assonanze tra il pensiero platonico

 e le Upanişad

di Giorgio Peri

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

Il mio primo incontro con la filosofia è avvenuto attraverso l'Oriente.

Infatti, avendo frequentato, in gioventù, scuole superiori tecniche e facoltà universitaria di impronta matematica, non avevo mai studiato la filosofia. Solo in seguito, leggendo, fra gli altri, due testi fondamentali per la mia formazione (La via dello zen di Alan W. Watts, e Il tao della fisica di Fritjof Capra), ho incominciato a familiarizzare con i concetti filosofici orientali.

Il mio sogno sarebbe dunque stato quello di approfondire la filosofia orientale. Poi, però,  ho constatato di non avere neppure i rudimenti di base della filosofia occidentale e, quindi, da qui sono partito per arrivare, forse, in futuro ancora all'Oriente.

Questa breve premessa spiega la mia costante passione di comparare i due mondi (Oriente e Occidente) e le loro idee di fondo. La scintilla per questo lavoro di tesi è venuta da un articolo scovato tempo fa nel mondo di Internet: Platone e le Upanişad, di Paolo Scroccaro. Fu un colpo di fulmine! Decisi subito che sarebbe valsa la pena di sviluppare e arricchire questo scritto.

Le Upanişad prese in considerazione sono le tredici più antiche (sulle 108 canoniche e le oltre 200 totali). Tale scelta è giustificata dal fatto che le Upanişad considerate sono quelle antecedenti a Platone e, oltretutto, le più importanti anche da un punto di vista storico e filosofico-religioso. Comunque, come verrà meglio chiarito nelle conclusioni di questo lavoro, si esclude che Platone potesse conoscere direttamente o indirettamente queste importanti scritti orientali.

Per dare un'idea concreta di che cosa siano le Upanişad basti dire che il loro messaggio fondamentale si può riassumere in questa frase: “La grande esperienza dell'epoca upanisadica è la scoperta che l'essenza irriducibile dell'uomo è identica all'essenza irriducibile dell'universo”1.

Ricordiamo infine che ogni singola Upanişad espone, ravvolta in una poetica veste di immagini, non tanto una dottrina particolare quanto la sintesi di una esperienza direttamente vissuta. Anche in Platone le immagini rivestono una fondamentale importanza. Dunque immagine e mito sono strumenti basilari per aiutarci a comprendere la vera realtà ultima che si cela dietro le effimere apparenze, quelle che invece, secondo il Platone interpretato più tradizionalmente, non sarebbero che ombre inconsistenti prive di spessore ontologico.

 

Le molteplici analogie evidenziate fra il pensiero vedico e quello platonico (anche se, ovviamente, sono presenti pure parecchie dissonanze) ci portano a concludere che le due civiltà superiori, quella indiana e quella greca, avendo avuto percorsi di sviluppo similari, sono giunte, con i loro uomini più saggi, a conclusioni concettuali simili, come sarà meglio chiarito nelle conclusioni di questa tesi. 

 

 

1. Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell'Ateneo, Roma 2006, pp. 200-201.

 

 

 

RIFLESSIONE METODOLOGICA

 

 

Prima di entrare direttamente in argomento, vale la pena di fare una prima necessaria riflessione metodologica a proposito della comparazione filosofica tra Oriente e Occidente: seguirò gli schemi enunciati da Giangiorgio Pasqualotto nel suo articolo Filosofia greca e pensiero cinese: una comparazione filosofica, pubblicato anch'esso tramite Internet il 27.12.20052.  Si parte dall'osservazione che si debba parlare appunto di “comparazione filosofica” e non della più generica “filosofia comparata”. L’espressione “filosofia comparata” può essere fatta risalire al 1923, anno in cui apparve l'opera di Masson Oursel La philosophie comparée. Il limite di questa prospettiva è che “cade nell'illusione che vi possa essere una condizione di totale neutralità nel trattare pensieri e sistemi di pensiero appartenenti a culture e civiltà lontane nel tempo e nello spazio come se fossero oggetti semplici o puri dati di fatto”.

Altro percorso metodologico da evitare sarebbe quello che intende dimostrare l'esistenza di una Verità Unica, Suprema e Perenne utilizzando le concordanze rilevabili tra le diverse manifestazioni di pensiero: Oriente e Occidente sarebbero, secondo questo approccio, solo due tasselli dell'Unica Verità.

La terza via consiste appunto nella comparazione filosofica. Al proposito Pasqualotto scrive nell'articolo sopraccitato: “Questo sforzo non è guidato dall'intento troppo disinteressato di registrare dissonanze e consonanze tra pensieri nati e vissuti in tempi e luoghi fra loro lontani; né è spinto dalla volontà troppo interessata a dimostrare un'unica Verità metafisica che starebbe all'inizio o alla fine di tali pensieri: esso è animato esclusivamente dall'amore per la ricerca, il quale coglie alla base di tutti questi pensieri altrettante tracce lasciate da problemi decisivi e dai tentativi di dar loro risposte. Perciò la filosofia comparata intesa in questa prospettiva [cioè come comparazione filosofica] mostra la sua estrema fedeltà all'idea che ci ha donato Platone, quella di philo-sophia, per la quale ciò che più conta non è sophia,  ossia il possesso della verità bensì philein ovvero il movimento di ricerca della verità”. 

E continua scrivendo: “È allora evidente che la comparazione filosofica capovolge l'ordine di ricerca proposto dalla filosofia comparata: essa infatti non parte dai pensieri prodotti in Oriente e in Occidente come fossero morti dati di fatto, compiuti e definitivi, ignorando la natura problematica che li ha fatti nascere ma li assume come segni viventi di interrogativi antichi e tuttavia ancora aperti.” 

 

Importante la sottolineatura, qui fatta, a proposito della ricerca della verità, della “tensione erotica” tipicamente platonica verso la verità. Adotteremo dunque la stessa prospettiva di ricerca cara a Platone: non abbiamo a che fare con uno stato di fatto acquisito (il possedere la verità), ma intendiamo percorrere un cammino, una “via” verso la verità. Anche l'Oriente vedico e post-vedico usa il concetto di “via” verso la saggezza, via costellata da mille difficoltà: si consideri, ad esempio, il problematico cammino del Budda verso l'Illuminazione. Questo metodo pare dunque il più adeguato a leggere i testi che ci proponiamo di confrontare, in quanto adotta la loro stessa prospettiva di fondo.  

 

 

2. Cfr. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517

 

 

 

 

 

PLATONE E LE UPANIŞAD

 

 

L’idea di questa tesi deriva appunto da un lavoro di Paolo Scroccaro3, pubblicato tramite Internet e avente lo stesso titolo4, nel quale sono segnalate alcune convergenze tra le opere platoniche e le Upanişad, mentre noi, in questa tesi, tratteremo altre convergenze. Fra le analogie evidenziate dal professor Scroccaro ricordiamo: il mito degli androgini, l’albero rovesciato con le radici in cielo, il mito del carro alato, il sole quale simbolo di verità.

In questa tesi ci soffermeremo invece su altri temi, solo accennati ma non pienamente sviluppati dallo Scroccaro, quali le classi sociali, la trasmigrazione delle anime, la vera conoscenza, e, infine, l’Uno e i Molti.

Una conferma fondamentale della possibilità del raffronto tra Platone e le Upanişad deriva anche dalle parole di Ananda K. Coomaraswamy: “In Oriente una filosofia identica a quella di Platone costituisce ancora oggi una forza viva”5.

 

3. Professore a riposo di Storia e Filosofia a Treviso, da molti anni è il principale animatore dell'Associazione Filosofica Trevigiana. Ha ottenuto il Diploma di perfezionamento in Filosofia delle scienze presso l'Università di Padova e Certificato Internazionale in Ecologia umana rilasciato dalle Università di Parigi, Bruxelles e Padova. Suoi principali campi di interesse, di ricerca e insegnamento sono la Metafisica e la comparazione fra Oriente e Occidente

4. Cfr. http://www.estovest.net/tradizione/platoupanish.html

5. Ananda K. Coomaraswamy, Sapienza Orientale e Cultura Occidentale, Rusconi, Milano 1998, p. 27

 

 

 

 

 

 

UPANIŞAD: STORIA E TERMINOLOGIA

 

 

Prima di iniziare a parlare del contenuto delle Upanişad pare doveroso un breve accenno alla loro storia e alla loro particolare terminologia. Esse sono commenti sacerdotali ai Veda, i testi sacri dell’Induismo. La parola Veda indica la conoscenza intuitiva, la sapienza primordiale per eccellenza (dalla radice vid, “vedere, conoscere”), il sapere rivelato, la sacra tradizione. I Veda sono quattro: Rg-veda, il più antico che contiene, in 10 libri, 1028 inni: i singoli inni però non risalgono a un unico autore né alla stessa epoca. “Nel più famoso inno del Rg- Veda, la cosmogonia è presentata come una metafisica. Il poeta si chiede come l'Essere abbia potuto originarsi dal non-Essere”6. 

Ci sono poi anche Yajur-veda, Sama-veda e Atharva-veda. Sono raccolte di testi sacri dell'induismo databili intorno al  X secolo avanti Cristo.

 

E' stato notato che, “in quanto rivelazione del Brahman, i Veda sono ritenuti essere il Verbo (vac) manifestantesi attraverso suoni audibili (sàbda)”7; e più avanti: “Il Veda è increato e la sua infallibilità dimostra l'esistenza e la potenza degli dei, non il contrario”8.

In questi passaggi viene rimarcata l'importanza del“verbo”, della“parola” increati come inizio della storia universale. Non sono gli dèi a creare: è la parola stessa che crea.

 

La parola Upanişad significa “sedersi ai piedi” di un guru per apprenderne l’arcano insegnamento.

Ci sono 108 Upanişad. Questo numero è sacro per l'India vedica e anche per tutto l'Oriente: Induismo, Buddismo, Giainismo e varie altre religioni orientali lo reputano tale. La sacralità del “108” pare derivare dai tre numeri che lo compongono anche se non sembrano esserci certezze al proposito:

1 (bindu): è il punto da cui inizia la creazione e si sviluppa la moltitudine;

0 (sunyata): è il vuoto, lo stato da raggiungere per liberarsi dal ciclo dell'esistenza;

8 (ananta): indica ciò che è senza fine, l'infinito.

 

In seguito il numero delle Upanişad fu esteso portando il totale a più di duecento.

Il primo contatto delle Upanişad con l'Occidente si ebbe grazie alla traduzione dal sanscrito antico al latino di Anquetil-Duperron (1731-1805). Anche Arthur Schopenhauer (1788-1860)  assunse alcuni motivi vedici nel suo sistema filosofico e contribuì alla loro diffusione in Europa. Forse però il pessimismo (e la “Noluntas”) di quest'ultimo filosofo vanno ben oltre il progressivo distacco dal ciclo vitale con il conseguente “Nirvana” propugnati dall'Oriente. Schopenhauer sembra voler uscire dalla vita da sconfitto, mentre le Upanişad si propongono di uscirne dopo aver conseguito la saggezza e, quindi, da vincitori.

 

Esse sono “insegnamenti segreti e, come tali, circondati e protetti da precauzioni speciali”9. Infatti, le orecchie delle persone di bassa casta che ascoltassero le Upanişad era previsto che venissero riempite di metallo fuso. I testi delle Upanişad del resto“si presentano spesso come intenzionalmente criptici e diretti a una ristrettissima cerchia di iniziati10. Contengono considerazioni teosofiche ed esoteriche che hanno il fine di far conseguire l'esperienza dell'identità fra lo Spirito individuale (atman) e lo Spirito universale (Brahman): come già ricordato, “la grande esperienza dell'epoca upanisadica è la scoperta che quest'essenza irriducibile dell'uomo è identica all'essenza irriducibile dell'universo”11.

Già in questo atteggiamento di rapporto diretto e orale fra maestro e allievo si nota una comunanza fra la mentalità platonica (e prima pitagorica) e quella indiana. Infatti in entrambe le tradizioni storico culturali (l'indiana e la platonica) si coglie un atteggiamento iniziatico riservato a pochi allievi prescelti. Al proposito vale la pena citare Mario Vegetti, che, nella premessa al libro I miti di Platone, in contrasto con una svalorizzazione filosofica dei miti platonici, scrive: “Una tradizione opposta, più recente e negli ultimi decenni molto diffusa, li ha invece considerati come l'espressione più profonda, e una volta ancora più autentica, di un Platone profeta di verità iniziatiche, al di là dello sterile razionalismo di stile sofistico (per dirla in breve, dunque, la Diotima del Simposio, o l'Aristofane dell'uomo erotico perché dimidiato, esprimerebbero più verità delle analisi logico-ontologiche del Sofista o del Parmenide)”12.

 

Ricordiamo ancora che ogni singola Upanişad espone, in veste di immagini, non tanto una dottrina particolare quanto la sintesi di una esperienza direttamente vissuta. Anche in Platone le immagini rivestono una fondamentale importanza, come si evince da questa riflessione di Linda Napolitano: “Non sono certa d'aver elencato tutte le possibili ragioni dell'immagine che ho dovuto allenarmi a riconoscere, durante questi esperimenti ermeneutici, e di cui ho dovuto imparare a tener conto: una cosa certo mi è parsa sempre più chiara, vale a dire che, per le sue molteplici e specifiche ragioni, l'immagine non è mai per Platone qualche cosa di poco conto e di sostituibile, qualcosa da buttar là a caso e senza riflessione, qualcosa a cui basti esser solo esteriormente coinvolgente e suggestiva, qualcosa che, pur detto sì per gioco, non abbia senso importante per gli effetti che produce in chi la guarda e l'ascolta e, ancor prima, in colui stesso che la produce. L'immagine platonica è infatti sempre qualcosa che è 'detto a scopo di verità, non di riso': lo recita il passo del Simposio (215 A), scelto non per caso ad esergo del mio lavoro e riferito all'immagine esteriore di Socrate, simile a quelle statuette ridicole dei Sileni che, una volta aperte, rivelano però al proprio interno effigi degli dèi. Ogni immagine vera, per ridicola che a prima vista appaia, potrebbe forse per Platone far lo stesso, rivelare il vero: ciò vale in particolare per la componente dell'anima pure meno disposta a recepir la verità, l'epithymetikòn, quella che si lascia guidare, in veglia ed in sonno, sempre solo da 'immagini e fantasmi', quando questi, a partire dalla mente, si trasmettono correttamente sulla superficie liscia e lucida della sua sede, il fegato, come uno specchio che riflette immagini”13. Il fatto di “produrre ed esibire immagini vere diviene allora per Platone una questione non solo conoscitiva, ma anche antropologica, relazionale, morale, importante”14.

 

6 M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, Firenze 1979, volume I, p.  247.

7 Pio Filippani-Ronconi, (a cura di), Upanisad antiche e medie, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 503.

8 Ibidem

9 Ivi,  Prefazione,  p. VIII

10  Ivi, p.  XI.

11 Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, cit. pp. 200-201

12 Mario Vegetti, Prefazione, in Franco Ferrari (a cura di), I miti di Platone, Rizzoli, Milano   2006, p. 8. 

13. Linda M. Napolitano Valditara,  Platone e le ragioni dell'immagine,  Vita e Pensiero, Milano 2007, Introduzione, p. XII

14. Ivi, p. XIX

 

 

 

 

ELENCO DELLE UPANIŞAD E BREVE DIZIONARIO TERMINOLOGICO

 

 

Richiamo qui l'elenco delle tredici Upanişad antiche e medie (partendo dalla più antica): Brhad-aranyaka-upanişad, Chandogya-upanişad, Taittiriya-upanişad, Aitareya-upanişad, Kausitaki-upanişad, Svetasvatara-upanişad, Katha-upanişad, Isa-upanişad, Mandukia-upanişad, Maitry-upanişad, Kena-upanişad, Prasna-upanişad, Mundaka-upanişad.

             

Alcune parole vanno spese per spiegare i concetti basilari delle Upanişad ricorrendo al glossario del nostro testo di riferimento (Upanişad antiche e medie, di Filippani-Ronconi).

Agni: è la divinità del fuoco (dalla stessa radice anche il nostro ignis latino). Rappresenta  l'archetipo del sacerdote: lo si chiama il sacrificatore, l'oblatore che ci colma di doni. È il dio che non invecchia mai perché si rinnova ad ogni nuova accensione. Mediatore fra gli uomini e gli dèi perché reca loro le offerte sacrificali. Onnipresente nella vita religiosa, visto che il fuoco sacrificale svolge un grande ruolo pur in assenza di santuari di culto dedicati al fuoco stesso (i riti si compivano nella casa di chi offriva il sacrificio). L'assimilazione fra fuoco (luce) e intelligenza è molto diffusa nelle Upanişad.  

 

Ātman: etimologicamente significa “se stesso”; è il polo soggettivo della realtà, originata dall'individuarsi dello Spirito universale (Brahman) in sé medesimo. Costituisce, pertanto, l'esperienza fondamentale alla quale fanno riferimento e sulla quale sono fondate tutte le Upanişad.  

Bráhman: originariamente è “preghiera” o “forza magica” sprigionata dall'atto culturale, indi “Spirito universale”, causa efficiente e materiale di tutti gli esseri. A esso si accede realizzando, mediante ascesi (tapas), il se stesso (atman). Il Brahman riempie gli dèi, dà loro forza e li fa crescere. Costituisce il materiale di cui cielo e terra sono fatti. È la base dell'esistenza. 

Indra: è il Signore degli dèi vedici, antico dio della tempesta e della folgore: suo dominio è l'atmosfera. E' personificazione dell'esuberanza della vita, dell'energia cosmica. Vincitore di demoni, è ricordato anche per i suoi adulteri che gli procurano castighi e pene: “sembra dunque che il potere degli dei non sia del tutto autonomo rispetto a certe “potenze impersonali”15. Il suo epiteto più comune è “munifico” perché simbolo del potere dispensatore dei doni della vita e della conoscenza. Dio, per eccellenza, dei re e dei guerrieri. Nato per uccidere Vrtra, il mostro serpentiforme (tipico atto cosmogonico contro chi minaccia il mondo). Dopo la sua uccisione nasce per la prima volta il sole. Indra è il guerriero trionfante che vince i nemici degli Arya (gli Arii).   

Mitra: amico, Dio del sole, Giorno. È il custode dei patti. Assieme a Varuna forma la coppia fondamentale dei Veda. I due sono detentori del potere guerriero-regale e guardiani dell'ordine cosmico (rta è radice sanscrita dalla quale deriva la nostra parola 'rito').    

Nasatya: probabilmente “Il Risanatore”, nome dato alla stella del mattino e a quella del vespero; epiteto degli Asvin (i due guerrieri, dioscuri indiani). Era associato alla terza casta: quella dei produttori.

OM: sillaba sacra della tradizione religiosa indiana, segno di assenso, simboleggia anche l’essenza mistica dell’universo.

Prana: respiro, soffio, principio vitale dell'universo. La disciplina e il controllo del prana inteso come respiro umano rappresenta, insieme alla meditazione, la forma primaria di ascesi.

Puruşa: l’uomo-spirito, l’uomo cosmico primordiale. La realizzazione di questo Puruşa è lo scopo dell'ascesi, costituendo il trascendimento dell'individualità incarnata mediante l'accesso alla sfera indefettibile. 

Varuna: massimo dio della mitologia vedica reggente il cielo stellato (possiede infatti mille occhi che sono appunto le stelle e la luna) e delle acque cosmiche. Sovrano universale, egli esercita il suo dominio (Ksatra), mediante l'occulto potere detto maya, sul mondo, sugli dèi (deva) e sugli uomini. A lui compete la custodia dell'ordine (rta) sia fisico che morale. Tipica divinità notturna, era associato alla casta dei re-guerrieri. L'aporia si coglie nel coniugare in capo a una stessa divinità i concetti di rta (ordine) e maya (irrealtà, inganno, illusione cosmica) e si giustifica solo con la tipica unione degli opposti. 

Dunque, per concludere questo paragrafo, citiamo le parole di Fritjof Capra: “Brahman, la realtà ultima, è inteso come il vero 'Sé', l'anima o l'essenza intima, di tutte le cose. Esso è infinito e trascende tutti i concetti; non può essere compreso dall'intelletto né adeguatamente descritto a parole: 'il supremo Brahman senza principio, né essere né non essere'”16. E ancora: “Imperscrutabile è questo supremo Sé immensurabile, non nato, impensabile, di cui non si può parlare. Tuttavia la gente vuole parlare di questa realtà e i saggi indù, con la loro caratteristica inclinazione per il mito, hanno raffigurato Brahman come una divinità e ne parlano con il linguaggio mitologico. I vari aspetti del Divino hanno ricevuto i nomi delle diverse divinità venerate dagli indù, ma i testi sacri indicano chiaramente che tutte queste divinità non sono altro che riflessi dell'unica realtà ultima: 'egli è, in verità, tutti gli dei' 17.

 

15. Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, cit.,  p. 199.

16. Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1989,  p. 104.

17 Ibidem

 

 

 

 

 

PLATONE

 

 

Platone ha lasciato nel pensiero occidentale una impronta così profonda da far dire a  A. N. Whitehead che la storia della filosofia europea non è che un insieme di note in margine alle opere platoniche.

Nacque ad Atene nel 428/427 a. C. da famiglia aristocratica sia per parte di padre che per parte materna. Data la sua origine, ebbe, fin da giovane, la possibilità di entrare in politica (sua grande passione) ma rifiutò, prima in dissenso con i Trenta Tiranni (fra i quali il prozio Crizia facente parte della corrente oligarchica) e poi in dissenso con la corrente democratica, visto che quest'ultima aveva condannato a morte il maestro Socrate. La morte di Socrate segnò profondamente l'esistenza e il pensiero di Platone. Infatti, in seguito a tale triste avvenimento, egli si mise a viaggiare per conoscere altre realtà e si convinse che nessuna città era governata bene proprio perché nessuno sapeva cosa fosse il “bene”.  Gli venne allora l'idea di occuparsi della formazione dei futuri uomini politici tramite una nuova istituzione da lui stesso creata: l'Accademia.

“Platone è il primo filosofo di cui sono state conservate integralmente le opere”18. Tra queste opere spiccano particolarmente i trentaquattro dialoghi che sono la forma letteraria  più adatta a rappresentare le conversazioni di cui Socrate è spesso il protagonista. Platone disdegna la trattatistica tipica dei filosofi suoi predecessori.

La sua gnoseologia si basa sulla teoria della reminiscenza : l'anima umana ha acquisito la conoscenza della verità in una vita precedente e può quindi ricordarla (anamnesi).

I principali argomenti trattati da Platone sono la dottrina delle idee, la politica, l'educazione,  la conoscenza, l'amore (anche l'arte risulta collegata con la conoscenza e l'amore). Per trattare questi temi basilari Platone si avvale di strumenti quali il mito e la dialettica.

Il mito afferma senza dimostrare e si contrappone al Logos, che è un ragionamento logico capace di dimostrare tramite la dialettica. Platone attribuisce un notevole valore di formazione morale ad alcuni miti. Alla fine del  mito di Er della Repubblica, ad esempio, egli scrive: “e così si è salvato il mito e non è andato perduto...e potrà salvare anche noi se ci crediamo”19. 

La concezione della filosofia come dialettica deriva da Socrate e si configura come la vera e propria scienza della realtà e delle idee. Platone afferma anche che la dialettica è l'arte di ricondurre il Molteplice all'Uno e viceversa. Essa è la capacità di ragionare e denuncia la fallacia del mondo delle opinioni scoprendo la vera struttura della realtà: le idee. La dialettica coglie i nessi esistenti fra le idee.

Per capire la dottrina delle idee, dobbiamo partire da Socrate che si domandava sempre “che cos'è?” cercando l'universale, l'essenza, senza sapersi dare una risposta. Platone risolve il problema introducendo il concetto di “idea” che è intesa, fondamentalmente, come forma intelligibile esistente per sé e non come pensiero della nostra mente. Le idee platoniche sono realtà universali e immutabili, ben distinte da ciò che è sensibile e mutevole. Esse sono dunque anteriori a ogni conoscenza sensibile e l'anima non le trae dalle cose mutevoli.

Sarà dunque necessario far l'ipotesi di un'esistenza antecedente all'attuale, durante la quale l'anima ha contemplato le idee, di cui ravvisa ora le copie e le imitazioni nelle cose sensibili. L'anima ha la stessa natura delle idee. Le idee sono tutte sottoposte al Bene, che non è un'idea fra le idee ma è l'idea delle idee, principio e fondamento del loro essere e delle loro intelligibilità. L'idea del Bene trascende l'Essere ed è il supremo oggetto della conoscenza dei filosofi che devono, per il tramite di essa,  governare la città.

La filosofia di Platone è orientata anche verso la politica e cioè verso l'educazione principalmente dei custodi-guerrieri e dei governanti-filosofi. Questi ultimi verranno scelti fra gli appartenenti alla prima delle due classi sociali, evidenziando quindi la possibilità di migliorare la propria posizione sociale in base a doti naturali innate. Il problema politico è fondamentale nel pensiero platonico ed è ampiamente trattato  soprattutto nella Repubblica.

Nel libro VII, attraverso “il mito della caverna”, allegoria del processo della conoscenza umana, Platone mostra come il filosofo debba sollevarsi dalle cose sensibili alle idee e poi volgersi di nuovo alle cose di questo mondo per governarlo nel migliore dei modi.

Quattro sono i gradi della conoscenza: l'immaginazione, che coglie immagini sensibili; la credenza, che coglie gli oggetti che danno luogo alle immagini sensibili; la ragione discorsiva, che è conoscenza degli oggetti matematici; l'intelletto, che coglie le idee. Le prime due forme di conoscenza sono “opinione”, mentre le ultime due sono  “scienza”.

Dal punto di vista etico, nell'intellettualismo socratico-platonico vige l'uguaglianza fra virtù e sapienza. Ciò implica che chi conosce davvero il bene non può che seguirlo e che nessuno agisce male volontariamente ma solo per ignoranza.

Il problema dei rapporti fra le tre parti dell'anima è illustrato dal “mito del carro alato”. Il carro è guidato da un auriga e trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero. L'auriga rappresenta l'anima razionale, il cavallo bianco rappresenta l'anima volitiva, irascibile, il cavallo nero invece rappresenta l'anima appetitiva, concupiscibile. Per far salire in alto il carro alato (le ali rappresentano l'amore), fino all'Iperuranio ove si possono contemplare le idee, l'auriga (la ragione) deve tenere sotto controllo i cavalli (l'irascibilità e, soprattutto, la concupiscenza).

La cosmogonia e la cosmologia platoniche sono trattate nel Timeo attraverso la presentazione di un mito verosimile. Il cosmo ha una causa, un principio rappresentato dal Demiurgo, che non crea il mondo dal nulla ma lo trae da una sorta di materia prima informe: lo spazio. Questo mondo è sferico ed ha una sua anima. Il cosmo sensibile viene plasmato dal Demiurgo a imitazione del modello eterno e intelligibile. Il discorso cosmologico di Platone è strettamente connesso al suo discorso politico perché unico è il principio di ordine e di bene. L'uomo, come la società, debbono trovare il proprio equilibrio e la propria perfezione imitando l'ordine intelligibile e la struttura armonica del cosmo.

Ricordiamo anche che, per Platone, non fa filosofia chi è sapiente e neppure chi è del tutto ignorante, ma chi si sente in stato di bisogno, di povertà rispetto al sapere. Questa condizione di tensione, questa situazione intermedia tra sapienza e ignoranza è precisamente l'amore, come aspirazione alla bellezza in quanto ordine e armonia.

  Bisogna infine ricordare che Platone, sulla scia del maestro Socrate che non ci lascia nulla di scritto, rimprovera alla scrittura l'assenza di controllo sul destinatario (il lettore può fraintendere il testo) e l'intrinseca inadeguatezza rispetto al compito di formulare le teorie filosofiche più importanti. Di conseguenza, all'opera scritta (i dialoghi) verrebbe assegnata una funzione introduttiva rispetto alle dottrine più importanti trattate solo in forma orale. Il contenuto delle “dottrine non scritte” ci è pervenuto grazie alla testimonianza di Aristotele e tratta principalmente dell'”Uno e la Diade di cui ci occuperemo   diffusamente più avanti in questo lavoro. 

 

18. Enrico Berti, Storia della Filosofia Antichità e Medioevo,  Laterza, Bari 2006, p. 52

19 Platone, Repubblica, Libro X, 621b-621c, in Opere complete, 6,  Laterza, Bari 1983

 

 

 

 

 

LE ANALOGIE TRA PLATONE E LE UPANIŞAD

RILEVATE NEL TESTO DI  PAOLO SCROCCARO

 

 

Mostriamo ora, brevemente, le analogie fra Platone e le Upanisad segnalate nel lavoro di Paolo Scroccaro.

a)          Il mito degli androgini

Nella Bŗhad-araņyaka-upanişad è detto: “In principio l'universo era solo Atman in forma di Puruşa. Esso aveva dimensioni che uguaglierebbero quelle di un uomo e di una donna. Egli si divise in due corpi separati... Per questo il saggio Yajnavalkya insegnò che il maschile è solo una metà e l'altra metà è il femminile”20.

Nel Simposio analogamente si narra che in origine vi era “l'androgino, un sesso a sé, del quale la forma e il nome partecipavano del maschile e del femminile” (189 e), poi “tale natura fu tagliata in due” (191 a), sì che “ognuno di noi è dunque la metà simbolica di un essere tagliato in due” (191 d), mentre l'amore “restaura l'antico nostro essere perché tenta di fare di due una creatura sola e di risanare così la natura umana”21.

 

 

b)         L’albero rovesciato

Nella Maitry-upanişad si dice che “Il supremo Brahman ha le sue radici volte verso il cielo, i suoi rami sono l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra e i suoi prodotti”22.

Nel Timeo l'uomo è immaginato come un albero, con le radici piantate non in terra ma in cielo (cfr. 90 a)23.  A prima vista il paragone instaurato dal professor Scroccaro pare non reggere: nel primo caso si parla infatti del Brahman e nel secondo dell'uomo. Ricordiamo però che “A esso (il Brahman) si accede realizzando mediante ascesi il 'sè stesso', che è l'intimo nucleo dell'essere spirituale nell'uomo, identico essenzialmente al Brahman”24. Il paragone può tenere perché il Brahman è inteso anche come l'essere spirituale dell'uomo, così come l'uomo di cui parla Platone non è certo un uomo sensibile o materiale.

 

c)          Il mito del carro alato

Nella Śvetāsvatara-upanişad è detto: “L'aspirante deve tenere la mente sotto perfetto controllo, come un cocchiere tiene alle redini i destrieri bizzarri”25; e nella Kaţha-upanişad: “Il corpo è simile a un carro di cui l'Atman è il padrone”25.

Nel Fedro, Platone  a sua volta scrive “Ci si raffiguri l'anima come la forza di una coppia di cavalli alati e di un auriga, che condividono un'unica natura. Tutti i cavalli e gli aurighi degli dei sono buoni e discendono da buona stirpe, gli altri sono misti. Quanto a noi uomini, l'auriga, innanzitutto, guida la pariglia; dei cavalli, uno è nobile e proviene da genitori altrettanto buoni, mentre l'altro è l'opposto e discende da progenitori che hanno qualità opposte. Non può che essere ardua e faticosa la guida della nostra biga”27.   

In Platone l'immagine del carro alato si riferisce all'anima, mentre nelle Upanişad si parla prima di mente e poi di corpo. Risulta però evidente l'assonanza fra l'anima occidentale e la mente orientale. Comunque anche il corpo orientale non è mai inteso come “corpo solo materiale”, non sussistendo per i Veda il dualismo platonico spirito-materia. In conclusione i termini usati nei due testi sono diversi, ma concordo con Scroccaro nel credere che i concetti di riferimento siano del tutto simili.

 

d)         Il sole simbolo di verità

 Si tratta di un’immagine presente in molti passi, ad esempio nella Bŗhad-araņyaka-upanişad28, nella Chandogya-upanişad29 e nella Prashna-upanişad30.

 

Nella Repubblica (508 b-c) abbiamo la celeberrima immagine del sole quale allegoria del Bene: “Io chiamo il sole prole del bene, generato dal bene a propria immagine. Ciò che nel mondo intelligibile il bene è rispetto all'intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili”31. Dunque, anche in questo caso, il sole simboleggia la forma suprema di verità conoscibile. 

 

In conclusione, i punti di analogia individuati dal Professor Scroccaro riguardano immagini con valore metafisico (sole), socio-relazionale (gli androgini), religioso (albero rovesciato), e pedagogico (guida dell'anima sul corpo). Anche le analogie che s'individueranno in questa tesi sono inerenti a diversi campi: sia Platone che le Upanişad si occupano infatti di tematiche molto ampie. Per esempio il primo tema trattato nel nostro lavoro è quello delle “classi sociali” (caste in Oriente) ove si parla di organizzazione della società e di politica (almeno per quanto riguarda Platone). Il secondo tema trattato sarà quello inerente la “trasmigrazione delle anime”, che è argomento religioso e morale per entrambe le culture. Parliamo poi della “vera conoscenza”, tema di rilevanza sia gnoseologica che etico-sociale. Abbiamo infine l'Uno e i Molti , ema filosoficamente rilevantissimo tant'è che Platone ne avrebbe parlato solo nelle sue “dottrine non scritte”: quelle riservate agli argomenti più importanti.

 

20. Bŗhad-araņyaka-upanişad, I, IV, 1,3, p.p.35-36.

21. Platone, Simposio, 189 e, 191 a, 191 d, Marsilio, Venezia, 2006

22.Maitry-upanişad, IV, 4, p. 394.

23.Platone, Timeo,  90 a, in Opere complete, cit.,

24.Pio Filippani-Ronconi  (a cura di), Upanisad antiche e medie, cit., p. 474.

25. Śvetāsvatara-upanişad, II, 9, p. 323.

26.Kaţha-upanişad, I, III, 3, p. 349.

27. Platone, Fedro, in Opere complete, 3, cit., 246 a – b.

28. Bŗhad-araņyaka-upanişad, V, V, 2, cit., p.106: “Il sole è la verità”.

29. Chandogya-upanişad, III, XIX, 1, p.175 : “Brahman è il Sole; il Sole è Brahaman”.

30. Prashna-upanişad, III, 8, cit., p. 445 : “Il prana del mondo è il sole, è l'energia vitale esteriore”

31.Platone, Repubblica, cit., 508 b-c.

 

 

 

 

 

ALTRE ANALOGIE TRA PLATONE E LE UPANIŞAD

 

 

 

 

a)          Le classi sociali

Nella Repubblica, Platone, tramite le parole di Socrate, traccia le linee di base dello Stato ideale, dove vige una giustizia teoricamente perfetta. La città deve essere pensata in rapporto alla tripartizione dell'anima umana e quindi essere ripartita in tre “classi” sociali: quella aurea (governanti-filosofi), quella argentea (custodi-guerrieri) e quella bronzea (produttori). La classe dei produttori (artigiani, popolo) ha come caratteristica la temperanza (virtù relativa all'anima concupiscibile, il cavallo nero della biga alata); la classe dei guardiani o guerrieri ha come caratteristica il coraggio (virtù propria dell'anima irascibile, il cavallo bianco della biga alata); la classe dei reggitori dello Stato, infine, cioè quella dei re-filosofi, ha come caratteristica la saggezza (virtù dell'anima razionale, l'auriga della biga alata). “A quanto pare, dunque, in questa gara per la virtù dello Stato, si trova nella Città, insieme con la sua sapienza, temperanza e coraggio, anche l'attitudine a fare ciascuno quel che gli tocca”32. Questa divisione di compiti e di eccellenze, secondo Platone, non sarebbe però operata dagli uomini, bensì dalla natura, una forza superiore all'uomo, che rende lo stesso cittadino tale fin dalla nascita33. Lo Stato ha un'origine naturale: si tratta di una teoria che si differenzia da quelle moderne, propense a pensare lo Stato come oggetto di un contratto sociale. Da rimarcare anche che, secondo Platone, esiste la possibilità che un uomo aureo possa nascere da due uomini di bronzo: tramite l'educazione però potrà elevarsi fino al governo della città. Ne consegue che le “classi sociali” platoniche non sono caste chiuse come quelle indiane. 

La classe dei governanti-filosofi deve detenere il potere, in quanto costoro sono gli unici che dispongono della natura adatta e hanno acquisito i mezzi intellettuali appropriati per non far sprofondare la città nel caos e nel conflitto interno ed esterno: “Non ci sarebbe tregua dai mali nelle Città, e forse neppure nel genere umano, e direi di più, quella stessa costituzione che andiamo delineando non metterebbe radici fra le cose possibili né vedrebbe la luce del sole se prima i filosofi non raggiungessero il potere negli Stati, oppure se quelli che oggi si arrogano il titolo di re e di sovrani non si mettessero a filosofare seriamente e nel giusto modo, sì da far coincidere nella medesima persona l'una funzione e l'altra – ossia il potere politico e la filosofia – e da mettere fuori gioco quei molti che ora perseguono l'una cosa senza l'altra”34.

 

Passiamo ora al versante orientale per considerare le caste indiane. Mircea Eliade scrive al proposito: “Nell'India antica c'è una precisa corrispondenza tra le classi sociali dei brahmana (sacerdoti, sacrificatori), kşatriya (militari, difensori della comunità) e vaisya (produttori) con gli Dei Varuna e Mitra, Indra e i gemelli Nasatya”35.

Angelo Brelich, sempre a proposito delle caste indiane, ricorda che “sin dal periodo vedico, la società arya dell'India era divisa in tre classi (base delle future e molto numerose caste), quella dei Brahmani da cui provenivano i sacerdoti, quella dei guerrieri (e virtuali re, perché il re proveniva esclusivamente da questa classe) e quella dei lavoratori (soprattutto agricoltori, ma anche artigiani, commercianti, ecc.); al di fuori di queste tre classi rimanevano gli autoctoni considerati in blocco come inferiori”36. 

Le Upanişad danno naturalmente una spiegazione metafisico-cosmologica, e non storica, economica o sociale, dell'origine delle caste, che potrebbero provenire, ad esempio dal soffio vitale o prana:   “Come i raggi sul mozzo della ruota, tutto ciò che esiste è fondato sul prana: le rc (inni vedici), gli yajus (formule sacrificali), i saman (melodie liturgiche),  il sacrificio, lo kşatra (il potere regale, la casta dei guerrieri), il brahman (lo Spirito, la casta dei brahmana)”37.

“In tal modo esistono brahman, ksatra, vis e sudra...”38: “Questi sono i nomi delle quattro caste indiane, le prime tre degli arii e l'ultima dei non arii, collettivamente concepite... ”39.

 

In conclusione, su questa prima analogia, le due strutture sociali risultano molto simili, con alla base gli schiavi sia in Grecia che in India. La prima vera classe sociale è, per entrambe  le civiltà, quella dei produttori di ricchezza, degli artigiani. A salire poi troviamo i guerrieri e i re-saggi-sacerdoti. Secondo il concetto platonico il guerriero dovrebbe essere alle dipendenze del re-filosofo, mentre nelle Upanisad, seppur il sacerdote-saggio sia teoricamente più in alto nella gerarchia sociale rispetto al re-guerriero, accade spesso che sia il re a impartire lezioni di saggezza religiosa al sacerdote: lo si evince ad esempio nella Bŗhad-araņyaka-upanişad  ove si narra che il principe  Pravahana Iaivali istruisce il brahmana Gautama (VI 2, 7) e il re Ajatasatru  di Benares insegna il supremo vero al brahmana Drptabalaki (II 1,15).

Interessante notare anche come la donna potesse, in questo primo periodo storico descritto dalle più antiche fra le Upanisad, accedere alla sacra sapienza: ricordiamo il dialogo fra Yajnavalkya e la moglie Maitreyi (Bŗhad-araņyaka-upanişad, II 4). Anche Platone ammette che la donna possa divenire regina-filosofa e inoltre viene spontaneo accostare quest'ultima figura indiana di femminile saggezza a quella di Diotima che nel Simposio dispensa il sapere più profondo a Socrate (201 d , 212 c).        

 

   b)  La trasmigrazione delle anime.

“Molto spesso i miti platonici trattano dell'anima (della sua natura, del destino che l'attende dopo la separazione dal corpo. In verità, …., l'anima rappresenta un elemento cruciale dell'attività mito-poietica platonica, non solo perché costituisce l'oggetto intorno al quale vertono molti miti, ma anche perché l'anima (e le sue parti) è il destinatario privilegiato del discorso mitico”40

Platone si occupa della trasmigrazione delle anime in Repubblica, Fedro, Timeo e Leggi.

Nel Gorgia invece si parla del destino dell'anima che sembrerebbe non reincarnarsi (anche se non tutti gli interpreti sono concordi): essa viene sottoposta al giudizio finale e definitivo basandosi sul comportamento pregresso nel corso della vita terrena. “...nel Gorgia non vi sono strade che riconducano dal Tartaro e dalle isole dei beati; mancano daimon e trasmigrazione”41

“Il Fedone è un'opera interamente dedicata all'immortalità dell'anima e dunque non deve sorprendere che a chiuderla sia un racconto sul destino che attende l'anima dopo la separazione dal corpo”42.  Anche in questo testo sembra però preclusa la reincarnazione delle anime. Si legge infatti: “I premi e le punizioni sono di tipo tradizionale e non vengono attuati per mezzo di appropriate incarnazioni”43 .

Il testo più significativo, per quanto attiene la reincarnazione, pare comunque essere quello della Repubblica, relativo  al “Mito di Er”44.

Mario Vegetti scrive circa questo mito: “Sono stati tracciati, poi, parallelismi con i Veda e le Upanisad per la descrizione del regno dei morti e per cosmologia e astronomia/ordine delle stelle”45; e, più avanti, : “nel mito di Er, rispetto agli altri, vi è un forte rinvio all'Oriente che compare nei nomi, forse nella descrizione del fuso e dei colori dei cerchi, nel tema stesso della storia”46.

Vi è, nel commento di Vegetti, addirittura un paragrafo intitolato Platone e l'Oriente nel quale si legge: “Il tema di eventuali influssi orientali sul mito di Er è un capitolo complesso e – io credo – destinato a restare aperto”47.

 

Nel mito in questione si narra del viaggio nell’aldilà del guerriero Er, che caduto in battaglia di morte apparente, poi ritornato in questa vita, racconta ciò che ha visto: “Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate in un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa [...] E lì vedeva le anime che, dopo aver sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo”48. Queste anime che avevano già scontato la loro pena o goduto del loro premio giungevano davanti all'Araldo delle Moire che così si esprimeva: “Anime dall’effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un demone a scegliere voi ma sarete voi scegliervi il demone [...] Meritava poi vedere, diceva come le singole anime sceglievano le loro vite. Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! [...] E nello stesso modo, passavano dalle altre bestie in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere”49.

 

“Il criterio 'soggettivo' in base al quale le anime, nel mito, scelgono la propria vita futura è in effetti quello 'delle abitudini contratte nella vita precedente' (620 A 2), e più in particolare, il ricordo del piacere e dolore già sperimentati, in quella che è stata perciò giustamente definita una sorta di reminiscenza alla rovescia: il cantore Orfeo, sbranato dalle donne, sceglie di reincarnarsi in un cigno, 'per l'odio che nutriva verso il genere femminile' (620 A 4-5), come Aiace Telamonio, memore del giudizio a lui sfavorevole nell'assegnazione delle armi  di Achille e poiché rifugge dal ritornare a essere uomo, sceglie di reincarnarsi in un leone. L'anima della giovane amante della corsa, Atalanta, in essa sconfitta, non sa resistere ai piaceri che le promette una vita futura da atleta, come il costruttore del cavallo di Troia, Epeo, si sente gratificato dalla possibilità di reincarnarsi in una donna operaia. L'incidenza, nella scelta, del piacere e del dolore noti pare evidentissima nel caso di Odisseo, il quale, seppure sorteggiato ultimo nell'ordine di scelta, proprio per 'ricordo dei precedenti travagli' (620 C 5), sceglie soddisfatto la vita di un individuo privato schivo di ogni seccatura, una vita che nessuna delle altre anime ha voluto e che invece egli volentieri fa sua, affermando che avrebbe fatto lo stesso anche se fosse stato sorteggiato a scegliere per primo”50.       

“Che poi tale visione che si auspica veritiera e non illusoria riguardi in primis e ancora il piacere e dolore e la loro corretta misurazione e mescolanza è evidente dalle modalità con le quali, nel mito Er, le anime scelgono la vita terrena futura. 'Tutto il pericolo per l'uomo' (618 B 7), Platone puntualizza, riguarda infatti 'il saper scegliere sempre e dovunque la migliore' (618 C 5-6) [delle vite] possibili, cioè 'quella mediana  e fuggire gli eccessi nell'uno e nell'altro senso sia...in questa nostra vita, sia in tutta la vita futura' (619 A 5), poiché 'solo così l'uomo può raggiungere il colmo della felicità' (619 B 1). Occorre dunque che l'anima sappia, fra le alternative che ora le sono proposte e nel turno di scelta che le è toccato, 'scegliere con senno' e poi, nella vita che avrà scelto, 'vivere con regola'”51.   

 

Anche nel Fedro52 si parla della trasmigrazione delle anime: “Ora fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore […] è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo”53.

 

Nel Timeo analogamente leggiamo: “Fra quelli che sono stati generati maschi, tutti coloro che sono stati vili e hanno condotto una vita ingiusta, in base al nostro ragionamento verosimile, si sono trasformati in donna alla seconda generazione”; e più oltre: “Quelli poi che sono ancor più privi di intelligenza, che distendono completamente l'intero corpo per terra, poiché non hanno più bisogno di piedi, gli dèi li generano senza piedi e striscianti a terra”; e infine: “E appunto con questi modi allora e ora gli animali si trasformano fra loro, passando da una specie all’altra, subendo metamorfosi a seconda che perdano o acquistino intelligenza o stoltezza”54.

 

Infine, anche nelle Leggi si trova: “Infatti non sarai mai trascurato da essa (dalla sentenza divina); per quanto piccolo tu sia non ti immergerai nella profondità della terra, né, per quanto grande diventerai, ti alzerai in volo in cielo, ma pagherai loro la pena che ti spetta”. Ciò significa che “Ogni singola anima viene trattata con giustizia. Le anime, nel corso del tempo, si uniscono a corpi differenti, secondo che siano diventate, da un punto di vista etico, migliori o peggiori”55.

 Se dunque in Platone la teoria in questione, di derivazione orfica, è sufficientemente costante, seppur con delle variazioni da un dialogo all'altro, vediamo ora cosa affermano le Upanişad a proposito della Trasmigrazione delle anime.

Bŗhad-araņyaka-upanişad:

(III 2,13) “...si diventa buono per l'azione buona, si diventa reietto per l'azione cattiva”56.

 

(IV 4, 5) “...(si) diventa ciò che si è in seguito agli atti da se stessi compiuti”57. In entrambi questi passi è segnalata la fondamentalità dell'azione compiuta per l'acquisizione di una fisionomia morale, che è, a sua volta, determinante.

(VI, 2, 2) “Ho udito esservi due vie per i mortali, una che porta agli dèi, l'altra ai mani”58.  La prima via (quella che porta agli dèi) libera dal ciclo delle rinascite l'anima che con la sua azione morale buona, si sia purificata, mentre la seconda (quella che porta ai mani) non libera dal ciclo e perciò l'anima rinasce in un nuovo corpo.

La cosa è confermata nel passo seguente:

Chāndogya-upanişad:

(V 10, 7) “Coloro i quali hanno avuto una buona condotta possono attendersi una buona rinascita come brāhmana [...]. Coloro che, al contrario, hanno avuto una cattiva condotta possono attendersi una cattiva rinascita come cane o porco oppure candala (fuori casta)”59.

E anche in questo:

Kauşītachi-upanişad:
(I 2, 2) “Chi sei tu? (domanda la luna). 'Io sono' (Colui che così ha risposto, la luna) lo lascia passare oltre”60.   Il Sé cosciente del defunto si presenta alla luna che, in qualità di giudice della saggezza raggiunta in vita, può o meno permettere il passaggio verso i mondi superiori, quelli degli dèi, interrompendo così la ruota delle rinascite.  Da rimarcare che la formula “Io sono” indica che il trapassato, durante la vita terrena, non solo ha seguito la via morale buona, ma soprattutto si è svincolato dalla dualità propria del conoscere ordinario e, infatti, dice semplicemente: “io sono” senza aggiungere alcuna altra determinazione.

Anche i passi di seguito citati confermano quanto sopra.

Śvetāsvatara-upanişad:
(I 11) “Allorché si è riconosciuto il Dio cadono tutti i legami, vengono annientate le sofferenze, cessa nascita e morte”61.

(V 12) “Colui il quale conosce Dio senza principio e senza fine, creatore di tutte le cose, che procede in mezzo al caos, che assume innumerevoli forme, il quale abbraccia, egli solo, il Tutto, costui si libera da tutti i legami”62.

Maitry-upanişad:
(IV 3) “Mediante l’ascesi si consegue l’essenzialità, conseguita l’essenzialità si ottiene l’intelligenza; dall’intelligenza invero è conseguito l’ātman, ottenuto il quale non si torna (a incarnarsi)”63. Viene qui esposto il cammino di crescita che porta alla liberazione dell'esistenza condizionata dalle reincarnazioni. L' ātman relativo, particolare, individuale deve essere superato, mediante la meditazione, per giungere al supremo, assoluto ātman, Spirito puro. Ivi giunti, si percepirà chiaramente anche l'unione fondamentale Atman-Brahman.    

Proviamo a trarre alcune conclusioni su questo tema, partendo proprio dal nodo della liberazione delle anime dalla ruota delle nascite.

“Il mito di Er, a differenza di quello raccontato da Socrate nel Gorgia, non induce all'ottimismo. Le anime vengono effettivamente giudicate secondo giustizia alla fine della loro vita, e tuttavia si tratta di un giudizio in qualche modo irrilevante, e comunque poco significativo, rispetto all'incessante ciclo di incarnazioni nel quale dovranno immergersi nuovamente”64. 

Questa pessimistica interpretazione che Franco Ferrari dà della ruota platonica delle nascite non ci deve però fare dimenticare che  Platone comunque valorizza, in questa stessa sede, l'importanza morale ed esistenziale della “buona scelta”. L'anima che, in base alla memoria pregressa, sceglie bene e con saggezza, vive bene ed è felice. Questa è la speranza e il mito che la narra è detto capace di salvarci perfino qui in terra, oltre che nel cammino millenario che ci attende: “Ci toccherà, insomma, felicità quaggiù sulla terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato”65.  

Anche nel Fedro, la visione platonica è ottimistica fino al punto di essere assimilabile a quella orientale, che prospetta la possibilità di uscire definitivamente dal ciclo delle rinascite: “Ogni anima infatti giunge al punto dal quale era partita non prima di diecimila anni, perché non mette le ali prima di tale torno di tempo, tranne quella di chi ha aspirato sinceramente alla sapienza o ha amato i fanciulli in nome della filosofia. Se queste anime, allo scadere del terzo millennio, hanno scelto questo genere di vita per tre volte di seguito, munite in questo modo di ali, vanno via dopo tremila anni”66.

Dalle Upanişad si trae una importante e basilare speranza: si può uscire definitivamente dalla ruota delle nascite e ci si può ricongiungere addirittura al Tutto grazie a una vita terrena di saggia meditazione che, come detto, faccia percepire chiaramente l'identità fondamentale fra Atman e Brahman.

Entrambe le culture propongono il tema della trasmigrazione delle anime da un corpo all'altro e in entrambe esiste dunque, seppure in forme diverse, questa Speranza salvifica: per l'Oriente si concretizza nell'uscita dalla ruota delle nascite con conseguente ritorno al Tutto, mentre per Platone in una speranza di salvezza sia in vita che nell'aldilà. Nel Fedro poi Platone si avvicina alla concezione orientale in maniera significativa, parlando anche lui delle anime dei saggi che mettono le ali e volano via dal ciclo delle nascite. 

 

    c)   La vera conoscenza.

Platone tratta della vera conoscenza nel “Mito della Caverna”. Comunque, già in conclusione del libro VI della Repubblica, egli si era occupato delle varie forme di conoscenza67: eikasia e pistis nel campo sensibile e dianoia e noesis nel campo intelligibile. La noesis (intellezione diretta, sapere non ipotetico) è posta al vertice delle conoscenze e riguarda il filosofo che è “ancorato alle idee senza ricorrere alle immagini”68.

Nel mito in questione viene descritta la difficoltà dell'uomo a innalzarsi dal mondo sensibile a quello intelligibile, dalle opinione e dalle passioni alla scienza e al bene. Viene quindi evidenziata la riluttanza, anzi l'aperta ostilità degli uomini, schiavi delle opinioni e delle passioni, ad ascoltare gli insegnamenti dei filosofi. Ma il filosofo, che nel racconto è l'unico ad essere uscito dalla caverna ed è quindi l'unico ad essere pervenuto a  conoscere il Sole - Bene, ha però l'obbligo (pur essendo incompreso e osteggiato) di ritornare nella caverna per cercare di aiutare gli altri a liberarsi a loro volta.  

Rileggiamo dunque la celebre immagine: “Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti [...] credi, innanzi tutto che vedano di sé e degli altri qualcos’altro, oltre alle ombre proiettate dal fuoco sulla porta della caverna che sta di fronte a loro?”, chiede Socrate a Glaucone prospettando la conoscenza dei sensi come opinione illusoria. “Osserva ora […] che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dai legami e la guarigione dalla loro follia […] <il prigioniero ora liberato>  prima vedeva semplici illusioni, e […]  ora, più vicino all’essere e rivolto verso gli oggetti di maggiore esistenza, vede in modo più corretto [...] e finalmente, penso, potrebbe fissare non già le parvenze del sole riflesse nell’acqua o in luoghi estranei, bensì il sole stesso nella sua propria sede, e contemplarlo qual è”69.

La liberazione conoscitiva coincide dunque, in questa immagine, con la visione diretta delle cose sensibili e del Sole, che metaforizza il principio del Bene:“[…] nel mondo delle realtà conoscibili l'Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta non si può fare a meno di dedurre, in primo luogo, che è la causa universale di tutto ciò che è buono e bello – e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce e il signore della luce, e in quella intellegibile procura, in virtù della sua posizione dominante, verità e intelligenza – e, in secondo luogo, che a essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e privata”70.

 

Il Mito della Caverna si chiude con un’asserzione che celebra la fondamentalità della conoscenza intellettiva: “Ebbene, le altre che si dicono virtù dell’anima forse si avvicinano in certo modo a quelle del corpo. Ché realmente anche se non vi sono dentro prima, forse vi vengono infuse più tardi dalle abitudini e dagli esercizi. Ma la virtù dell’intelligenza è propria più d’ogni altra, come pare, di un elemento più divino, che non perde mai il suo potere e che, secondo come lo si rivolge, è utile e vantaggioso o inutile e dannoso”71.

 

La differenza principale fra questa concezione platonica del Bene-Sole e quella vedica del Brahman è ben segnalata nel passo che segue, ove si parla appunto di uno Spirito individuale (atman) che si congiunge con lo Spirito Universale (Brahman). Il Bene platonico  non è invece catalogabile come Spirito ma come Idea, anzi come l'Idea fondamentale. 

“La visione classica delle Upanişad : mediante la conoscenza si ottiene la liberazione, la quale null'altro è che l'intuizione immediata e continua di ciò che si è....lo Spirito individuale o anima vivente si ricongiunge alla sua realtà, che è il supremo vero, ossia il Brahman”72.

Importante anche il riscontro che troviamo in Bŗhad-araņyaka-upanişad:

(IV 4,10-11) “Sprofondano nelle tenebre cieche coloro che l’ignoranza allevano; in più profonde tenebre procedono quelli che di sapere compiaccionsi.  Senza gioia chiamansi questi mondi, di cieca tenebra avviluppati; è là che vanno, una volta morti, gli ignoranti di intelligenza privi”73 . Questo passo ci vuole insegnare che coloro che non conoscono il Brahman, spirito vitale, pura energia, non hanno speranza e sono attesi da un mondo di tenebre sia prima che dopo la morte.

E ancora: (IV 4, 19-20) “Con la mente invero devesi (vederlo) non, invero, pluralità alcuna qui esiste; da una morte passa a un’altra morte colui che qui (solo) il molteplice contempli. Come unità devesi vedere questo incommensurabile, stabile Infinito;  […]”74. Ci vengono qui date istruzioni filosofiche su come interpretare il Brahman e pervenire alla conoscenza autentica: esso va inteso non come pluralità, non come molteplice ma come unità stabile pur se incommensurabile.

Interessante, in questa stessa prospettiva, anche la Aitareya-upanişad:

(V 3) “… Il mondo è guidato dalla sapienza, la sapienza è la sua base, la conoscenza (di per sé) è il bráhman (medesimo)”75. Si ritorna qui a sottolineare l'importanza della conoscenza: “nel pensiero indiano essere e conoscere si corrispondono così come la non conoscenza equivale al non essere o all'illusione di essere limitato”76.    

La cosa è ribadita anche in Maitry-upanişad:

(III 2) “...privo della conoscenza, soggetto a desiderio, agitato e condotto a credersi   <un Io individuale, separato>, egli quindi dice: 'io', 'esso', 'questo mi appartiene'. Si lega da se stesso, come un uccello con il laccio. Subendo il frutto derivante dalle azioni, ottiene una matrice favorevole o sfavorevole...”77. L'uomo privo di conoscenza si imprigiona da solo legandosi al proprio apparente io individuale. In questi due verbi (legare, imprigionare) sta una similitudine forte con il mito della caverna. In questo passo orientale comunque si pone l'accento soprattutto sull'inconsistenza dell'Io empirico (atman individuale) per richiamare, indirettamente, l'importanza dell'Io assoluto (atman universale che sappiamo essere un unica entità con il Brahman).  

Suggestivo anche il seguente riscontro: (VI 25) “… Colui che ha i sensi assorti come in un sonno profondo, vede mediante il pensiero più puro, come in un sogno, nella caverna dei sensi, ma non soggetto al loro potere, (l’intimo movente) chiamato om, che ha la luce come forma, che è libero da sonno, da vecchiaia, da morte, da dolore...”78.

La caverna dei sensi! Qui il parallelo con Platone si impone automaticamente. Infatti, nel passo di cui sopra, si dice che chi usa l'intelletto più puro (noesis platonica e om orientale) si libera dall'inganno dei sensi e dalle sue innumerevoli illusorie conseguenze. 
Un ultimo riscontro teoreticamente importante si trova in Kena-upanişad:

(II 2, 3) “...egli non sa che non sa.... L’ignoto, per coloro che conoscono, è il noto per coloro che non conoscono”79.  Il prigioniero della caverna dei sensi non sa di non sapere e continua a scambiare le ombre (l'inganno dei sensi) per la realtà.


Da quanto documentato si può concludere che in entrambe le tradizioni di pensiero si rifiuta come fallace la conoscenza fondata sulle impressioni sensibili (frutto della caverna dei sensi), mentre si attribuisce la massima importanza alla conoscenza superiore (quasi una scintilla divina!). Infatti Platone esalta la noesis (frutto della ricerca dialettica) come porta d’accesso alle idee e dunque all’Essere, all’Iperuranio. I Veda esaltano il sapere per eccellenza, sapere intuitivo, istintivo che permette al saggio orientale di conseguire l’esperienza dell'identità fra Ātman-Bráhman penetrando nei mondi celesti.

La principale dissonanza fra  Platonismo e Oriente è data invece dal fatto che il Bene platonico è una Idea e non uno Spirito come invece è il Brahman. Altra importante differenza che emerge dal confronto si basa sulla rilevanza data all'<Io>. Per i Veda l'Io individuale è solo un inganno che il saggio deve superare arrivando all'Io universale e poi al Brahman. Secondo Platone invece l'Io del filosofo deve restare ben saldo e anzi “assumersi le responsabilità della difesa dello Stato”80.   

 

 

 

     d)   L'Uno e i Molti.

Ci occupiamo ora delle cosidette “dottrine non scritte” di Platone intorno alle “cose supreme e prime”, dottrine delle quali abbiamo notizia soprattutto grazie ad Aristotele e alla sua Metafisica. Qui si ascrive a Platone un Uno come principio di tutte le cose e una Diade indefinita (il grande e il piccolo). L’Uno sarebbe, sempre secondo quanto riporta Aristotele, identificato con il Bene, il positivo e la determinatezza. La Diade, che è il molteplice, è identificata invece con il Male, con il negativo e con l’indeterminatezza. Stiamo quindi affrontando un problema metafisico di fondo: il rapporto bipolare, di origine pitagorica, fra gli opposti: l'Uno e il molteplice. Il mondo è uno ma appare molteplice.

“Non si può negare che siamo effettivamente in presenza di una concezione grandiosa, secondo la quale la realtà è come una gerarchia di piani discendenti dagli stessi principi ed in base alla quale è possibile trovare la soluzione di tutti i problemi sia scientifici che etici”81, conclude, al proposito, Enrico Berti nella sua Storia della Filosofia. Antichità e Medioevo. Questo passo ci vuole significare che l'Uno, il Bene, non rimane unitario ma prima si cala nelle idee (che sono ordinate ma sono tante) e poi anche nel mondo sensibile, a sua volta molteplice e diveniente. L'Uno dunque non rimane uno (come invece era per Parmenide) ma scende di livello presentandosi volta a volta sotto molteplici aspetti. Lo stesso concetto viene espresso anche nella citazione aristotelica che segue.

“Poiché, quindi, le Forme (Idee) sono causa delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle Forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il Grande-e-piccolo, e come causa formale l’Uno”82.

E ancora:“Da quanto si è detto risulta che egli (Platone) ha fatto uso solo di queste due cause: quella formale e quella materiale. Infatti, le idee sono cause formali delle altre cose, e l’Uno è causa formale delle altre Idee. E alla domanda quale sia la materia avente funzione di sostrato, di cui si predicano le idee nell’ambito dei sensibili, e di cui si predica l’Uno nell’ambito delle Idee, egli rispose che è la dualità, cioè il Grande-e-piccolo. Platone, inoltre, attribuì la causa del bene al primo dei suoi elementi e attribuì quella del male all’altro”83. E' come se la potenzialità negativa della materia si manifestasse gradualmente: al livello ontologico dell'Uno non la si percepisce. Nel mondo delle idee non si manifesta come male ma come ordinata molteplicità. Nel disordinato mondo sensibile la componente di imperfezione è invece dominante e la potenzialità negativa della materia si realizza in pieno.

L'Uno pare dunque essere Bene assoluto: riferisce ancora Aristotele: “Fra coloro che affermano l’esistenza di sostanze immobili alcuni dicono che lo stesso Uno è il Bene in sé; certamente essi ritenevano che l’essenza di esso fosse l’Uno”84.

.

Passiamo ora ad esaminare quanto afferma il pensiero indiano in merito al raffronto fra l’Uno e la molteplicità. Va comunque preliminarmente fatta una precisazione. Nel Platone delle “dottrine non scritte”,  l'Uno e la Diade sono i principi trascendenti l'intera realtà sensibile. Nelle Upanişhad il fondamentale Atman-Brahman è, invece, esso stesso l'unico tutto: esso è tutte le cose e tutte le cose sono in esso. Si tratta quindi di una realtà che è, al tempo stesso, immanente e trascendente.

La Bŗhad-āraņyaka-upanişhad sottolinea così il suo esser principio fondante:

(II 1, 20) “Come un ragno sale per il suo filo, come le piccole faville montano dal fuoco, egualmente da questo ātman escono tutti i sensi, tutti i mondi, tutti gli dei e tutti gli esseri. La conoscenza dell’ātman è pertanto il reale del reale”85.

E ancora: (III 7, 15) “Colui che, risiedendo in tutti gli esseri, da tutti gli esseri è diverso, lui che tutti gli esseri non conoscono, per il quale tutti gli esseri sono corpo, lui che governa dall’interno tutti gli esseri, questi è il tuo ātman, l’intimo reggitore, l’immortale”86.

Il passo seguente segnala l'unità del fondamento e il suo esprimersi in forme molteplici: (IV 5, 15) “La dove sussiste dualità, ivi l’uno adora l’altro, l’uno vede l’altro, l’uno parla all’altro, l’uno pensa qualcosa di altro (da sé), l’uno conosce l’altro; ma, allorché tutto è diventato il Sé (ātman) di ognuno, l’odore di chi e mediante che cosa si potrà percepire? chi si potrà vedere e mediante che cosa? chi e mediante che cosa si potrà udire? a chi e mediante che cosa si potrà parlare? a chi e mediante che cosa si potrà pensare? chi e mediante che cosa si potrà conoscere?”87.

Simili le affermazioni in Chandogya-Upanişad:

(VI 2,1) “All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’essere unico e senza secondo. Altri in verità dicono: All’inizio vi era il non essere, uno e senza secondo; da questo non essere nacque l’essere”88.

Qui viene posta la domanda cruciale per la filosofia in generale: l'Uno è sempre esistito come “essere” oppure questo Uno era il “non essere” dal quale nacque l'essere? L'essere unico è nato dal nulla, oppure non è mai nato essendo eterno?

La risposta è contenuta nelle citazioni che seguono:

(VI 2, 2) “Come, però, potrebbe essere così, mio caro? Come può l’essere nascere dal non essere? In verità è l’essere, il quale esisteva al principio delle cose, l’essere solo e senza secondo”89.

(VI 2, 3) “Allora (l’essere) pensò: Possa io diventare molto! Possa io generare!”90.

(VI 10,2) “Egualmente, in verità, mio caro, tutte queste creature, pur nascendo dall’essere, non sono coscienti del fatto che provengono dall'essere”91.

Al proposito Alan W. Watts commenta: “Fondamentale per la vita e per il pensiero dell'India dei tempi più remoti è il grande tema mitologico dell'atma-yajna, l'atto dell''auto-sacrificio' con il quale Dio fa nascere il mondo.... l'Uno morendo nel Molteplice”92.  

E, a conferma di quanto sopra, Ananda K. Coomaraswamy scrive: “Avviene così un'incessante moltiplicazione dell'Uno inesauribile e un'incessante unificazione della molteplicità indefinita. Questo è l'inizio e il termine dei mondi e degli individui: dispiegatisi da un punto privo di posizione o di dimensioni e da un presente senza data e durata, compiono il loro destino, e quando il loro tempo è giunto tornano 'a casa', al Mare da cui la loro vita ha avuto origine”93 .  

Dai testi che abbiamo provato ad accostare possiamo concludere quanto segue: emerge chiaramente, da quanto sopra, che entrambe le scuole di pensiero, pur mantenendo alcune essenziali differenze (rapporto trascendenza/immanenza, molteplicità declinata da Platone specificamente come diadicità),  si basano sulla bipolarità fra gli opposti (l’Uno e i Molti), all’interno della quale però l’Uno è valutato come il positivo e il vero, mentre il molteplice è considerato come il negativo e l’illusione. In questo giudizio filosofico-religioso la convergenza fra i due mondi (indiano e greco) è molto forte. Al proposito si ricordi anche ciò che afferma Fa zang, citato nell'articolo sopra richiamato di Giangiorgio Pasqualotto : “...non ci sono onde senza mare e non c'è mare senza onde”94, a significare che il molteplice (le onde) ha bisogno dell'Uno (il mare) e, viceversa, il mare (l'Uno) ha bisogno delle onde (il molteplice). 

 

 

32. Ivi, 433 d

33. Ivi, 414 b – 415 d, è ricordata la “nobile menzogna”, che narra della nascita di tutti gli uomini dalla terra (e non da altri uomini) avendone in dote un'anima d'oro, d'argento o di bronzo, che determina l'inclinazione naturale, ancor prima che la posizione sociale.

34. Ivi, 473 d -e.

35. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, cit., p. 213.

36. Angelo Brelich Introduzione alla storia delle religioni, cit,. p.192.

37. Prasna-upanişad, II, 6, cit., p 443.

38. Brhad-Aranyaka-upanişad, I, 4, 15, cit., p. 39.

39. Ibidem, nota 22.

40. Franco Ferrari  (a cura di), I miti di Platone, cit., p. 23.

41. Mario Vegetti (traduzione e commento a cura di), Platone La Repubblica, Bibliopolis, Napoli, 2007, Volume VII, p. 283.

42. Franco Ferrari  (a cura di), I miti di Platone, cit., p. 49.

43. Ivi, p. 256

44. Platone, Repubblica, cit., 614b-621d. 

45. Mario Vegetti (traduzione e commento a cura di), Platone La Repubblica, cit., Volume VII, pp. 306/307.

46. Ivi, p. 283. Va precisato, ad onor del vero, che l'Oriente di cui tradizionalmente si parla per il mito di Er è il 'vicino Oriente', quello dell'astronomia assira e babilonese.

47. Ivi, p. 297

48. Platone, Repubblica, Libro X, 614b-621d, in Opere complete, 6,  cit,. pp. 337-338.

49. Ivi,  pp. 341-344.

50. Linda M. Napolitano Valditara, Prospettive del gioire e del soffrire nell'etica di Platone, Edizione Università, Trieste 2001, p. 152.

51Ivi, p. 150.

52. Platone, Fedro, cit., 248 e.

53. Platone, Fedro, in Opere complete, 3, cit.,, 249 b.

54. Platone, Timeo, in Opere complete, 6, cit., 90 e -91 a, 92 a -b, 92 c.

55. Platone, Leggi, libro X, 905 a, Opere complete, 7, cit.

56. Bŗhad-araņyaka-upanişad, III 2,13, cit., p. 66.

57. Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4, 5, cit., p.94. 

58 Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4, 5, cit., p. 116.

59. Chandogya-upanişad, V 10, 7, cit., p. 196.

60. Kauşītachi-upanişad, I 2, 2, cit., p. 292.

61. Śvetāsvatara-upanişad, I 11, cit., p. 321.

62. Śvetāsvatara-upanişad,  V 12, cit., p. 331.

63 Maitry-upanişad, IV 3, cit., p. 394.

64. Franco Ferrari  (a cura di), I miti di Platone, cit,. p.50.

65. Platone, Repubblica, cit., 621 d.

66. Platone, Fedro, cit., 249 a.

67. Platone, Repubblica, cit., 509D-511E.

68. Franco Ferrari  (a cura di), I miti di Platone, cit,. p. 202.

69. Platone, Repubblica, cit., 514A-519A.

70. Ivi, VII, 517 C. 

71. Ivi, VII,  518E - 519A.

72. Pio Filippani-Ronconi (a cura di), Upanişad antiche e medie, cit., p. 242.

73.  Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4,10-11, cit., p. 95.

74. Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4,19-20, cit., p. 96.

75. Aitareya-upanişad, V 3, cit., p. 283.

76. Pio Filippani-Ronconi (a cura di), Upanişad antiche e medie, cit., p. 282, nota 14.

77. Maitry-upanişad, III 2, cit., p. 391.

78. Maitry-upanişad, VI 25, cit., p. 409.

79.  Kena-upanişad, II 2,3, cit., pp. 430-431.

80. Platone, Repubblica, cit., 521 B.

81. Enrico Berti, Storia della Filosofia Antichità e Medioevo, cit., p. 82.

82. Aristotele, Metafisica,  A 6, 987, b 18-21,  p. 37, a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993.

83. Ivi, A 6, 988 a, 8-15, p. 39.

84. Ivi, N 4, 1091 b, 13-15, p. 273.

85. Bŗhad-āraņyaka-upanişhad, II 1, 20, cit., pp. 50-51.

86. Ivi, III 7, 15,  p. 71.

87. Ivi, IV 5, 15,  p. 101.

88. Chandogya-Upanişad, VI 2,1, cit, p. 204.

89. Ibidem, II, 2.

90. Ibidem, II, 3.

91. Ivi, X, 2, p. 210.

92. Alan W. Watts, La via dello zen , Feltrinelli, Milano, 1991, p. 48.

93. Ananda K. Coomaraswamy, “Induismo e Buddismo”, SE srl, Milano, 2005, p. 28.

94. Cfr http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517

 

 

 

 


    
CONSIDERAZIONI FINALI

 

 

“Che le parole platoniche echeggino storie orientali è indubbio. Non è, però, assolutamente chiaro, né probabilmente decidibile, fino a che punto si tratti di semplici assonanze. Il tema si colloca in quello più vasto delle relazioni della cultura greca con le tradizioni orientali. Già nel III-II secolo a.C. e poi via via, nei secoli seguenti, molti autori antichi hanno parlato dell'incontro tra culture, degli insegnamenti che i primi filosofi avrebbero tratto dalla saggezza orientale. Una dipendenza di Platone e di Pitagora da tale saggezza è sostenuta da più autori; in particolare ne parlano Proclo e Clemente. Questi elabora la teoria del furto che i Greci avrebbero compiuto nei confronti delle sapienze orientali”95 .

Noi vorremmo concludere questo lavoro escludendo, per ragioni subito sotto indicate, “il furto greco” al quale qui si accenna.

Da dove originerebbe allora la sintonia riscontrata fra due civiltà così lontane nello spazio (diverse migliaia di chilometri dividono le due terre) e nel tempo (almeno cinque secoli separano i Veda dagli scritti di Platone)? La distanza geografica e temporale, oltre che le differenze linguistiche, farebbero escludere l'ipotesi del furto.

Improbabile poi è che Platone abbia avuta conoscenza, anche solo indiretta, dei Veda e delle Upanişad visto che Alessandro il Grande, primo vero ponte fra Occidente e Oriente, è di molto posteriore.

Resta solo da pensare che le due civiltà superiori, quella indiana e quella greca, abbiano avuto percorsi di sviluppo similari: il centro comune di origine fu infatti la civiltà mesopotamica, prima civiltà superiore fiorita nel 4° millennio a.C.; da questa civiltà trae origine quella egizia che, a sua volta, influenza la civiltà minoico-cretese, madre di quella greca. Nell’altra direzione, sempre partendo dalla Mesopotamia, si passa alla cosidetta civiltà di Mohenjo-Daro con tappa finale nell’India Vedica96: tenendo presente tale comune punto di partenza, storico e culturale, potremmo anche comprendere come esse siano giunte, con i loro uomini più saggi, a conclusioni concettuali simili.

“Se è vero, come afferma Alfred Jeremias, che le varie culture dell'umanità sono in realtà solo dialetti di un unico e identico linguaggio dello spirito, è certamente giusto che gli studiosi dell'uomo si domandino quando e dove questo linguaggio dello spirito possa aver avuto origine”97

 

95. Mario Vegetti (traduzione e commento a cura di), Platone La Repubblica, cit., pp. 298-299

96. Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, cit., p. 151 e seguenti: nascita delle civiltà superiori

97.  Ananda K. Coomaraswamy, Sapienza Orientale e Cultura Occidentale, cit., p.109.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 http://www.estovest.net/tradizione/platoupanish.html

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517

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