistico nei
suoi confronti. L’esperienza della natura non sostituisce quella di Dio. Io osservo,
contemplo, rispetto e ammiro la natura, ma non credo in essa,
conosco anche il suo lato oscuro. Non la trasformo in Dio, non voglio
divinizzare tutte le cose, non sono un panteista. Convinto dalle scienze naturali
moderne, non perdo mai la consapevolezza che l’intera natura soggiace alle spietate
leggi dell’evoluzione: la «sopravvivenza del più adatto» vale dalle molecole
ai predatori. Le teorie fondamentali di Darwin hanno ricevuto conferma dalla
microbiologia: ma non il darwinismo sociale, che non deriva
affatto da Darwin e cerca di giustificare il capitalismo sfrenato che
minaccia le nostre vite. «Divorare ed essere divorati» mi fa venire in mente
la frase ironica che usava spesso uno dei miei insegnanti romani riferendosi
alla vita sociale: «Pisces maiores manducant pisces minores», i pesci grossi
mangiano quelli piccoli. Una «legge» della natura e della storia dell’umanità
difficile da conciliare con una convivenza lieta, ma anche con un «disegno
intelligente» divino. Non esiste, purtroppo, il mondo
perfetto della pace tra animale e animale, tra uomo e animale.
Non viviamo nel regno di Dio della fine dei tempi, quello che il profeta
Isaia ha descritto nella Bibbia (11,6), dove il lupo dimora insieme con
l’agnello e la pantera si sdraia accanto al capretto, dove il vitello, il
giovane leone e il bestiame da ingrasso pascolano insieme sotto la guida di
un fanciullo. Pertanto non mi
faccio illusioni: gli esseri viventi, sempre e ovunque, possono sopravvivere
solo se nuocciono ad altri esseri viventi, anzi, solo se li distruggono. Da
parte nostra, noi uomini non possiamo far altro che limitare i danni. Per
quanto possibile. Niente di più e niente di meno.
Non possiamo cambiare il corso del tempo. Già quando chiediamo uova o galline
a buon mercato sosteniamo l’allevamento intensivo
moderno. Se, e fino a che punto, la morale permetta gli esperimenti sugli animali è oggi oggetto di
una violenta polemica che non dovrebbe però degenerare, nei limiti del
possibile, in una battaglia ideologica tra estremisti. Per quanto ne so io,
nessun animalista ragionevole pretende che vengano
aboliti esperimenti importanti, e purtroppo necessari, sugli animali e sia
trasferita all’estero la ricerca di base nell’ambito delle neuroscienze. E, viceversa,
nessun neuroscienziato ragionevole sostiene che si
debba continuare a condurre esperimenti che fanno soffrire gli animali evoluti,
come per esempio, i macachi Rhesus. Come mi ha
confidato il professor Mathias Jucker,
specialista di Tubinga nello studio dell’Alzhejmer, in Germania la ricerca su questa malattia ha
rinunciato agli esperimenti sulle scimmie optando
per quelli su mosche, vermi, pesci e topi. Si dovrebbe dunque poter trovare un
punto d’incontro, sulla base di una valutazione etica
sensibile, che permetta di non perdere di vista il traguardo della guarigione
e della riduzione della sofferenza umana e nel contempo di infliggere sempre
meno sofferenze agli animali, e dove è possibile di evitarle del tutto. Nella
ricerca delle cause di gravi malattie cerebrali ci conforti la consapevolezza
che l’animale non sente la morte come l’uomo, se questa non viene differita in maniera crudele. I piu
recenti studi sugli animali confermano anche che l’animale
vive nel presente: solo l’uomo possiede un’autentica coscienza di sé, del
tempo, della storia, della fine. Solo l’uomo riflette sulla morte. Solo lui
ha a disposizione una lingua con complesse strutture di frasi, possiede la
capacità di pensare in modo strategico, di valutare le alternative
d’azione e di riflettere su di sé: tutti presupposti del pensiero astratto e
degli stati mentali - rivolti verso una persona o un oggetto - quali l’amore
e l’odio, le convinzioni e i desideri, le paure e le speranze. Già Charles Darwin aveva definito l’uomo un «essere morale»:
l’animale è guidato dagli istinti e per sua stessa natura
non può assumersi alcuna responsabilità. In base alle nostre attuali conoscenze,
è l’uomo l’unico soggetto dell’intero cosmo idoneo a
essere titolare di diritti e doveri. Ma il cosmo, in cui vivono gli uomini
e gli animali, nasconde un mistero. Ed e su questo mistero che rifletteremo ora. Religiosità
cosmica. Nonostante tutti i dubbi che nutro
nei confronti di una concezione mistica della natura, riesco comunque a trovare qualcosa di buono nella «religiosità
cosmica» di Albert Einstein
che «si distingue da quella dell’uomo semplice»: «Quale gioia profonda a cospetto dell’edificio del mondo e quale
ardente desiderio di conoscere sia pure limitato a qualche debole raggio
dello splendore rivelato dall’ordine mirabile dell’universo dovevano possedere
Keplero e Newton per aver
potuto in un solitario lavoro di lunghi anni svelare il meccanismo celeste»
(Religion und Wissenschaft,
Religione e scienza, 1930). Fede nella razionalità dell’universo, dunque,
desiderio di conoscere. «Soltanto colui che ha consacrato la propria vita a propositi
analoghi» continua Einstein «può formarsi una
immagine viva di ciò che ha animato questi uomini e di ciò che ha dato loro
la forza di restare fedeli al loro obiettivo nonostante gli insuccessi
innumerevoli. E la religiosità cosmica che prodiga simili forze.» Posso aggiungere quanto m’impressioni,
ogni volta che mi accosto alla ricerca sperimentale, il fatto che siano necessari
anni e anni di forza, pazienza e costanza per arrivare a un importante
risultato lavorando su un verme, un pesce o una mosca. A ogni modo
oggi prendiamo sul serio quello che Einstein a
causa delle tendenze panteistiche aveva ancora difficoltà ad accettare: che ordine («Cosmo») e necessità sono solo un
lato dell’universo. L’altro è il disordine («Chaos»),
l’indistinto, l’indefinito, il casuale, come evidenzia
l’intero sviluppo del cosmo, ma soprattutto la meccanica quantistica che Einstein rifiutò proprio per questo. Chiunque abbia presente i fantastici
progressi delle scienze naturali negli ultimi due secoli, a
partire da Kant, non può far altro che
stupirsi. Ma sono stati proprio i progressi nella
conoscenza della natura a mettere in luce anche i suoi limiti, nel micro come nel macrocosmo. Questi limiti devono indurci a
riflettere, ma non turbare la nostra gioia di vivere, al contrario. Con lo stesso timore reverenziale di Immanuel Kant,
filosofo e scienziato naturale, che osservava il cielo stellato sopra di sé,
anch’io, prima di coricarmi, guardo spesso l’infinita vastità del cielo notturno,
stellato o coperto di nubi sempre diverse. Che calma e che magnificenza
diffonde il cielo stellato quando non è illuminato
dalla luce artificiale. E così non smetto di
riflettere sui grandi interrogativi che il cosmo pone all’uomo, in quella che
Hegel chiama «meditazione del pensiero». E so che se un astronauta riuscisse a raggiungere il
centro della Via Lattea sopra di me e ritrovare poi la strada per la terra,
troverebbe un’umanità invecchiata di sessantamila anni. Ma cosa sono di fronte
ai 13,7 miliardi di anni trascorsi dal momento del
Big Bang a oggi, che gli astrofisici hanno calcolato
con straordinaria precisione? Di fronte al silenzio dello spazio
infinito e oscuro non provo il terrore espresso agli albori della scienza
moderna dal matematico, fisico e filosofo Blaise Pascal. E nemmeno di fronte agli abissi
del mondo dell’infinitamente piccolo. In quest’ambito
la fisica delle particelle elementari ha appurato i
esistenza di processi incredibilmente minuscoli, nell’ordine di grandezza
un bimiliardesimo di cm (1 biliardo = i milione di
miliardi) e periodi fino a un triliardesimo di
secondo (i triliardo = 1 milione di bilioni). Non
provo terrore dunque, ma piuttosto una inestinguibile
sete di sapere, un «desiderio di conoscere» come diceva Einstein.
Che cos’e di fatto la nostra realtà? Che cos’è davvero reale, realtà, quando perfino parole
come «parte» o «estensione spaziale» per le particelle subatomiche hanno
perso il loro significato? Quando il modo della
realtà degli elementi fondanti - protoni, elettroni e soprattutto quark -
rimane completamente inspiegabile per i fisici? Per un teologo è una magra
consolazione sapere che anche i fisici se ne stanno lì sulla loro isola del
sapere e hanno un’immagine limitatissima del cosmo. In effetti, dopo tutti i
successi delle loro ricerche si conosce sempre solo il quattro per cento
dell’universo, vale a dire la materia abituale, visibile, le stelle, i
pianeti e le lune. Il restante novantasei per cento,
nonostante le costose ricerche condotte nello spazio, resta letteralmente nel
buio anche per i fisici. Per questo hanno coniato il concetto di
«materia oscura» e di «energia oscura». Si tratta di
grandezze del tutto sconosciute. «Quello
che conosciamo è una goccia d’acqua. Quello che non conosciamo è l’oceano» disse il
fondatore della fisica classica, Isaac Newton, e
questo varrà certo ancora per molto tempo. In un futuro vicino o lontano la
scienza farà ancora un po’ di luce in questa oscurità,
potrà fare molta più chiarezza sulla realtà che si nasconde dietro le immagini,
le cifre, i paragoni obbligati dei fisici, su tutti i loro concetti, modelli
e formule matematiche. Ma, mi chiedo io, qualche
fisico o scienziato naturale arriverà a porsi in maniera più chiara quelle
domande fondamentali che sembrano palesare i limiti invalicabili del loro
sapere? Motivi per porsele ce ne sono a sufficienza. Approccio
a un segreto impenetrabile Oggi infuria la controversia
sull’evoluzione: «Lei crede alla
teoria dell’evoluzione?» mi chiedono spesso i cristiani fondamentalisti, soprattutto negli Stati Uniti. Molti vorrebbero
che la storia della creazione così com’è narrata
nella Bibbia si insegnasse, alla lettera, nelle scuole, almeno a pari livello
della teoria dell’evoluzione. Io rispondo: «Alla teoria dell’evoluzione non credo perché,
per quanto mi riguarda, è dimostrata scientificamente». Sulla base di
un’abbondanza schiacciante di materiale fisico-chimico, paleontologico,
embriologico e morfologico io so, nonostante tutte le lacune del sapere, che
l’umanità è il prodotto di miliardi di anni di evoluzione. L’hanno confermato
i risultati recenti della biologia molecolare, secondo la quale tutti gli
organismi viventi del nostro pianeta contengono due forme di una particolare
molecola (DNA e RNA), che fissano il progetto di costruzione di tutti gli
esseri viventi. Ma
so anche che la teoria dell’evoluzione non risolve tutte le domande che ci pone la natura. Ho discusso degli interrogativi
fondamentali delle scienze naturali con molti fisici, chimici e biologi. Chi
di loro s’interroga non si limita al suo campo di lavoro specifico. Di fronte alle dimensioni inimmaginabili
del nostro universo, alla complessità del mondo subatomico e allo sviluppo
imprevedibile della vita sul nostro pianeta, perfino di quella
intellettuale, anche loro conoscono sentimenti quali lo stupore, il
timore reverenziale, la gioia. E non chiudono gli occhi di fronte alle
grandi domande della vita umana che sembrano andare
oltre la loro scienza. Anche se non si condivide il
terrore di Blaise Pascal
di fronte allo spazio infinito, si dovrebbe riflettere sullo sguardo profondo
che egli ha saputo gettare nella «grandeur et misère de l’homme». L’uomo,
un nulla rispetto al tutto, un tutto rispetto al nulla: «Infinitamente
lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro
principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile»
(Pensieri, n. 223). «Un
secret impénétrable»:
ma lo è per davvero? In effetti, le scienze naturali, dall’epoca di Pascal e Cartesio, vantano più di trecento anni di
successi, eppure non sono ancora riuscite a dare una
risposta soddisfacente alle domande fondamentali che riguardano il processo
di sviluppo oggetto della loro analisi, a
partire dal Big Bang di 13,7 miliardi di anni fa: da dove ha avuto origine e
perché? Dove conduce e a che scopo? Come la maggior
parte dei fisici, sono anch’io convinto che gli avvenimenti che hanno avuto luogo nell’istante t = O della fisica restino
fondamentalmente celati all’uomo. E anche i metodi empirici di crescente
portata e raffinatezza (per esempio gli esperimenti condotti al CERN di
Ginevra, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, il più grande laboratorio europeo di fisica delle particelle),
non permetteranno di scoprire che cosa c’era prima di quel momento: Il grande
segreto evidentemente «impenetrabile» per le scienze naturali: perché c’è qualcosa invece che il nulla
(e che secondo il geniale matematico, filosofo ed ecumenista
Leibniz è l’interrogativo fondamentale della filosofia)?
In concreto, in base alle nostre conoscenze attuali, la domanda diventa: da dove
hanno origine lo spazio e il tempo, l’energia e la materia generate
dal Big Bang? In particolare, dove hanno origine le costanti naturali
universali già date dal punto zero: carica dell’elettrone e, quanto d’azione di Plank h,
costante di Boltzmann k, velocità della luce c...? Mi
sembra che il cosmo e gli interrogativi risultanti dalla sua esplorazione
mettano l’uomo di fronte alla sua modestia: ogni affermazione del desiderio
di esplorare e della sete di sapere mette in luce la limitatezza del sapere e
la finitezza dell’umanità. Cos’è l’uomo in questo universo?
Chi vorrebbe darsi troppa importanza in abito scientifico, economico o
politico e ignora le grandi domande della vita
farebbe bene a riflettere sulla sua «posizione nell’universo». E chi, in
ambito privato o pubblico, pensa solo a se stesso invece di preoccuparsi di
tutto quello che lo circonda, rifletta un po’ sulla sua finitezza e
transitorietà, quella che si esprime non da ultimo nella rotazione cosmica -
che fortunatamente non percepiamo - di tutti gli abitanti della terra:
giriamo sul nostro asse terrestre a circa mille chilometri all’ora.
E contemporaneamente la terra ruota intorno al sole a più di centomila chilometri
all’ora. E di nuovo il nostro intero sistema solare
ruota intorno al centro della Via Lattea a ottocentomila
chilometri all’ora. Una rotazione che non provoca nessun
capogiro, se l’uomo non continua a girare su stesso. Cosa che alla lunga rovina la gioia di vivere. Gioia
di vivere fino alla fine Sono forse diventato troppo serio?
Veramente questo capitolo sulla gioia di vivere doveva essere più una riflessione
su ciò che mi dà gioia, su ciò che può costituire il
fondamento della gioia di vivere, che un esercizio di gaiezza, arguzia e
allegria. Mi interessavano più le fonti della gioia
di vivere che non le forme in cui si esprimono. Si capisce da sè: che cosa sarebbe la nostra vita senza l’humor, che
è in grado di mitigare tanti dolori dell’anima e del corpo, di aver ragione
di molte situazioni difficili, di abbellire la nostra vita quotidiana? E che cosa sarebbe la vita senza il riso, che secondo il
serissimo filosofo Immanuel Kant
e una delle tre cose, insieme alla speranza e al sonno, che il cielo ha
donato all’uomo per compensarlo degli affanni della vita? Se ne parlerà molto
più avanti, nei capitoli sul senso e sul fondamento della vita. Noi
proseguiamo la nostra scalata spirituale, l’ho detto all’inizio, un passo
alla volta: ora siamo ancora in collina e proprio Ogni
volta che guardo il cielo notturno con stupore e ammirazione, ogni volta che
mi soffermo a riflettere di fronte a quello spettacolo, c’è una cosa che non
trovo: consolazione. Per chi ha perduto una persona cara, chi è stato tradito
dal proprio partner o da un amico o non ha più il posto di lavoro, non brilla
nessuna stella. E di fronte all’avvicinarsi della morte non
ci si può affatto aspettare conforto o incoraggiamento dal cielo buio.
Pensando
alla transitorietà e alla mortalità dell’uomo, allora, si può mantenere la
gioia di vivere come sentimento di fondo, conservarla
fino alla fine? Non sarebbe più adatto all’uomo un pessimismo di principio? La
risposta che vi do qui non è affrettata ma solo provvisoria: forse si riesce meglio a mantenere la
gioia di vivere se si tiene costantemente presente la
propria transitorietà e il fatto che la morte può giungere in ogni
momento, invece che scacciarne il pensiero. Con questo non intendo, naturalmente,
avere il chiodo fisso della morte e meno ancora dell’inferno e del diavolo,
ma piuttosto mantenere una calma serena, che tiene conto del fatto che la mia
vita prima o poi finirà: una fine che non significa -
io confido - morire, ma raggiungere la compiutezza dell’esistenza. E questo
il motivo per cui ho scelto di mettere all’inizio di
questo capitolo le parole della lettera di Wolfgang
Amadeus Mozart al padre,
in cui scrive che non va mai a dormire la notte senza pensare che potrebbe
non vedere l’indomani, ma che per questo non si mostra triste o imbronciato
con i suoi simili. Di quella che Mozart
definisce una profonda «beatitudine» interiore ho
discusso anni fa con lo scettico Wolfgang Hildesheimer, biografo di Mozart
e probabilmente uno dei più sensibili scrittori di musica tedeschi del nostro
tempo. Hildesheimer, di origini
ebraiche, è comprensibilmente un pessimista, e voleva vedere nel Mozart degli ultimi mesi un infelice che, date le
evidenti difficoltà professionali e finanziarie e le cattive condizioni di
salute, aveva perso la speranza in Dio e negli uomini, uno che aveva
«rinunciato».. Hildesheimer tuttavia ha trascurato
il fatto che Mozart aveva lavorato instancabilmente
fino all’ultimo. Tralascia del tutto l’ultima e più significativa
sinfonia che ci ha lasciato,
Provare la gioia di vivere fino alla
fine del percorso della nostra vita, dunque, è
possibile. Sulle condizioni perché ciò si realizzi bisognerà riflettere. Più o meno negli stessi anni di Mozart,
il giovane genio del Romanticismo, Novalis (al
secolo Friedrich von Hardenberg), per il quale il «fiore azzurro» è il simbolo
dell’unità di finito e infinito, di sogno e realtà, scrisse nel suo romanzo
di formazione (rimasto incompiuto; Novalis morì
quando aveva ventinove anni) Enrico di Ofterdingen: «Dove andiamo
poi?» La risposta è: «Sempre a casa». Sempre a casa? Dov’è,
ci si chiede, la casa dell’uomo? E qual è la strada
che lo conduce fin là, il suo percorso di vita? Questa però e un altra questione. (pp. 39-68). |
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