Analisi di opere letterarie

L’opera di Daria Martelli

.

Il gioco dei tradimenti

(Venezia-Roma, Edizioni di S. Marco, 1986)

.

Il gioco dei tradimenti, il titolo di un racconto, che il nome a questa raccolta di quattordici racconti di Daria Martelli, indica una significativa chiave di lettura che sottende le altre. La scrittrice padovana non vuole solo darci uno squarcio sull’universo della grande anonima città industriale, afflitta dai mali del mondo moderno, le cui vicende, portate ai confini dell'assurdo, e i cui deliri paranoici sono una chiara denunzia dell'odierna perdita di senso dell’agire umano, ma vuole anche "costruire", attraverso le sue storie, un messaggio positivo.

Il freddo mondo della cronaca offre alla giornalista una umanità che si dibatte avvolta nella sua nevrosi, dilaniata dalle passioni, perduta nella routine quotidiana, impaurita dalla solitudine e dalla noia, in un ambiente che soffoca invece di stimolare. Questo degrado antropologico ha come indicatori il successo, la fortuna, la ricchezza, la moda, l’emancipazione sessuale, insomma il primato del corpo e dell’effimero in una palingenesi di valori al contrario che possono allignare e portare ad esiti estremi solo perché manca il calore dell'amore, della famiglia, dell’amicizia, della religione; e il freddo del cuore alimenta il gioco dei tradimenti. Ma i personaggi della Martelli si scambiano, nella vicenda quotidiana, i tradimenti poiché anch’essi si trovano immischiati in un più ampio gioco di tradimenti che sono di ordine sociale fino ad arrivare al grande tradimento della razionalità tecnico-scientifica scoperta dall’era post-industriale.

I miti del progresso, creduti garanzia di una società più giusta, hanno, invece, dato luogo a quei processi di obsolescenza della razionalità le cui tracce si colgono nelle allucinanti storie citate e formano la materia vischiosa dei tradimenti da cui, oggetti o soggetti, sembra non poter uscire. Invece, come abbiamo detto, la Martelli ce ne indica la via e lo fa discretamente rifuggendo da saccenterie o moralismi "per via di accenni quasi come dice l’ottimo prefatore Mario Lunetta; ce la fa intravedere attraverso le significative conclusioni dei racconti o nella puntigliosa descrizione di certi disvalori, ma soprattutto l'indica con la sottile ironia sul "negativo" affidando a questo il compito di portare al "positivo".

Questa operazione però si completa a lettura ultimata, quando l’insieme appare come una pellicola al negativo il cui sviluppo sta al lettore realizzare; e qui si mostra la fecondità dell’opera letteraria che diventa opera d’arte, nella possibilità, cioè, che i suoi messaggi possano trovare adeguate risonanze in tutti gli animi come un sasso lanciato in uno stagno i cui giri concentrici dipendono dall’ampiezza dello stesso. A noi interessa indicare questo filo rosso, la "logica interna" (è sempre il Lunetta a parlare) e per far ciò dobbiamo partire dal più grave dei tradimenti che determina la negatività dei personaggi: quello contro se stessi.

Un tradimento indicato nella chiusa dell’ultimo racconto: "Pensavo a quella donna, che aveva trovato la serenità al di là della rinuncia a se stessa (sottolineatura mia), in una deserta sopravvivenza e per questo si credeva saggia. Quale ferreo patto la legava all’opacità quotidiana tanto da. farla sentire, se si avventurava fuori di essa, come una schiava fuggitiva, senza diritto e senza assoluzione? Quella vocazione era sbagliata, sì, perché era una sorta in chi non aveva la lucidità e la forza di liberarsi". Questi, personaggi negativi-in-funzione-positiva navigano nel mondo vuoto, anonimo e freddo dell’altro, del fuori-di, inseguono, rappresentano, celebrano grossi disvalori, poiché hanno tradito i propri valori, quelli che ognuno di noi porta stampati nel codice genetico dell’humanitas e che si scoprono solo se non si rinunzia a se stessi, se si ha la "forza per liberarsi" dalle contingenze del nostro-essere-anche-natura. È una umanità cieca, resa cieca, tradita, debole, malata di cui si deve prendere atto, ma da cui bisogna pure prendere le distanze in un atteggiamento costruttivo, proprio come fa la Martelli.

Ma seguiamo un po' più da vicino, anche se solo per sommi capi, questo filo rosso: lo scorgiamo nella necessità che Maurizio (primo racconto) avverte di difendere "quella linea che divideva, proteggendolo, il sogno dalla realtà" al di là della quale ha messo una donna, Cristina, e l’ha elevata a "regina al di sopra e tanto più lontana […] delle altre donne fatte di carne che non si amano […] perché c’è […] l’unica degna di vero amore […] che doveva rimanere nel sogno ferma e splendente nel suo fascino". Non è masochismo scacciare Cristina, che gli si era offerta in modo "sleale", ma è sentire l’ideale come "necessario per sopportare questa [la         realtà]", come un profumo che annulli l’olezzo dei putridi fiori del mondo,      come un’oasi di dol-cezza, dove l'animo stanco di piaceri senza desio possa riposare; ancora scopriamo il "positivo" nell’allucinante monologo del ricco ragioniere di Griffes che s’illude di poter sfuggire a se stesso e alle proprie radici nascondendosi dentro le grandi firme della moda, o nelle illusioni di Loredana (La vestaglia) che naufragano in una tragica beffa; ce lo indica, infine, Livio del bellissimo racconto L’altro che è una significativa allegoria dell’uomo che scopre il bisogno di rapporti più profondi, le cui "infinite possibilità" hanno la forza "di un fiume spinto alla sua foce       dal volume stesso delle sue acque", per cui preferisce al fastidio della normalità, del tempo grigio senza tempo" quella vita che è "dubbio, tormento, schiavitù e liberazione".       

Ci sono poi i racconti che possiamo chiamare della "solitudine", quelli centrali (Con Elvira, Il bisogno, Nella nebbia, Amore puro, In città), nei quali questa è "una ignota orrenda dimensione" che tiene lontano dal rassicurante "mondo normale degli altri" per cui la notte diventa una "nera voragine senza fondo," il dormire "un lasciarsi cadere dentro per disperazione," tanto diversa dalla solitudine di cui l’animo umano ha bisogno perché il pensiero possa, ripiegandosi in sé, attingere alle ricchezze interiori. Ma quando questo "dentro" è vuoto allora la solitudine diviene paura nevrotica da eliminare pur con l’assurdo esito di Massimo (Con Elvira) o porta alla degradazione di Guido (descritta magistralmente ne Il bisogno) che torturato dal problema di riempire il suo "vuoto" lo fa con il cibo giungendo a vedere il "mondo ridotto a stomaco, che è l’immagine capovolta della vita che s’illumina dell’alimento dello spirito. E siamo alla solitudine che genera lo stato di offuscamento razionale di Sera di nebbia ben metaforizzato proprio da quella nebbia di cui Michele, preso dal raptus omicida, non ha più paura, anzi ne sente la complicità" attingendone "sicurezza"; o che porta all’annientamento totale di Amore puro, ove nella segregazione e nel rigetto del mondo, l’amore cieco della madre crea una falsa "oasi di dolcezza" che produce la mostruosità. Poi con Daniele (In città) dopo che i due racconti centrali della raccolta hanno descritto la massima degradazione umana in un completo obnubilamento dello spirito, scopriamo che la solitudine può essere anche "bisogno di sostare e riflettere".

Il pensiero riflesso che porta in noi stessi è dunque la via per costruire il nostro "dentro". Stridente appare allora il contrasto con la "corazza" esteriore, gli abiti, di cui s'era fornita l'anonima (Una donna elegante) "che non riesce ad elaborare un vero e proprio concetto" poiché a lei le parole servono solo come "commento sonoro di una scena, quella della [sua] eleganza". Di contro a questo disvalore narcisismo-effimero-esteriorità c’è l’anti-disvalore (la pellicola comincia a diventare positiva), la dottoressa Viviani, col suo modo di parlare "convinto e convincente, quasi appassionato di parlare […] come se dalla soluzione [… dei suoi] problemi e dal trionfo [… delle sue] idee dovesse dipendere la sua felicità", una donna che non deve amaramente constatare che la vita [le] è sfuggita", che "gli anni pesano come cadaveri" o che il passato è "un cimitero disseminato di date di decessi".

Facciamo un altro passo verso la costruzione del nostro positivo con l’anziana maestra (Di ferragosto) che nel bilancio della sua vita scopre amaramente che "tutto era stato deciso fuori di lei" e che lei era un viluppo oscuro di fatti e di sentimenti […] qualcosa di opaco e pesante che era dentro e doleva a tratti". Ora è chiaro che è dentro di noi che si deve alimentare quella luce (la madre della nostra maestra non invitava la figlia a fissare la luce per fugare gli incubi notturni?) capace di illuminare qualsiasi vita e dar senso alle cose, con la quale si può vivere anche nel deserto. Altrimenti si prendono grossi abbagli come succede alla povera Silvia (Diciassette anni) succube di una falsa idea della emancipazione femminile, tradita dalla morale bigotta della madre, dalla famiglia sterile di valori dalla scuola assente, mentre proprio queste assenze mettono in risalto la validità di questi istituti per far crescere negli animi dei giovani quelle ricchezze di cui dicevamo.

Giulia (La menzogna) invece ci dice che l’uomo ha insospettate possibilità di ripresa, quando, assalita "dalla paura di non sapere più chi è e di non essere più nulla" (sottolineature mie), capisce che non si può negare la propria vita e se stessi e segue la sua antica passione "che la protegge, la potenzia, la completa, che la fa sentire giovane" " perché è una passione che viene e brilla dal di dentro. Allora avverte di non essere più "quella che è guardata apprezzata, ora è lei che guarda, sceglie, indica": si è finalmente sottratta all’atroce condizione di oggetto in cui a poco a poco era scivolata".

Ma non ci vogliono solo vocazioni particolari per venire in possesso di se stessi, lo è l’anonima protagonista dell’ultimo racconto che proprio per la sua acquisita umanità riesce a comprendere il dramma di Lidia, una "donna che si era persa" per aver tradito se stessa in una insana lotta contro "un tenace e doloroso desiderio" che le provocava "gioia" (quanto diversa dal piacere che non accontenta per cui subito bisogna cercarne un altro) come tutte le soddisfazioni spirituali e che la faceva inseguire "silenziose armonie" per dare "il priorato" (efficace immagine) alla realtà concreta. Appassisce lentamente Lidia "riancorata ai modi comuni del sentire […] reinserita nel ritmo delle abitudini [...] del vivere giorno per giorno" ridotta ad "un'altra donna".

La falsa visione di Lidia che considera "tentazione, vizio, ossessione" una vocazione artistica che è, invece, la massima espressione umana, è un'altra assurda negatività, ma ora i tratti sono più chiari, la pellicola negativa è nell’ultima soluzione dello sviluppo: già appaiono i segni di quella che sarà l’immagine al positivo.

All’umanità delirante e vuota che riduce la vita ad un disarmante processo di soddisfazione degli istinti, tutta protesa all'avere (o all'apparire) più che all'essere, a questa umanità tradita manca la vita dello . spirito: è questo il messaggio profondo che la Martelli affida ai suoi racconti.

.

In "Forum Italicum", v. 22, n. 1, 1988, pp. 113-116.

 

 

 

 

Indice Letteratura

Scrivi

Home

  

© www.mimmademaio.com - 2002