Lettura di opere letterarie 

Un fustigatore scherzoso

 

Paolo Spirito de L'uomo della strada

(1989)

 

"Se non avessimo difetti non proveremmo tanto piacere a notare quelli degli altri", recita, in epigrafe al bel libro di Paolo Spirito, una massima di La Rochefoucauld con la quale l'autore sembra volersi giustificare di colpire con i suoi sorridenti ammiccamenti alcune abitudini dell'uomo contemporaneo.

Invece proprio la chiara coscienza dei nostri difetti ci mette nella condizione privilegiata di osservare quella realtà, in quanto compartecipi, con maggiore possibilità di penetrazione e di lanciare nel contempo maliziose e smitizzanti occhiate al di là dei veli di un, a volte, troppo camaleontico comportamento.

La profondità psicologica e la causticità dello scherzo uniscono adunque le trentuno parabole moderne de L'uomo della strada in uno stuzzicante quadro della nostra epoca; esse, divertendo, ci guidano alla presa di coscienza di una realtà altrimenti sfumata dalla consuetudine, che tuttavia non tarda a ravvivarsi, offrendo ad ognuno la possibilità di situarsi in essa secondo le personali connotazioni.

È un'operazione di morbido coinvolgimento attutito appunto dallo scherzo e facilitato dall'uomo esopico che è in ognuno di noi. Allora il mirino di Paolo Spirito diventa il nostro, con lui ci rallegriamo dei vizi dei politici, scherziamo sui vezzi linguistici del nostro tempo, sorridiamo di certi atteggiamenti o di strane opinioni divenuti di costume, ticchi o fisime epocali che hanno la rassicurante labilità del provvisorio.

Tutto ciò avviene attraverso i brevissimi brani, che prima abbiamo chiamato parabole per il velame che li copre, e che rivelano una varietà narrativa determinata proprio dalla multiformità del concreto vivere umano che descrivono. Difatti ora sono seriose riflessioni o rimbeccanti proposte, ora sorridenti pennellate o semplici annotazioni, altre volte sembrano chiare esplicazioni, precise puntualizzazioni, convinte asserzioni, o diventano contegnose constatazioni e sostenute confutazioni, a cui i sapienti tocchi di espressioni dense, ma lucide, in un periodare fresco e spontaneo, come cameratesco colloquiare, insieme al piglio sicuro dell'ironia, danno briosità espressiva, creando un modello narrativo nuovo ma perfettamente aderente alle caratteristiche del genere.

Tuttavia chi riesce a condurre un'operazione così sottilmente penetrante attraverso il paradosso dell'ironia non lo fa per pungente derisione di un reale che non accetta o per sottolineare una necessaria distanza dall'ideale; neanche l'ironia spiritiana è amaro pianto o distaccato abbozzo, né accosta come in fastellato ammasso vero e falso; tutto l'atteggiamento del Nostro tradisce invece altre tendenze, d'altronde giustificate da questa particolare forma di discorso che, stendendo un velo di blanda derisione sulle umane debolezze, vuole altro significare.

Allora l'ironia spiritiana si qualifica come una squisita attività della mente matura che con festevole ragionamento e dissimulato tono disnuda il reale inducendo alla riflessione.

L'opera di Spirito rivela, dunque, altri piani di lettura, mostrando la fecondità propria dell'arte, che si esprime nell'animo di ognuno come ogni sinfonia nella sufficienza dell'orchestra, ed offrendosi ad un'indagine la cui articolazione assume forma di ampiezza e risonanza varia.

A noi interessa indagare questa fecondità.

Una prima indicazione ce la fornisce il Diogene dell'illustrazione di copertina.

Nel disviante mondo contemporaneo Spirito insegue una positiva immagine di uomo convinto, come il filosofo cinico, che i condizionamenti sociali, oggi più di allora, allontanano dall'uomo vero che poi non si trova molto distante da ciascuno di noi, nella strada appunto; o in quello spazio interno che ci accomuna.

Iniziamo questo nascosto disvelamento dal brano che dà il titolo a tutto il libro, L'uomo della strada, perché esso contiene due diverse immagini dello stesso uomo, una prodotta dalle mode contemporanee, l'altra, il "vecchio, caro uomo della strada"; l'una oggetto dei motteggiamenti spiritiani, l'altra esaltata per contrasto. Questa duplice parallela descrizione la si trova nei brani precedenti nei quali a grado a grado si pub cogliere l'opera costruttrice dell'ironia.

All'inizio è delineata una società che schiva ogni sforzo ed ogni faticoso impegno nella soluzione dei suoi gravi problemi [1],che naviga in errori antinomici, che ha posto la disonestà come guida al comportamento [3] in una descrizione così pregnante che lo stesso autore sembra esserne assorbito; infatti qui la finzione ironica predomina.

Con La conversione l'autore esce allo scoperto e senza abbandonare il tono distaccato e scanzonato, accusa i tempi di essere "impazienti e insofferenti" e la società di "costringere" e "coartare". Compare, poi, con un'iperbole di penetrante derisione, il mondo politico [5], naturale espressione della società che lo crea.

Se a questo punto al lettore è sorta l'esigenza di individuare qualche chiarificante spiegazione, ci sono i brani seguenti nei quali la satira lo fa riflettere che la nostra è un'epoca in cui le "nuove generazioni" godono di un "trattamento privilegiato" [6] operato proprio dagli anziani con il favore delle prime in un pericoloso scambio di ruoli in cui, una parte, i giovani, riesce solo a "ostentare maturità, di giudizio e atteggiamenti senili" (e l'immagine richiama alla mente i pavoneggiamenti di chi non può essere ricco che di vuotaggine); mentre scopriamo anche il perché del comportamento pateticamente giovanileggiante dell'altra parte, gli anziani, che vivono un presente "amaro di soddisfazioni" [7] non avendo nulla cui nutrirsi e di cui alimentare gli altri (doveroso compito stabilito dalla saggezza dei tempi); costretti costoro donchisciottescamente a collocare false immagini di sé in un passato tradito.

In questo carosello di vuotaggini c'è chi, vestale dell'insipienza contemporanea, si adopera a custodire la stabilità della situazione [8] generatrice di comportamenti sbrigativi e superficiali in cui, vanificando la fecondità dell'esperienza, si preferiscono i "rassicuranti schemi di cose scontate e di conclusioni previste" [10] e ci si riduce a squallidi "compromessi risicati", a frettolosi "aggiustamenti all'ultimo momento", alle amorfe "soluzioni intercambiabili".

Allora per contrasto sorgono nella mente di chi legge edificanti immagini di quelle ampiezze di comportamento che si sostengono solo per la vastità del nerbo che le anima. Ed è il contrasto che fa sentire l'esigenza di "costruire" nel contempo stimolata ed assecondata dalla predominante provocazione traslatoria del linguaggio tropico dei brani che seguono.

Con La violenza, infatti, prendiamo atto di una insospettata violenza, quella della bellezza, dinanzi alla quale - conveniamo con l'autore - nessuno certo assume un atteggiamento "ilare e spensierato". La verità di un asserto che sfuggiva all'ordinaria riflessione stimola l'attività di questa, per cui osserviamo, giustificando, che se l'uomo non può ridere della bellezza è perché ne sente l'intimo godimento che dagli occhi va all'anima e ad entrambi ritorna in un processo di rapimento e progressivo adombramento di attingibili edificanti partecipazioni che saranno "ingiusti rimpianti" e "struggenti nostalgie" solo per chi, disviato, non saprà accoglierne lo stimolo. "Violento, discriminante e selettivo" il comportamento di una bellezza, che non sa trasformarsi in forme interiori, indispensabili per far nascere in ognuno di noi l'uomo.

Da questo passo, che è il più ricco di stimoli, vediamo delinearsi, seguendo un processo antinomico, una diversa immagine di uomo, che non insegue vuoti infingimenti, ma costruisce il reale col reale, che gode della pienezza interiore (in opposizione a chi conosce solo l'"euforia di un soddisfatto dopopranzo" [14]); che non sarà mai condannato ad una vita "scolorita ed amorfa" (come quelli costretti ad entrare Nel giro per divenire strani "giganti della società") poiché sarà un uomo che esprimerà tutta la ricchezza, la complessità, l'imprevedibilità della natura umana" (in opposizione allo sterile "espressionismo manicheo" che "caratterizza la civiltà odierna") [16]; questo uomo sa decidere liberamente (invece di eludere la responsabilità della decisione)[17], è nutrito di vera cultura (non costretto a fare lo squallido "domatore" di vuote parole o a difendere la propria reputazione "senza mai far uso della parola" [19]), rifiuta le inutili disquisizioni sul futuro che per produrre frutti richiede progetti ed impegno soprattutto col lavoro serio e produttivo (che non può nascere da raffinate tecniche di sciopero) [21]; infine questo uomo nell'affrontare la realtà ha come guida il senso della misura, della concretezza, della coerenza e soprattutto il coraggio della scelta.

Siamo giunti al brano dal quale eravamo partiti seguendo i due elementi di un binario, l'uno scoperto l'altro coperto, di cui abbiamo detto all'inizio di questo segmento di discorso e ci rendiamo conto di aver tracciato un quadro di un uomo esattamente il contrario di quello descritto dai "moderni sociologi" simile, invece, al "vecchio, caro uomo della strada".

Gli altri brani servono a confermare, di derisione in derisione, sempre per via oppositiva, questa figura di uomo che fa parte della "maggioranza silenziosa" che si fa da sé, che si nutre delle vecchie virtù e soprattutto non è costretto a crearsi alcuna immagine poiché la sua brilla di sé, nel comportamento, espressione di quei valori che non temono alcun offuscamento.

La lettura del libro di Paolo Spirito assicura, dunque, come abbiamo cercato di dimostrare una doppia fruizione, quella immediata del divertimento e quella mediata della riflessione perché questo è il compito dell'ironia. Essa, quando in modo specifico esprime lo stato dell'animo che scopre la vita, non manca di suscitare echi nel lettore e lo farà anche in chi leggerà i bozzetti de L'uomo della strada alcuni dei quali sono apparsi su "Riscontri" e su "Cronache del sud" come pezzi autonomi diffondendo intorno a sé la risonanza del tocco abile del solista non l'armonia corale dell'orchestra.

 

N. B. I numeri tra parentesi si riferiscono ai singoli racconti.

 

In “Riscontri”, 1990

 

 

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